tag:blogger.com,1999:blog-30118458898479964642024-03-25T21:31:44.223+01:00dRap #dona, abbi pietà, abbi misuragaiaspreahttp://www.blogger.com/profile/14290470471235395971noreply@blogger.comBlogger558125tag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-69531080470673625552024-03-25T21:30:00.003+01:002024-03-25T21:30:43.083+01:0024/03/24 DOMENICA DELLE PALME MESSA CON PROCESSIONE<p>Nel vangelo si parla di una
grande folla che era venuta per la festa. Era la festa della Pasqua ebraica che
celebrava la liberazione dall’Egitto, e tutti i pellegrini andavano a
Gerusalemme a festeggiare. Udito che veniva Gesù presero dei rami di palma perché
questo era il modo con il quale si festeggiava un re che </p><span><a name='more'></a></span><p>tornava vincitore
dalla battaglia. Infatti, gli dicono “Benedetto colui che viene nel nome del
Signore”, che è la frase di un salmo riferita al Messia, al Cristo, al
salvatore che Dio avrebbe mandato per liberarli, non più come Mosè dagli
Egiziani, ma dai dominatori romani, e sarebbe diventato il nuovo re di Israele,
che avrebbe ricostituito la nazione di Israele. Credevano che Gesù fosse questo
Messia, e infatti gli gridano “Osanna” che vuol dire “Signore, salvaci”. Ma con
Messia di questo tipo non si va da nessuna parte: se ne stanno accorgendo anche
tanti ebrei guardando gli orrori che sta compiendo l’attuale primo ministro
israeliano Netanyahu. Invece, Gesù cosa fa? Realizza la profezia di Zaccaria
che abbiamo riascoltato nella lettura, che annunciava la venuta di un Messia
seduto su un puledro figlio d’asina, umile, che avrebbe fatto sparire i carri
da guerra. Per mostrare che Dio non tifa per nessuna squadra: per Dio, tutti
gli uomini sono suoi figli che devono assomigliargli nell’amore, portando i
pesi gli uni degli altri, come fanno gli asini, prendendosi cura gli uni degli
altri, considerandosi fratelli tutti, come continua a ripetere il Papa, l’unica
voce fuori dal coro in questo tempo nel quale stiamo vivendo “una terza guerra
mondiale a pezzetti”. Una voce, quella del Papa, che continua ad essere
inascoltata e non compresa, esattamente come accadde a Gesù. Infatti, scrive
l’evangelista, i suoi discepoli, tutte queste cose, al momento non le capirono.
E infatti, quando, pochi giorni dopo, si resero conto che Gesù non era questo
tipo di Messia, che proclamava che Dio non è tifoso di nessuna squadra, smisero
di gridare “Osanna” e lo abbandonarono. Tutti gli altri, iniziarono a gridare
“sia crocifisso!”. Le capirono dopo, quando Gesù fu glorificato, cioè dopo che
sulla croce fece vedere che la gloria di Dio è il suo amore capace di perdonare
tutti. E le capirono ricordandosi che “queste cose erano state scritte di lui”:
vuol dire che tutte le pagine della Bibbia in cui credono anche i nostri
fratelli ebrei, si possono capire solo dopo aver visto l’amore di Dio
manifestato da Gesù sulla croce. Non solo: le capirono “ricordando che queste
cose le avevano fatte a lui”. Cosa avevano fatto a Gesù? Lo avevano rifiutato,
abbandonato, tradito, rinnegato, ucciso, e lui, morendo, aveva preso su di sé
tutto il loro male e, invece di restituirlo, lo aveva fermato perdonandoli
tutti. Queste cose continuano, purtroppo, a non essere capite da tutti quei discendenti
di Abramo, tanti ebrei e tutti i fanatici terroristi islamici che continuano ad
ammazzarsi tra di loro e, quel che è peggio, proprio in nome dello stesso Dio,
un Dio mostruoso, che per fortuna non esiste, se non nelle loro menti bacate.
Ma continuano a non essere capite, ed è ancora peggio, da troppi altri
discendenti di Abramo che sono, per esempio, i cristiani russi e ucraini, uniti
dallo stesso Battesimo che li rende fratelli, e che si ammazzano tra di loro.
Non aiutati certamente dalle decisioni dei capi di Stato d’Europa e degli Stati
Uniti, i quali, continuando regolarmente a dimenticare le origini cristiane da
cui sono scaturiti i valori di giustizia, di pace, di solidarietà che sono alla
base delle nostre costituzioni occidentali, continuano ad invocare la pace in
un modo strano, cioè foraggiando la guerra, che è un po’ come se uno che per
problemi intestinali fosse costretto a correre continuamente in bagno, cercasse
di porre rimedio a questa cosa comprando e mangiando prugne cotte. Però, come
sempre, è facile guardare gli altri e giudicare, dimenticando quanto sia
complessa la realtà e, soprattutto, dimenticando che, prima di tutto, occorre
che ognuno guardi se stesso, visto che noi per primi ci proclamiamo discepoli
di Gesù, e quindi occorre che ognuno di noi si chieda se noi abbiamo capito o
no le cose che di Dio ci ha detto Gesù. Perché ciascuno di noi, nel suo
piccolo, vorrebbe un Dio che tifi la sua squadra e che risolva i problemi del
mondo. Dimenticando che Gesù ci ha fatto vedere che Dio agisce attraverso di
noi, man mano che gli uomini assecondano il suo Spirito, perché l’unico dono
che Dio fa a tutti è sé stesso. E che se il mondo continua ad andare avanti
nonostante i disastri compiuti dagli uomini, è perché sono molti di più gli
uomini e le donne che, consapevoli o no, si lasciano guidare dal suo Spirito
compiendo il bene e portando il male senza restituirlo, come un asino, come ha
fatto Gesù sulla croce. Questo è il Dio di Gesù. Perciò occorre che ognuno di
noi, prima che gli altri, si domandi se queste cose le ha capite. La Settimana autentica,
che oggi comincia, serve per aiutarci a rivivere quegli avvenimenti che ci
fanno vedere il volto meraviglioso di Dio che ci ha rivelato Gesù e che
celebriamo in ogni eucaristia. E quindi, che noi per primi ci chiediamo che
valore abbiamo dato e diamo alla processione che abbiamo compiuto, ai rami di
ulivo e di palma che porteremo a casa, cosa intendiamo quando gridiamo “Osanna”
a Gesù.</p><p class="MsoNormal" style="tab-stops: list 36.0pt;"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-13786234048700884902024-03-25T21:29:00.002+01:002024-03-25T21:29:38.371+01:0024/03/24 DOMENICA DELLE PALME MESSA DEL GIORNO<p>Chi sa di musica ed è amante in particolare della lirica, sa
che l’overture di un’opera contiene al suo interno le melodie principali che
poi verranno sviluppate negli atti successivi. Allo stesso modo, la
celebrazione della domenica delle Palme è come l’overture dei riti della
settimana santa, perché </p><span><a name='more'></a></span><p>contiene e anticipa quello che andremo celebrando nei
prossimi giorni. La lunga pagina del profeta Isaia che parla del servo di Dio,
sofferente, uomo dei dolori che conosce il patire, prefigura la passione di Cristo
che celebreremo venerdì pomeriggio. E poi c’è questa pagina di Vangelo che è un
racconto molto simbolico che parla della cena eucaristica e, quindi, della
morte e della risurrezione di Gesù. Si, perché questo banchetto, questa mensa,
questa cena che si svolge a Betania in casa delle sorelle di Lazzaro, altro non
è se non la descrizione di quello che accade ogni volta che una comunità si
trova a celebrare la Messa. C’è Lazzaro che si trova in una posizione
privilegiata perché è risorto ed è accanto a Gesù: Lazzaro rappresenta tutti i
defunti che in ogni celebrazione eucaristica rendono grazie con noi al Signore
della vita. C’è Marta, sorella di Lazzaro, che serviva, perché, siccome ha
creduto in Gesù risurrezione e vita, sta risorgendo anche lei, sta cioè
diventando come Gesù, e quindi, come Gesù, vive la dimensione dell’amore che si
fa servizio. Partecipare alla Messa e fare la comunione serve per farci
risorgere, per diventare uomini e donne che vivono in comunione con gli altri,
che vivono la dimensione del servizio verso gli altri. E poi c’è Maria, l’altra
sorella, che unge i piedi di Gesù con una quantità smisurata di prezioso nardo,
tanto che il suo profumo inondò la casa degli amici di Gesù. Una casa che prima
puzzava del fetore della morte di Lazzaro, e ora è inondata da un profumo di
vita. Ed è questo profumo il vero protagonista di questo Vangelo. E cosa
rappresenta questo profumo? Anzitutto rappresenta Dio, perché, in ebraico, la
radice della parola profumo, è la stessa del Nome di Dio. E, infatti, il
profumo è qualcosa che per sua natura non può non donare la sua fragranza a
tutti, cioè non sceglie a chi donarsi, non è selettivo: chi sta nel suo raggio
d’azione lo sente. E Dio ci ama così. Il profumo, poi, si sente anche al buio
e, nelle culture antiche, era legato al gusto della vita e della festa. Così è
l’amore di Dio: si spande anche su coloro che vivono nel buio dell’esistenza, e
arreca a tutti gioia e allegrezza. Ma c’è di più. Qui si parla di un profumo
particolare, quello del nardo, del vero nardo, e il vero nardo era ed è un olio
che si ottiene dalle radici di un fiore dell’India che cresce sopra i 5000
metri. Questo non solo spiega il suo valore economico, ma vuol dire che per
ottenere questo profumo così intenso, il fiore deve morire. Gesù aveva detto: se
il chicco di grano non muore non può portare frutto. Allo stesso modo, se il
fiore di nardo non muore, non porta profumo. Perciò, il profumo del nardo è
simbolo di quello che farà Gesù sulla croce. Questa cosa la si capisce ancora
di più leggendo lo stesso episodio raccontato nei vangeli di Marco e di Matteo,
dove Gesù viene unto col nardo da una donna anonima che frantuma un vasetto di
alabastro: un segno che anticipa quello che accadrà al corpo di Gesù che, sulla
croce, verrà frantumato, e da lui uscirà il profumo di Dio, cioè il vero nome
di Dio, che è amore. E mentre nei vangeli di Marco e Matteo quella donna unge
il capo di Gesù, per indicare che Gesù è il Cristo, cioè l’unto del Signore, il
suo consacrato, nel racconto di Giovanni, invece, Maria cosparge di nardo, non
la testa di Gesù, ma i suoi piedi, e glieli asciuga coi capelli. E’ lo stesso
gesto che nel Cantico dei Cantici la Sposa compie verso il suo amato, simbolo
del desiderio di diventare una cosa sola con l’altro. Non solo: anticipa il
gesto che, sempre nel vangelo di Giovanni, Gesù compirà verso i discepoli,
quando laverà loro i piedi. Di più: il nardo, simbolo di vita e di amore
cosparso sui piedi, indica che Maria è consapevole che il cammino di Gesù verso
la croce avrà come approdo non la sua morte, ma la risurrezione. E infine. Questa
donna è l’unica persona che in tutti i vangeli fa qualcosa per Gesù. Pensateci.
I Vangeli raccontano tutto quello che Gesù fa per gli altri. Questo è l’unico
episodio in tutti i vangeli in cui c’è qualcuno che fa qualcosa di gratis per
Gesù, tanto è vero che Gesù, nei racconti di Marco e Matteo, la loderà dicendo
che, ovunque si annuncerà il vangelo, si parlerà di questa cosa bellissima che
lei ha fatto. Perché? Perché lei ha capito tutto, ha capito la grandezza
dell’amore di Dio e ha corrisposto a questo amore. E ha capito che l’amore non
ha prezzo, infatti spreca trecento grammi di nardo che valevano trecento
denari, cioè lo stipendio annuo di un lavoratore di quel tempo. Chi, invece, non
ha capito niente dell’amore è Giuda, che vede tutto nell’ottica del guadagno. E
l’evangelista ci tiene a precisare che Giuda era uno dei dodici, per
avvertirci: state attenti perché anche voi che vi proclamate discepoli di Gesù,
potreste avere la stessa logica di Giuda. E dunque, cerchiamo di vivere ogni
eucaristia e le celebrazioni dei prossimi giorni senza tapparci il naso (a meno
che uno sia raffreddato), cioè a lasciarci inondare dal profumo di Dio e a
corrispondervi con gioia e gratitudine.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-5490781325352049602024-03-17T23:27:00.003+01:002024-03-17T23:27:14.753+01:0017/03/24 V DOMENICA DI QUARESIMA<p>Come mai Gesù, quando gli riferiscono che l’amico Lazzaro
era malato non interviene? Marta e Maria lo rimproverano per questo
atteggiamento, come capita a noi quando Dio non esaudisce le nostre richieste
di guarigione.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>
<span><a name='more'></a></span><p class="MsoNormal">Come mai Marta non si sente consolata quando Gesù le dice
che suo fratello sarebbe risorto?</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal">Come mai Gesù piange davanti al sepolcro di Lazzaro pur
sapendo che di lì a poco sarebbe risorto?<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal">Come fa Lazzaro a uscire dal sepolcro tutto bendato fino ai
piedi e perché Gesù dice a tutti non di far festa ma di lasciarlo andare?<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal">Ma soprattutto perché Gesù in tutto il Vangelo ha fatto
risorgere solo Lazzaro e altre due persone, e non fa risorgere subito tutti i
nostri morti? Che poi, pensandoci bene, più che una grazia sarebbe una beffa:
se risorgere vuol dire tornare in vita per morire di nuovo non è molto
conveniente, tutto sommato è meglio morire una sola volta.<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal">Proviamo a rispondere a queste domande partendo proprio dal
concetto di risurrezione. A quei tempi si credeva che la risurrezione fosse che
i morti, alla fine dei tempi, sarebbero tornati in vita e, secondo me, è quello
che pensiamo anche noi. Ecco perché Marta non si sente consolata quando Gesù le
dice che il fratello sarebbe risorto, e non lo siamo neanche noi pensando a
questa cosa quando muore un nostro caro, primo perché chi è morto ci manca
adesso e poi perché alla fine dei tempi saremo morti anche noi. Inoltre,
pensare la risurrezione come il ritorno in vita di un morto decomposto
sottoterra o incenerito non è una cosa molto esaltante. Ma questo era il modo
di pensare la risurrezione da parte degli ebrei. Con Gesù le cose cambiano.<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal">La novità di Gesù è nella frase centrale di questo Vangelo
quando dice: io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me anche se muore
vivrà e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Gesù non dice che un
giorno i morti torneranno a vivere, ma che il suo potere è quello di dare la
stessa vita immortale di Dio adesso a chi crede in lui, una qualità di vita
tale che la morte sarà solo del corpo. Quindi sta affermando che Dio non fa
risorgere i morti, ma fa risorgere quelli che sono vivi e che credono in lui,
come Lazzaro, cioè che gli sono amici, che aderiscono a lui vivendo come lui. Gesù
non interviene per guarire Lazzaro, per mostrare che la malattia e la morte
fanno parte della vita, ma per chi è abitato dalla stessa vita di Dio, cioè dallo
Spirito del Padre donato da Gesù, siccome la risurrezione è già iniziata
adesso, la morte del corpo sarà il compimento di questa risurrezione, perché sarà
il momento in cui si verrà completamente trasformati in Cristo, diventando
membra del suo corpo glorioso, come il bruco che diventa una farfalla. Perciò,
quella di Lazzaro, di per sé, non fu una risurrezione, semmai la rianimazione
di un cadavere. Un segno, non un miracolo, operato da Gesù per mostrare a tutti
che colui che avevano messo nel sepolcro pensandolo morto, in realtà non era
mai morto. Erano loro ad aver messo il masso sul sepolcro, come se la morte del
corpo fosse la fine di tutto. Purtroppo, la traduzione in italiano dal greco
della commozione e del pianto di Gesù trae in inganno, perché quella corretta
sarebbe che Gesù fremette nello spirito, sbuffò, si arrabbiò di fronte a tanta
incredulità. E penso che Gesù continui a sbuffare quando vede che anche noi che
ci dichiariamo suoi discepoli, di fronte alla morte del corpo ci disperiamo. E
ordina anche a noi di togliere la pietra e slegare le bende che impediscono ai
morti di continuare il cammino verso il Padre (lasciatelo andare): finché andremo
al cimitero piangendo come morti i loro cari, come lontani, scomparsi, mancati
all’affetto dei loro cari, continueremo a tenerli legati e non riusciremo mai a
sperimentarli come vivi. Infatti, dal sepolcro, se leggiamo bene il testo, non
si dice che uscì Lazzaro, ma il morto, perché Lazzaro era già risorto. Tanto è
vero che Lazzaro lo ritroveremo nel Vangelo che si leggerà nelle messe del
giorno di domenica prossima: la comunità era riunita a Betania per la cena e
Lazzaro era uno dei commensali. Questa cena è l’eucaristia nella quale, con
Gesù risorto e vivo, si rendono presenti i defunti, commensali di Gesù.<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal">Concludo.<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal">Coi Vangeli di queste domeniche, la liturgia quaresimale ci
ha guidato a riscoprire l’importanza del nostro battesimo che nasce proprio
dalla Pasqua che celebriamo in ogni eucarestia e di cui faremo memoria solenne
tra qualche giorno. L’acqua del fonte battesimale è simbolo della nostra
condizione mortale, perché nell’acqua un uomo muore e ha bisogno di qualcuno
che lo tiri fuori, che lo faccia riemergere, che lo faccia risorgere. Noi
occidentali abbiamo questo valore simbolico perché il bambino, e più in generale
il battezzando, anche un adulto, invece di essere immerso fino alla testa
nell’acqua, viene soltanto bagnato con l’acqua sulla testa anziché venire
immerso completamente e poi tirato fuori (e la parola battesimo vuol dire
proprio immersione). Riscoprire che il Battesimo è il segno che noi già adesso,
se aderiamo a Cristo, siamo uniti alla sua morte e risurrezione, che dunque Dio
fa risorgere noi che siamo vivi è la condizione per coltivare il seme del
Battesimo, per riscoprire la grazia di essere cristiani, altrimenti viviamo la
vita non come risorti, ma come morti viventi, con lo stesso spirito con cui
vive la vita chi battezzato non è.<o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-54177586240403211752024-03-10T11:39:00.003+01:002024-03-10T11:39:11.015+01:0010/03/24 IV DOMENICA DI QUARESIMA (CIECO NATO)<p>Sapete che prima di ricevere il Battesimo viene chiesto: rinunci
a Satana, al male, alle sue opere e seduzioni? E si risponde: Rinuncio! Quindi,
il battezzando viene unto con l’olio dei catecumeni che è il segno di Cristo
che dona alla forza di vincere il male. E all’inizio della Quaresima si ascolta
il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto alle quali Gesù rinuncia. Nella
seconda domenica di Quaresima si ascolta il vangelo in cui Gesù apre il cuore
della samaritana alla fede. E le promette un’acqua capace di dissetare la sua
sete e di donare l’eternità. Quest’acqua è lo spirito Santo. E il Battesimo è
il segno che noi siamo dimora dello spirito Santo, che Dio abita dentro di noi.
Nel Vangelo di domenica scorsa, terza di Quaresima, Gesù spiega che il popolo
di Dio è fatto dai discendenti di Abramo secondo la fede, non secondo la carne
o il sangue, cioè che il popolo di Dio è fatto da tutti quelli che hanno la
stessa fede di Abramo e che vivono nella verità questa fede, cioè che vivono
come figli di un unico Padre, amando gli altri come fratelli. Questa famiglia
di Dio è la Chiesa, e il Battesimo è il segno che Cristo ci considera membra
del suo corpo glorioso che, appunto, è la Chiesa. Vedete come tutti i brani di
Vangelo scelti dalla liturgia in questo tempo sono scelti fin dall’antichità,
non perché parlano del rito del Battesimo, ma perché contengono chiari
riferimenti battesimali, in quanto la Quaresima nacque come tempo in cui gli
adulti che si convertivano venivano istruiti nella fede per ricevere il Battesimo
la notte di Pasqua. E per tutti noi che il battesimo l’abbiamo ricevuto da
piccoli, la Quaresima è il tempo nel quale, riascoltando ogni anno queste
letture, veniamo stimolati a riscoprirne il senso e verificare se questo seme
sta crescendo e germogliando, oppure no, quindi per capire quali sono quegli
aspetti della nostra vita in cui dobbiamo convertirci (come veniva significato
col rito delle ceneri). Anche il Vangelo di questa quarta domenica contiene riferimenti
battesimali. L’uomo cieco della nascita è il segno del peccato originale. Il
peccato originale, anche se si chiama così, non è una colpa, ma una condizione
nella quale ogni uomo che nasce si trova a vivere: quella di essere cieco, cioè
di non sapere chi è lui e chi è Dio. Gesù guarisce il cieco da questa cecità
facendo anzitutto del fango, impastando la terra (che richiama la fragilità
dell’uomo) con la saliva (che richiama l’acqua della samaritana, cioè lo
Spirito santo). Gli spalma il fango sugli occhi: il verbo usato è “ungere”, e
l’unto è Cristo, l’uomo come Dio lo ha pensato. Quindi, con questo gesto, gli
fa vedere che ogni uomo è creato a immagine del Figlio, è fragile, è mortale, fatto
di terra, appunto, ma destinato alla vita eterna. Il crisma col quale il
battezzato viene unto ha appunto questo significato. Poi lo manda a lavarsi
nella piscina di Siloe, che era formata dall’acqua di una sorgente che, secondo
la tradizione, era uno dei primi quattro fiumi della creazione, e l’evangelista
identifica quest’acqua con Gesù. In questo modo gli fa vedere, e fa vedere
anche a noi quando veniamo immersi nell’acqua del fonte, che siamo immersi
nell’amore di un Dio che è Padre, fonte di vita, fratelli di Gesù, associati al
suo stesso destino di risurrezione, e dimora dello spirito Santo. E questo è il
significato del segno della croce che noi tracciamo sempre sul nostro corpo,
che dunque non è un gesto scaramantico o portafortuna o semplicemente
distintivo, ma è memoria del Battesimo: va fatto per ricordare a noi stessi che
siamo battezzati, e quindi chi è il nostro Dio, chi siamo noi e qual è il senso
e il destino della nostra vita. Perché Cristo ci ha illuminati. È così che i
primi cristiani venivano chiamati: illuminati. Per questo, subito dopo il
Battesimo, si consegna la candela che viene accesa al Cero pasquale, segno di
Cristo luce del mondo. Però vi faccio notare un’ultima cosa. Quell’uomo
riacquista la vista perché si fida di Gesù, e fa quello che lui gli dice. Al contrario, tutti gli altri personaggi del
vangelo, non si fidano e restano ciechi. Cosa vuol dire? Che i sacramenti che
riceviamo (come in questo caso il Battesimo) non hanno effetti magici: sono il
segno dell’azione di Dio, ma Dio agisce quando noi gli diamo liberamente
adesione. Dio ha il potere di trasformarci e illuminarci, ma questa
trasformazione dipende da noi, ed è graduale, dura tutta la vita, non avviene
di botto. Solo al termine del racconto l’ex cieco, che all’inizio aveva
definito Gesù un uomo, poi un profeta, poi Figlio dell’Uomo, arriverà a
chiamarlo “Signore”. Per questo occorre che ognuno impari a coltivare il seme
del Battesimo che ha ricevuto, perché cresca e fiorisca, altrimenti è come
avere in casa un diamante e usarlo come fermacarte. A questo serve la
Quaresima. La dimenticanza del suo significato rischia di farci vivere non da
illuminati, ma ancora da ciechi.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-43455032046224542712024-03-05T10:57:00.003+01:002024-03-05T10:57:25.416+01:003/03/24 III DOMENICA DI QUARESIMA (DI ABRAMO)<p>La Quaresima, come ripeto sempre, è il tempo liturgico che
la Chiesa ci offre per riscoprire il senso del nostro Battesimo, cioè perché
ognuno di noi si esamini e si chieda come procede il proprio cammino di fede e
quali sono i passi di conversione che è chiamato a compiere. Perciò, le letture
che vengono </p><span><a name='more'></a></span><p>proclamate nelle Messe quaresimali vanno interpretate in chiave
battesimale. E così, se il Battesimo è il segno del Signore risorto che ci
unisce a lui per sempre, donandoci lo Spirito santo, per farci diventare come
lui, figli del Padre, a lui somiglianti nell’amore, per essere uniti al suo
stesso destino di risurrezione, ecco che il vangelo di due domeniche fa era un
invito a rinunciare alle seduzioni del male. Ma questo è possibile, come diceva
Gesù alla samaritana nel vangelo di domenica scorsa, se impariamo a lasciarci
guidare dallo Spirito santo che ci viene donato come acqua viva che zampilla
per la vita eterna. Proviamo allora brevemente a capire cosa ci dice il vangelo
di oggi. Gesù, con fatica, cerca di far capire proprio a coloro che avevano
creduto in lui, cos’è la fede, spiegando che credere in lui vuol dire rimanere
nella sua Parola, cioè fidarsi di quello che lui dice e metterlo in pratica, e
per far questo usa la parola “verità”. La fede non è avere la verità in tasca,
ma essere nella verità. Dice ai suoi confratelli ebrei: non basta essere
discendenti di Abramo per essere veri figli di Abramo. I veri figli di Abramo
sono quelli che hanno la stessa fede di Abramo nell’unico Dio, ma voi non fate
le opere di Abramo, infatti cercate di uccidermi, quindi siete falsi perché non
siete nella verità. Come accadde già ai tanti altri figli di Abramo che, al
tempo di Mosè, si erano allontanati dalla via indicata dal Signore, come
leggevamo nel racconto della prima lettura. Rapportato a noi, Gesù ci dice: non
basta essere battezzati per essere figli di Dio, come se il Battesimo fosse un
rito magico, perché figli di Dio non si nasce, ma si diventa man mano che
diventate come me, che vivete come me, amando i fratelli, altrimenti siete
falsi, dite una santa verità, cioè che Dio è vostro Padre, ma non amando i fratelli,
di fatto non vi comportate come suoi figli. Se con la bocca proclamate la
vostra fede, ma con le opere fate il contrario, vuol dire che non vivete nella
verità. Non basta proclamarsi credenti, ma occorre essere credibili, e uno è
credibile non se dice la verità, ma se vive nella verità. I veri miei discepoli,
che dicono di avere fede in me, sono quelli che, con le loro opere, si
comportano da figli amando i fratelli come me, perché solo così fanno vedere
l’amore del Padre. E questa è la Chiesa. O dovrebbe esserlo. “Chiesa” significa
«convocazione». La Chiesa è l'assemblea fatta da uomini e donne che il Padre
convoca per formare il suo popolo, per diventare suoi figli come Gesù, ma figli
del Padre, come Gesù, si diventa man mano che rimaniamo nella sua Parola, cioè impariamo
ad amare come lui. In questo modo, nutrendoci di Gesù nell’Eucaristia, diventiamo
noi le membra del suo Corpo glorioso. Uno che non è cristiano dice: ma io come
faccio a credere che Gesù è risorto? Io non lo vedo. Faccio fatica a credere che
davvero Gesù, sull’altare, diventa quel pane. E noi gli rispondiamo: bisogna
aver fede! No, non è così. Il corpo visibile di Gesù risorto dobbiamo essere
noi: noi dobbiamo essere i suoi occhi, la sua bocca, le sue mani, i suoi piedi.
Siamo noi, con le nostre opere che dimostriamo che Gesù è risorto, è vivo. E
che davvero Gesù diventa il pane di cui ci nutriamo perché, quando usciamo di
chiesa, questo pane lo abbiamo assimilato ricevendo così la forza di essere
anche noi pane che si spezza per gli altri. E’ giusto che il mondo ci guardi e
ci giudichi, perché se diciamo di essere discepoli di Gesù, siamo credibili
solo se pratichiamo la sua Parola, come i Tessalonicesi dei quali san Paolo
tesse l’elogio nel brano che abbiamo ascoltato prima: li elogia non solo per la
fede che proclamavano, ma per la carità che vivevano. La Chiesa, dunque, non è
tanto e solo un’istituzione umana che spesso fa acqua da tutte le parti, ma è
il popolo dei battezzati che costituisce il Corpo di Gesù risorto. Chi dice
“Cristo si, ma la Chiesa no”, non capisce che non può esserci un capo (Cristo)
senza un corpo (noi), e nemmeno un corpo vivo senza un capo. Ma perché sia
così, occorre appunto che ognuno di noi permetta allo Spirito santo di far
fiorire e germogliare il seme del Battesimo, così che arrivino i frutti. Sempre
e comunque consapevoli di un’altra grande verità, e cioè che la Chiesa è un
popolo fatto da peccatori salvati, non da gente perfetta. Gesù ha sempre
chiamato i peggiori che ci fossero in circolazione, proprio perché nella
debolezza umana potesse manifestarsi la potenza di Dio. Vuol dire che c’è
spazio per tutti. Certo, non per rimanere inermi, ma per convertirci. Che è
appunto lo scopo della Quaresima.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-71371023293324461482024-02-25T18:23:00.008+01:002024-02-25T18:23:57.178+01:0025/02/24 II DOMENICA DI QUARESIMA (DELLA SAMARITANA)<p>La Quaresima, fin dall’antichità, era il tempo in cui i
catecumeni, cioè le persone che volevano diventare cristiane, venivano
catechizzate, istruite, per poter poi ricevere il Battesimo la notte di Pasqua. </p><span><a name='more'></a></span><p>E allora, per noi, che già siamo battezzati, la Quaresima è il tempo che serve
per riscoprire il senso del Battesimo, quindi cosa vuol dire essere cristiani. La
Quaresima non serve, come si dice normalmente, per “prepararci alla Pasqua”,
perché “prepararsi alla Pasqua” non vuol dire niente, è una frase vuota, come
se la Pasqua fosse una data del calendario e noi fossimo qui a fare il conto
alla rovescia. Lo stesso vale per l’Avvento, che non serve per “prepararci al
Natale”, ma per riscoprire la presenza viva di Gesù risorto che continua a
venire col suo Spirito per essere accolto, per prendere la nostra carne e fare
risorgere anche noi, fin da adesso. Ebbene, il Battesimo è il segno visibile di
questo amore divino in cui siamo immersi (infatti la parola “battesimo” vuol
dire “immersione”), un amore che ci avvolge e che pian piano deve fiorire nella
nostra vita, fino al momento in cui, con la morte del nostro corpo, questa
risurrezione si completa, raggiunge il vertice e saremo completamente
trasformati in Dio. Ora, i vangeli delle domeniche di Quaresima che si ripetono
ogni anno, e le altre letture che, invece, si ripetono ogni tre anni, sono
scelte proprio, fin dai tempi di sant’Ambrogio, per parlarci del Battesimo. Non
perché queste pagine della Scrittura parlino del Battesimo, ma perché aiutano a
comprenderlo in profondità. Il vangelo delle tentazioni di domenica scorsa
metteva in luce che il battezzato, immerso nell’amore divino, rinuncia al male
e alle sue seduzioni perché ha scelto di seguire Gesù. Invece, il racconto di
Gesù con la samaritana ha al centro il tema dell’acqua. Nel Battesimo, l’acqua
è un simbolo carico di significati. Prima di tutto è un simbolo di morte,
perché l’uomo, non essendo un pesce, nell’acqua muore, quindi l’acqua è simbolo
della nostra condizione mortale. È l’acqua del pozzo che la samaritana continua
ad andare a prendere, ma che non riesce a dissetarla. Gesù, invece, si propone
come acqua che zampilla per la vita eterna. Quest’acqua è il suo Spirito di
vita che donerà sulla croce, quando dal suo costato ferito usciranno sangue e
acqua. Chi beve di quest’acqua non avrà più sete in eterno. Prendete e bevetene
tutti. Perciò, l’acqua del Battesimo in cui si viene immersi e da cui si
riemerge, non è solo simbolo di morte, ma anche di risurrezione. Io comincio a risorgere
già adesso man mano che bevo di quest’acqua, cioè man mano che accolgo lo
Spirito di Dio e sento dentro di me la presenza viva dell’amore del Signore,
una presenza capace di trasformare il mio modo di vedere le cose e di vivere la
vita. Quando sento dentro di me di essere amato così, allora scopro dentro di
me l’energia e la forza di amare a mia volta, comincio a risorgere, a diventare
una nuova creatura. Finalmente posso vivere i comandamenti di Dio, e qui c’è il
collegamento con la prima lettura. Il pozzo, nella simbologia ebraica,
rappresentava la Legge di Dio, i comandamenti, che sono le dieci parole di vita
che Dio dona agli uomini, ma che invece diventano parole di morte, perché non
abbiamo la forza per viverle. Promettiamo di rinunciare al male e alle sue seduzioni,
ma non ce la facciamo, finchè non avvertiamo dentro di noi la forza dello
Spirito dell’amore del Signore. La donna, a questo punto, si dichiara
disponibile ad accogliere quest'acqua che Gesù le vuole offrire, ma Gesù le
chiede di andare a chiamare il marito. Lei replica che non ha marito e Gesù le
dice: hai ragione, infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è
tuo marito. Totale, sei, come sei erano le anfore alle nozze di Cana. E come
alle nozze di Cana Gesù aveva chiamato “donna” sua madre, così qui chiama
“donna” la samaritana, e “donna” vuol dire sposa. Ma mentre Maria rappresentava
quella parte di Israele che era la sposa fedele all’unico sposo, il Signore, la
samaritana rappresenta il popolo dei samaritani che, invece di adorare l’unico
Dio, l’unico sposo, adorava altri dèi nei templi che erano stati costruiti su
sei colli, e il “sei” è il simbolo della nostra umanità, fragile e carnale. Quindi,
vedete, questo dialogo ha un valore simbolico: Gesù non sta facendo un discorso
moralista sulla vita affettiva della donna, ma le sta dicendo: se vuoi
accogliere l’acqua che io ti dono, lo Spirito che dà la vita e la gioia, voi
samaritani dovete amare come sposo l’unico Dio, non cercare surrogati, gli
idoli, che sono pozzi che non dissetano, cisterne screpolate che perdono acqua.
Gesù, dunque si presenta come il settimo sposo, l’unico, che offre il suo amore
a tutta l’umanità. Una vera e propria rivoluzione del modo di pensare Dio e la
salvezza che porta san Paolo a proclamare, come abbiamo letto: “un solo
Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è
al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti”. Certo,
perché questo dono è fatto a tutta l’umanità, anche a chi non ha ricevuto il
Battesimo, perché il Battesimo è il segno di questa verità. La differenza tra
un battezzato e un non battezzato è che il battezzato di questa cosa ne è
consapevole. O, almeno, dovrebbe.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-15435981218147275172024-02-18T19:12:00.006+01:002024-02-18T19:12:54.213+01:0018/02/24 PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA<p>Quaresima vuol dire 40 giorni. Nella Bibbia il numero 40
riferito ai giorni o agli anni è il simbolo della vita vista nella prospettiva
della decisione della scelta verso una meta che comporta inevitabilmente prove
e tentazioni che vorrebbero farti tornare indietro. Che poi è la stessa
simbologia del deserto. In </p><span><a name='more'></a></span><p>questa chiave occorre interpretare il Vangelo che
apre ogni anno la Quaresima che parla di Gesù Nel deserto per 40 giorni e 40
notti che viene poi tentato dal diavolo. Non è un racconto storico ma simbolico
anche questo: il diavolo sono tutte quelle persone, avversari, ma anche
discepoli di Gesù, che nel corso della sua intera vita, durata meno di 40 anni,
vorranno distoglierlo dalla sua missione di annunciare il vero volto del padre,
perché il volto di Dio che Gesù annunciava era diverso da quello che si
aspettavano. Guardiamo più da vicino questa pagina evangelica. <span style="color: red;">La prima tentazione. “Se sei figlio di Dio, dì che queste
pietre diventino pane”, cioè, pensa a te stesso per salvarti, come se il potere
di Dio fosse quello di compiere prodigi a proprio vantaggio. Satana sono quelli
che, quando Gesù viene messo sulla croce, gli diranno: se sei figlio di Dio,
salva te stesso e scendi dalla croce. Gesù, invece, insegnerà che il potere di
Dio è di dare il suo Spirito capace, in chi lo accoglie e ascolta la sua
parola, di condividere il pane con l’affamato. La seconda tentazione. “Compi
qualcosa di spettacolare buttandoti giù dal pinnacolo del tempio, così verranno
i tuoi angeli a salvarti, e tutti crederanno in te”. Satana saranno gli
avversari di Gesù quando gli chiederanno di compiere segni spettacolari per
dimostrare di essere Dio perché, nella logica collettiva, Dio è quello che fa
miracoli, altrimenti non è Dio. Gesù risponderà loro: l’unico segno che vi darò
sarà la mia morte in croce, perché l’unico segno di Dio è quello di un amore
capace di perdonare anche il peggiore dei mali. La terza tentazione. “Ti darò
tutti i regni del mondo se mi adorerai”. Certo, perché la logica del possesso e
della conquista non è divina, è diabolica, e qui Satana è l’apostolo Pietro
che, quando Gesù dirà che sarebbe andato a Gerusalemme non per conquistarla, ma
per essere condannato a morte, lo prese in disparte e gli disse: “Non sia mai”,
e Gesù gli rispose chiamandolo proprio Satana, perché il potere di Dio è dare
agli uomini il suo Spirito d’amore perché imparino a costruire il suo Regno di
amore, non di soggiogare gli uomini con la violenza. </span>Dunque, come la
Quaresima è il tempo che la chiesa ci offre per verificare se davvero è quello
di Gesù il Dio nel quale crediamo o se, al contrario, per esempio, siamo tra
quelli che, di fatto, aderiamo proprio alle tentazioni a cui Gesù ha rinunciato.
Per questo chi sceglie di diventare cristiano, cioè di aderire a Cristo, e
viene battezzato, rinuncia a Satana e cioè al male. La Quaresima nacque,
infatti, come tempo nel quale i catecumeni, cioè coloro che avevano scelto di
diventare cristiani perché si erano convertiti, venivano preparati per ricevere
il battesimo la notte di Pasqua. Per noi che siamo già battezzati è il tempo in
cui riscoprire cosa vuol dire essere battezzati e convertirci al Vangelo in
quegli aspetti che sono ancora in ombra. “Convertiti e credi al Vangelo”, non a
caso, è la frase che viene ripetuta a ciascuno all’inizio della Quaresima
mentre vengono imposte le ceneri sul capo. Che non sono un segno mortificante,
ma vivificante, perché la simbologia delle ceneri nacque dal mondo contadino
che spargeva le ceneri sul terreno come fertilizzante per la terra. Vedete
quindi come la Quaresima non è un tempo lugubre o di mortificazioni come una
certa spiritualità ha tramandato. e nemmeno un tempo di penitenze, se per
penitenza si intende sottoporsi a sacrifici per espiare le proprie colpe e
rendersi graditi a Dio, penitenze che poi si sono edulcorate in fioretti, come
se al Signore importasse qualcosa se noi non beviamo un caffè o non mangiamo
una caramella. Penitenza significa semmai pentirsi di una vita lontano dal
Vangelo e convertirsi alla parola di Gesù, perché possiamo risorgere, fare
Pasqua. San Paolo, lo abbiamo ascoltato, dice che “se anche il nostro uomo
esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno”,
ma il rischio sempre presente è che anche il nostro uomo interiore vada
disfacendosi: dipende da come lo alimentiamo. Se lo alimentiamo con la Parola
del Signore, questa Parola diventa in Quaresima quel “fertilizzante” capace di
farci risorgere e condurci di nuovo a dire “alleluia”, che significa Lodate Dio,
che è il canto della Pasqua, il canto dei battezzati, dei risorti.</p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-90713450717748633942024-02-11T20:05:00.005+01:002024-02-11T20:05:57.300+01:0011/02/24 ULTIMA DOMENICA DOPO L'EPIFANIA (ANNO B)<p>Termina questa settimana il tempo dopo l’Epifania. Infatti,
quella di oggi si qualifica come ultima domenica, e domenica prossima entriamo
nel tempo di Quaresima. Epifania vuol dire manifestazione, e si riferisce alle
prime manifestazioni pubbliche della divinità di Gesù. Che non vuol dire che
Gesù, </p><span><a name='more'></a></span><p>facendo certe cose, manifesta di essere Dio: vorrebbe dire che noi
sappiamo già chi è Dio, mentre Dio nessuno lo ha visto o lo conosce. Tutto
quello che noi sappiamo di Dio è ciò che di Dio ci ha fatto vedere Gesù, perché
noi crediamo in lui che ha detto: chi vede me, vede il Padre. E’ Gesù
l’epifania di Dio. E’ Gesù che dobbiamo guardare e conoscere per poter dire
qualcosa di Dio. Tutta la vita di Gesù è epifania di Dio. I vangeli delle
passate settimane ci hanno raccontato le prime epifanie: quella davanti ai
Magi, quella del Battesimo al Giordano, quella nelle nozze di Cana, quella del
gesto dei pani e dei pesci; domenica scorsa il pranzo di Gesù in casa del
fariseo e il perdono alla prostituta che manifesta che Dio non guarda i meriti
o i peccati, ma i bisogni delle persone: nessuno è escluso dal raggio del suo
amore. Infine, l’epifania di oggi, dove i protagonisti del vangelo sono ancora
un fariseo, ma stavolta un altro peccatore, il pubblicano, che manifesta ancora
di più questa verità. Quale verità? Che il cammino di fede non è quello che
pensava il fariseo, cioè una faticosa scalata verso l’alto fatta di rispetto
delle regole per ottenere una ricompensa, un cammino nel quale sono in tanti a
restare indietro perché non ce la fanno (come il pubblicano), ma che, al contrario,
è Dio che si fa incontro a noi, che ci cerca e ci accoglie nella situazione in
cui ci troviamo, bella o brutta, buona o cattiva che sia, per dare a ciascuno tutte
le risorse necessarie per poter vivere al meglio la nostra esistenza, per
cambiare ciò che possiamo cambiare e aiutarci ad accettare ciò che non possiamo
cambiare, per cui è solo la fede nel suo amore che ci salva, non le nostre
opere. Non è che Dio perdona chi è pentito (il pubblicano) e non perdona chi
non è pentito (il fariseo). Dio è solo amore, e quindi può solo dare amore a
tutti. E’ come il sole che scalda tutti, bravi e cattivi, e come la pioggia che
bagna tutti, bravi e cattivi. Dio non fa differenze. Ma se io mi metto
all’ombra, non vengo scaldato dal sole, e se io prendo l’ombrello non posso
bagnarmi. Un bicchiere d’acqua disseta chiunque lo beva, ma se uno rifiuta di
bere, muore di sete, non per colpa dell’acqua, ma per colpa sua. Il pentimento
non serve per convincere Dio a perdonare, ma esprime il bisogno del suo amore,
e del suo perdono può godere solo chi ne riconosce il bisogno. Solo così è data
anche a noi la possibilità di diventare a nostra volta epifania, manifestazione
dell’amore del Signore, quando a nostra volta anche noi impariamo ad avere
verso gli altri lo stesso sguardo che Dio ha su di noi, a differenza del
fariseo della parabola che, invece, disprezzava il suo fratello. Perché ognuno
di noi, scrive san Paolo nel breve testo della lettera ai Romani di oggi, “renderà
conto di sé stesso davanti a Dio”. Vuol dire che, se Dio è Padre, noi ce ne
renderemo conto se avremo vissuto come suoi figli amando i fratelli, non
disprezzandoli o giudicandoli come il fariseo, tanto meno, come dice sempre san
Paolo, essendo per loro causa di inciampo o di scandalo.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-59650315999854192062024-02-06T20:54:00.003+01:002024-02-06T20:54:41.998+01:004/02/24 PENULTIMA DOMENICA DOPO L'EPIFANIA (ANNO B)<p>Questo brano di Luca è uno dei più scandalosi di tutto il
vangelo e si svolge durante un pranzo. Gesù amava molto i banchetti, e proprio
durante i banchetti fece le cose più importanti, basti pensare all’ultima cena.
Qui si trova a casa di un fariseo che lo aveva invitato. Tenete presente che
sono tre le </p><span><a name='more'></a></span><p>volte in cui i farisei invitano Gesù a pranzo, e ogni volta Gesù
manda loro il boccone di traverso. I farisei erano i perfetti osservanti della
legge, quelli che osservavano attentamente tutti i precetti della legge di
Mosè. Non erano persone cattive, ma avevano una religiosità che è ancora molto
diffusa tra i credenti di tutte le religioni: per loro, Dio è un padrone che
premia chi osserva le sue leggi e punisce chi disobbedisce; quindi, si sentono
autorizzati a condannare chi non si comporta come loro, cioè chi, secondo loro,
non fa la volontà di Dio. Gesù, nei loro confronti, ebbe sempre parole molto
dure e li accusava di spacciare come volontà di Dio le tradizioni e le leggi
che si erano inventati loro. I pranzi, a quei tempi, avvenivano soltanto tra
maschi. Luca scrive che Gesù entrò in casa del fariseo e si mise a tavola. Non
aggiunge altro: vuol dire che non c’era stato nessun segno di cortesia nei suoi
confronti. Improvvisamente, nella casa del fariseo, dove non entra nulla di
impuro, dove tutto è perfetto, arriva la visita inattesa e inopportuna non solo
di una donna, ma di una prostituta, col suo vaso di profumo che serviva per
massaggiare i clienti e che si mette ai piedi di Gesù, baciandoglieli e cospargendoli
di profumo, compiendo, dunque, un gesto scabroso di intimità, davanti a tutti. Però
li bagna con le lacrime: vuol dire che quella donna era una persona triste e
disperata. E li asciuga con i suoi capelli. Anche questo è un elemento
importante: a quell’epoca le donne andavano sempre velate, solo le prostitute
portavano i capelli sciolti. Il pio fariseo reagisce scandalizzato, usando un’espressione
di disprezzo verso Gesù e la donna: «Se costui fosse un profeta saprebbe chi è
e che razza è la donna che lo tocca: è una peccatrice». Non guarda la persona,
ma la etichetta. Allora Gesù gli racconta una brevissima parabola, quella dei
due debitori verso un creditore. Uno gli doveva cinquanta denari (la paga
giornaliera di un operaio era un denaro, quindi poco più di un mese di
stipendio), e l’altro cinquecento. Il creditore condonò entrambi. E Gesù chiede
al fariseo, e chiede anche a noi: “chi è che gli sarà più riconoscente? chi lo
amerà di più?”. Simone risponde di mala voglia, dicendo: «Suppongo che sia
colui al quale ha condonato di più». E Gesù dice: «Hai giudicato bene». E poi,
scrive l’evangelista, si volge verso la donna, non verso la peccatrice: Simone
aveva visto una prostituta intenta a compiere un’azione peccaminosa, mentre lo
sguardo di Gesù è molto diverso: Gesù vede una donna, una donna disperata, non
una prostituta. Bisogna sapere che, a quei tempi, alle donne che restavano
vedove e non potevano risposarsi e non avevano nessuno che le potesse
mantenere, per poter sopravvivere erano costrette a fare le prostitute, e così anche
le donne che venivano ripudiate e non potevano risposarsi. Per questo Gesù,
alla fine, non dirà alla donna di andare e non peccare più, perché non le
sarebbe stato possibile: nessuno l’avrebbe mai presa in moglie e anche la
famiglia non se la sarebbe mai ripresa in casa. Gesù rivela che Dio non guarda
i meriti o i peccati, ma i bisogni delle persone: nessuno è escluso dal raggio
del suo amore. “Vedi questa donna?”, dice a Simone, per fargli capire che anche
lui deve imparare a vedere una donna, non una peccatrice. E gli rinfaccia tutti
quei segni di ospitalità, di accoglienza e tenerezza che quella donna, a
differenza di Simone, gli aveva riservato, in modo addirittura esagerato. E,
rifacendosi alla parabola dei due debitori, sentenzia: «Per questo io ti dico:
sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al
quale si perdona poco, ama poco». La peccatrice e il fariseo sono entrambi amati
e già perdonati dal Signore, perché il Signore perdona in anticipo, ma soltanto
la donna è cosciente di questo perdono ricevuto e soltanto lei, peccatrice, gli
dimostra la sua riconoscenza. Invece, il fariseo, che crede di meritare l’amore
e il perdono di Dio per i suoi sforzi, i suoi meriti, non è cosciente del
perdono gratuito. La fede di quella donna nell’amore di Dio è ciò che la salva.
Lo spiega bene san Paolo nel brano della lettera ai Galati: è la fede
nell’amore di Dio che ci salva. Anche il profeta Osea, abbiamo letto, diceva
che Dio vuole l’amore, non i sacrifici. Ecco, io credo che sia bellissimo
ascoltare questo vangelo nella giornata per la Vita che oggi si celebra. Noi
siamo portati, come il fariseo, a giudicare le persone, e a giudicare noi
stessi, in base a quello che produciamo, al profitto, ai meriti, alla
convenienza. Per cui un migrante, una donna che mi ha rifiutato, un bambino non
desiderato o disabile, un malato, vengono guardati non come persone, ma come
problemi che ci ostacolano, e non come persone da amare. Almeno e proprio noi
che siamo qui, siamo invece chiamati ad assumere verso gli altri lo stesso
sguardo che Dio, con Gesù, ha verso ciascuno di noi.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-22161317802996005522024-01-28T00:36:00.004+01:002024-01-28T00:36:22.835+01:0028/01/24 IV DOMENICA DOPO EPIFANIA FESTA SACRA FAMIGLIA ANNO B<p>Di come visse e cosa fece Gesù dagli 0 ai trent’anni in cui
abitò a Nazaret, prima di cominciare la sua missione, non sappiamo praticamente
nulla, i vangeli non ne parlano. Solo Luca racconta questo strano episodio accaduto
quando Gesù compì 12 anni. Che se lo prendiamo alla lettera ci mostra una
famiglia </p><span><a name='more'></a></span><p>un po’ sconclusionata, simile a tante nostre famiglie che hanno figli
adolescenti, più che una sacra famiglia: un figlio che rimane a Gerusalemme
senza avvertire i genitori, i genitori che si accorgono dell’assenza del figlio
soltanto dopo una giornata, e il figlio che, addirittura, rimprovera i
genitori. In realtà, Luca racconta questo episodio non per parlare della
famiglia di Gesù, ma per anticipare la missione di Gesù che verrà poi
raccontata in tutto il vangelo: la vita di Gesù sarà un viaggio verso
Gerusalemme dove, nel tempio, ascolterà e risponderà con intelligenza ai suoi
avversari, dove resisterà fino in fondo, fino alla morte sulla croce, per occuparsi
delle cose di suo Padre, Dio, cioè per mostrare il vero volto di Dio. Lo
cercano e lo trovano dopo tre giorni dove non se lo aspettavano, come le donne
che il terzo giorno, al sepolcro, dove pensavano di trovare il corpo di Gesù,
si sentiranno dire: perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è
risorto. Gesù si fa trovare da chi lo cerca, ma non si trova mai dove uno
penserebbe, nel senso che Gesù ribalta i nostri schemi, i nostri pregiudizi, i
nostri modi di pensare Dio, le cose, la vita, la morte, perché ci fa vedere
tutte le cose in un modo nuovo. E dei suoi genitori si dice che non compresero
quello che aveva loro detto perché era troppo grande la novità del messaggio di
Gesù, però di Maria si dice che custodiva tutte queste cose, cioè ci rifletteva;
era sconcertata, ma non rifiutò la novità di Gesù. E infatti, pian piano, Maria
passerà dall’essere madre di Gesù all’essere sua discepola. A grandi linee,
questo è il significato di questo racconto, che però può dirci alcune cose
molto importanti per ogni famiglia. Tra le tante, ne ho individuate tre che mi
sembra bello comunicarvi. La prima. Che, anche se per una famiglia cristiana
Gesù è il fondamento dell’amore, basta niente per perderlo (così come basta
niente per ogni famiglia anche non cristiana smarrire, perdere il senso della
propria unione), e quindi andare in angoscia, in crisi, di fronte alle
difficoltà, e ci si domanda se vale ancora la pena andare avanti e continuare
ad amarsi. La sacra famiglia è sacra non perché non sbaglia, ma perché, quando
si accorge di aver perso Gesù per strada, è capace di tornare indietro a
cercarlo, mentre spesso, quando sopraggiungono crisi angoscianti, si tende a
guardare i propri fallimenti e ad arrendersi, incolpandosi l’un l’altro, e ad
andare avanti senza provare a tornare indietro e fare come Maria che, seppur
sconcertata, non smetteva mai di riflettere su quello che stava capitando. La
seconda cosa. Alla fine del racconto, dopo aver detto “io devo occuparmi delle
cose del Padre”, Gesù torna a Nazaret, cioè nella vita quotidiana. Dicevo
all’inizio che i vangeli non ci dicono cosa fece Gesù per trent’anni a Nazaret,
ma ci dicono che visse quegli anni, nella sua famiglia, occupandosi delle cose
del Padre, crescendo non solo in età, come tutti, è scontato, ma in sapienza e
grazia, e questo non è scontato per nulla, perché si può anche crescere in
demenza e disgrazia. Vuol dire che è proprio la nostra vita quotidiana
famigliare il luogo in cui si impara a vivere: il problema è come. La terza
cosa, il terzo pensiero, lo prendo, invece, dalle parole iniziali della lettera
agli Ebrei, dove si dice: “Fratelli, colui che santifica (cioè Gesù) e coloro
che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo (Gesù) non
si vergogna di chiamarli fratelli”. La famiglia di Gesù è la più allargata e
meno tradizionale che ci sia: è quella in cui gli uomini e le donne imparano ad
amarsi come fratelli e sorelle. E questa famiglia allargata è la Chiesa,
famiglia composta da tante famiglie. Oggi più che mai le famiglie rischiano di
non farcela a sostenere le fatiche che la vita comporta, e allora, a maggior
ragione, è fondamentale riscoprire la comunità della Chiesa che si dà nella
comunità delle nostre parrocchie come opportunità straordinaria per non sentirsi
sole, per stare insieme, per condividere gioie e difficoltà, per conoscersi,
creare amicizie, farsi aiutare e aiutare, crescere in sapienza e grazia,
anziché rinchiudersi e disperdersi, la domenica, per esempio, nei centri
commerciali. Che bello se la domenica tornasse ad essere, a partire
dall’eucaristia, il giorno per eccellenza in cui tante famiglie delle nostre
parrocchie possano gustare la gioia dello stare insieme. Che bello se questa
cosa non restasse un’utopia, ma diventasse realtà. Ma tutto dipende da chi?
Anzitutto da noi che siamo qui oggi, non certamente da quelli che anche oggi purtroppo
non ci sono.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-7332822981770269112024-01-20T18:34:00.012+01:002024-01-20T21:57:25.104+01:0021/01/24 III DOMENICA DOPO EPIFANIA (ANNO B)<p class="MsoNormal">5 anni fa, Papa Francesco volle che questa domenica dell’anno
fosse dedicata a mettere in evidenza la centralità della Parola di Dio per la
vita del credente. Simbolicamente abbiamo evidenziato questa cosa portando in
processione l’Evangeliario, che contiene i brani di vangelo di ogni domenica
dell’anno, ma</p><span><a name='more'></a></span><p class="MsoNormal">la centralità della Parola è quando noi, di fatto, questa Parola
la amiamo, la leggiamo, la meditiamo, la preghiamo, la mettiamo in pratica, e
non la lasciamo rinchiusa in un libro impolverato. Del resto, ignorare la
Parola di Dio vuol dire ignorare chi è il Dio nel quale diciamo di credere. Ma
questa Parola va prima di tutto capita, per non prendere fischi per fiaschi. Per fare questo non ci si può accontentare
dell’omelia della domenica: ognuno può e deve trovare qualche strumento che spieghi
e commenti i testi della Bibbia o le letture della domenica. In Avvento io ho
fatto alcuni video giornalieri per spiegare la Parola del giorno e i lunedì
della Parola per spiegare le letture della domenica, e in seguito riprenderò
questi appuntamenti, però nella nostra comunità ci sono da anni i gruppi di
ascolto della Parola, purtroppo pochissimo frequentati. Insomma, di possibilità
ce ne sono per tutti. Un esempio tra i più clamorosi che mostra come la Parola
del Signore, per essere pregata e vissuta, prima di tutto vada compresa, ce lo
forniscono proprio le letture di oggi, in particolare la pagina del vangelo.
Normalmente viene intitolata: il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei
pesci. In realtà, se la leggiamo e studiamo attentamente, non è né un miracolo né
una moltiplicazione. Gesù, in
precedenza, nella prima beatitudine, aveva insegnato a condividere
generosamente quello che si è e quello che si ha con tutti. Qui, nel deserto,
Gesù vide la folla, ne ebbe compassione e curò i loro malati, e i discepoli che
fanno? Invece di fare lo stesso, quando è il momento di mangiare, quasi gli ordinano
di mandare via la folla perché si arrangiasse nell’andare a comprare il cibo.
Ma Gesù non è d’accordo: “non è necessario”, dice, “voi stessi date loro da
mangiare!”, che vuol dire non solo che dovete pensare voi a dare loro da
mangiare, ma che il cibo che dovete dare agli altri da mangiare siete voi
stessi, dovete donare voi stessi agli altri, prendervi cura degli altri, della
loro fame. Ma come facciamo? Abbiamo 5 pani e due pesci. Ora, nella Bibbia i
numeri non hanno mai un valore matematico. Come quando noi diciamo “ci sono qui
quattro gatti”, non vuol dire che ci sono 4 gatti di numero, ma poche persone.
Siccome 5+2 fa 7 e il numero 7 nella cultura ebraica significa “tutto”, vuol
dire che quei pani e quei pesci sono tutto quello che hanno. Allora Gesù se li
fa portare, compie gli stessi gesti che farà nell’ultima cena (non a caso tutta
la scena si svolge di sera), spezza i pani, li divide (quindi, come vedete, non
è un miracolo, perché Gesù non moltiplica niente, ma spezza, divide, un’azione
che possiamo fare tutti), li dà ai discepoli, i discepoli alla folla e tutti si
saziano in abbondanza. Dividendoli con la folla, si moltiplicano. Ma se prima
non li avessero portati a Gesù per dividerli, li avrebbero mangiati solo loro. Forse
sarebbe più appropriato intitolare questa scena evangelica “la matematica di
Dio”. Cosa ci insegna? Noi, come il popolo d’Israele nel deserto, a Dio
chiediamo non solo frutta, verdure, carne, perché non ci accontentiamo della
manna, ma anche salute, soldi, lavoro, di farci andar bene le cose. Oppure gli chiediamo
di pensarci lui a fare agli altri quello che invece dovremmo fare noi. Lo
ringraziamo quando otteniamo quello che vogliamo, che poi però non ci basta
mai, perché ci sarà sempre qualcosa che manca o diremo che era meglio quando si
stava peggio, oppure ci arrabbiamo o perdiamo la fede se Dio non esaudisce le
nostre richieste, infatti nella vita e nel mondo sono più le persone che
bestemmiano di quelle che ringraziano. Tutto nasce da un errore di fondo, lo
stesso per cui Dio si arrabbiò con Israele, e anche Gesù con i discepoli, e san
Paolo ci ammonisce dicendo di non continuare a commettere lo stesso errore.
L’errore è trattare Dio come un bancomat in cui inserire il PIN per fare uscire
i soldi, chiedere a Dio di fare quello che, invece, siamo chiamati a fare noi. Quando
accade, questo si che è davvero un miracolo. Infine, non dimentichiamo che questa
è la quarta epifania che la liturgia ci fa celebrare: dopo la manifestazione
della sua divinità davanti ai Magi, nel suo Battesimo al Giordano, alle nozze
di Cana domenica scorsa, il racconto della condivisione dei pani e dei pesci manifesta
in anticipo quello che Gesù farà nell’ultima cena, quindi il significato
dell’eucaristia: noi offriamo al Signore tutto quello che siamo e che abbiamo
nel segno del pane e del vino, ed egli ci restituisce se stesso perché,
nutrendoci di lui, possiamo fonderci con lui, diventare come lui, capaci come
lui di donare noi stessi agli altri, diventando così noi epifania di Dio. </p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-89708009914301943962024-01-14T13:16:00.003+01:002024-01-14T13:16:13.015+01:0014/01/24 II DOMENICA DOPO L'EPIFANIA<p>La festa dell’Epifania continua perché l’Epifania comprende le
prime manifestazioni pubbliche della divinità di Gesù, non solo quella davanti
ai Magi, ma anche quella del Battesimo al Giordano celebrata domenica scorsa, quella
della condivisione dei pani e dei pesci che sarà domenica prossima. Oggi </p><span><a name='more'></a></span><p>celebriamo
il momento in cui Gesù, col segno compiuto alle nozze di Cana, manifestò la sua
gloria, come scrive Giovanni, l’unico evangelista a raccontare questo fatto. Ma
è possibile che la gloria di Dio si manifesti trasformando più di 700 litri di
acqua (perché 6 anfore che contenevano ciascuna da 80 a 120 litri fanno più di
700 litri) in ottimo vino per dar da bere a un gruppo di persone già ubriache,
per rendere contenta una coppia di sposi? Certo, se leggiamo questo racconto,
come tanti altri racconti biblici, prendendolo alla lettera, parrebbe una
barzelletta. Vediamo, invece, come cambiano le cose se analizziamo bene questo
racconto. Anzitutto, le nozze, nel linguaggio biblico, sono il simbolo biblico dell’alleanza
tra Dio e il suo popolo: Dio è come uno sposo che ama ardentemente la sua
sposa, Israele. Se notate, nel racconto non si parla degli sposi, appunto
perché gli sposi sono Dio e Israele. Le nozze tra Dio e Israele erano avvenute davanti
a Mosè sul monte Sinai, quando Dio aveva compiuto l’alleanza d’amore col suo
popolo donando la Legge, i comandamenti. Ma questo matrimonio non portò frutto:
una parte di Israele aveva rotto questa alleanza, non aveva portato i frutti
dell’amore. Per questo si dice che mancava il vino, perché il vino è il simbolo
dell’amore e della gioia: il punto culminante di un matrimonio era quando lo
sposo e la sposa bevevano un bicchiere di vino dallo stesso calice. Maria non
viene chiamata per nome e Gesù si rivolge a lei chiamandola “donna”, che
significa “sposa, moglie”, perché qui rappresenta quella parte del popolo di
Israele che, invece, era rimasta fedele all’alleanza con Dio, tanto è vero che
quando si rivolge a Gesù, non gli dice “non abbiamo”, ma “non hanno” più vino,
perché lei questo vino ce l’ha, e si rivolge a Gesù perché Giovanni Battista
aveva detto che sarebbe stato Gesù il nuovo sposo che avrebbe fecondato il
popolo di Israele, inaugurando una nuova alleanza d’amore. Solo così possiamo
capire la risposta che Gesù rivolge a sua madre che, tradotta in italiano, non
rende il senso, anzi, appare addirittura scortese. “Che vuoi da me?” era
l’espressione che usavano i contraenti di un’alleanza per ricordarsi gli
impegni reciproci, e quindi è come se Gesù le stesse dicendo: non importa che
non abbiano vino, che l’alleanza d’amore tra Dio e il suo popolo sia morta, perché
io sono venuto proprio per fare una nuova alleanza. Poi aggiunge: “non è ancora
giunta la mia ora”. Nel vangelo di Giovanni, l’ora di Gesù è quella della sua
morte in croce, quando dal suo costato usciranno acqua e sangue, il nuovo vino
dell’alleanza. Maria capisce bene questa risposta, e infatti dice ai servi: “qualunque
cosa vi dica, voi fatela”, le stesse parole pronunciate dal popolo di Israele
dopo l’alleanza con Mosè: “quanto il Signore ha detto, noi lo faremo e lo
eseguiremo”. Peccato che poi, come si diceva, non fosse accaduto. E Gesù cosa
fa? L’evangelista ce lo dice con l’immagine delle sei anfore che servivano per
la purificazione dei Giudei, che erano vuote e che Gesù ordina di riempire d’acqua
fino all’orlo. Erano 6 perché, nella Bibbia, il 6 è il numero imperfetto simbolo
dell’uomo (che la Genesi dice che fu creato il sesto giorno) che, invece di considerare
Dio come uno sposo che feconda la sua sposa con l’amore perché possa donare i
frutti dell’amore, pensa a Dio come a un padrone, che il suo amore vada
conquistato con pratiche di purificazione, di sacrifici, mortificazioni,
cercando di obbedire ai suoi comandamenti, senza mai riuscirci, e infatti le anfore
sono vuote. Gesù, invece, inaugura una nuova alleanza: come dirà a un’altra
donna, la samaritana, viene a donare l’acqua che zampilla per la vita eterna, cioè
a rivelare che l’amore di Dio è per tutti, non guarda i meriti, ma i bisogni,
va accolto: è di quest’acqua, di questo amore che vanno riempite le anfore, che
siamo noi. E allora cosa succede? Che la gloria di Dio si manifesta, ecco
l’epifania: quest’acqua che è il suo Spirito, quando viene versata, accolta,
bevuta, diventa vino, perché consente di vivere il rapporto col Signore in un
modo nuovo, con gioia e gratitudine. Vedete, dunque, come qui non si sta
raccontando uno strano miracolo che sembra un gioco di prestigio che si presta
a barzellette, e nemmeno un miracolo, ma è il modo col quale l’evangelista
Giovanni spiega cos’è la gloria di Dio. La gloria di Dio è la manifestazione,
l’epifania della sua potenza e la sua potenza non è quella di fare giochi di
prestigio, ma di donarci il suo Spirito d’amore che consente di trasformare in
una persona nuova chi lo accoglie e lo usa. È il dono che chiediamo in questa
eucaristia, dove noi offriamo al Signore la nostra umanità simboleggiata dal
pane e dal vino perché lui possa trasformarla facendoci diventare come lui.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-81125964322021253742024-01-07T15:40:00.021+01:002024-01-07T18:19:23.906+01:007/01/24 BATTESIMO DEL SIGNORE (ANNO B)<p class="MsoNormal">Non è vero che l’Epifania tutte le feste le porta via.
Infatti l’Epifania non è finita il 6 gennaio. Anzi, il 6 gennaio è iniziato il
tempo dopo l’Epifania che va avanti fino alla Quaresima, e oggi e domenica
prossima la liturgia ci fa celebrare le altre due epifanie del Signore, che fin
dall’antichità, nelle chiese </p><span><a name='more'></a></span><p class="MsoNormal">orientali, erano celebrate in un unico giorno. L’Epifania
racchiude le prime tre grandi manifestazioni della divinità di Gesù: quella
davanti ai Magi, quella del suo Battesimo al Giordano, che si celebra oggi, e
quella alle nozze di Cana che celebreremo domenica prossima. La prima epifania,
quella del 6 gennaio, manifesta come l’amore di Dio non fosse esclusivo di
Israele, ma è per tutti gli uomini della terra, simboleggiati dai Magi, che per
Israele erano come per noi oggi sono gli extracomunitari o, peggio ancora, solo
chi abita in una frazione diversa del proprio paese. Perché, purtroppo, questa
incredibile notizia, fatica ancora ad entrare nei nostri cervelli, cioè che dall’amore
di Dio nessuno è escluso. Troppo amore dà quasi fastidio. Un Dio che tratta con
amore i giusti e i peccatori è una cosa splendida per i peccatori, ma difficile
da accettare per chi si crede giusto, per chi pensa che l’amore di Dio debba
essere conquistato grazie ai propri meriti. Come quando un bambino a cui nasce
un fratellino diventa geloso perché vorrebbe l’amore dei genitori tutto per sé,
o come quando c’è in ballo un’eredità e il figlio che si crede più meritevole
si arrabbia se vede che il padre ha lasciato la stessa parte a lui e al
fratello che invece si era disinteressato del padre per tutta la vita. È la
parabola del fratello maggiore del figlio prodigo che si ripete. Erano infatti
i peggiori individui quelli che Gesù frequentava e di cui si era circondato,
non i benpensanti, i religiosi, quelli che si consideravano brava gente, e
infatti saranno proprio loro quelli che lo uccideranno. Ecco perché Gesù,
all’inizio della sua missione, si mette in fila con i peccatori per essere
battezzato. Lui, senza peccato, in fila coi peccatori, sarebbe stato a sua
volta considerato come un peccatore e ucciso per questo. Ucciso perché aveva
troppo amato, che paradosso! E lo avrebbe accettato per mostrare che Dio è uno
che piuttosto che uccidere e condannare chi uccide, perdona chi lo uccide ed è
disposto a rimetterci lui. Questo è Dio. E Gesù lo manifesta già nel momento
del suo battesimo. Il battesimo non l’ha inventato Gesù. Gesù ha dato nuovo
significato e valore a un rito che già c’era prima di lui. La parola
“battesimo” significa letteralmente “immergere nell’acqua”, e Giovanni chiamava
ad immergersi nell’acqua tutti coloro che intendevano cambiare il loro stile di
vita, morire al passato per diventare persone nuove. L’acqua, dunque, è un simbolo
di morte, perché nell’acqua l’uomo muore, non essendo un pesce. E infatti ha
bisogno di riemergere, altrimenti annega. E se riemerge vive. Ebbene, Gesù non
aveva motivo di sottoporsi a questo rito, non doveva morire a un passato
ingiusto. Allora perché Gesù si fa battezzare? Per manifestare (ecco
l’epifania) il senso di tutta la sua missione che sulla croce troverà il suo
compimento. Infatti Gesù chiamava “battesimo” la sua morte imminente. Diceva:
“c’è un battesimo che io devo accogliere”, e si riferiva alla sua morte. Quindi
il suo battesimo era un modo per anticipare il fatto che egli sarebbe stato
immerso nell’acqua della morte, ma che dalla morte il Padre lo avrebbe fatto
risorgere. Col suo battesimo al Giordano, Gesù dimostra di essere pronto fin
dall’inizio ad accettare la missione di manifestare fino alle estreme
conseguenze l’amore di Dio. E infatti, Dio, lo riconosce come suo Figlio,
perché gli assomiglia: tu sei il Figlio mio, l’amato. Le stesse parole che pronuncerà
il centurione romano, proprio un pagano, che quando vide Gesù spirare sulla
croce in quel modo ricco d’amore, esclamò: “Veramente quest’uomo era Figlio di
Dio!”. Ed è questo il grande messaggio che raggiunge noi oggi. Anche noi
veniamo riconosciuti dal Padre come suoi figli se, come Gesù, impariamo ad
assomigliargli nell’amore. E le persone che ci incontrano e che non si
professano cristiane, questo si attendono da noi: che ci comportiamo verso di
loro come fratelli, come ha fatto Gesù. Quando nel Padre nostro chiediamo “sia
santificato il tuo nome” stiamo dicendo questo: fa o Padre che il tuo nome, il
tuo amore, sia riconosciuto da tutti, ma in che modo gli altri possono
riconoscere l’amore di Dio? Se noi impariamo ad amarli come fratelli. Noi chi?
Noi battezzati. Ecco in che modo Gesù ha trasformato il rito del battesimo in
un sacramento, segno della sua azione. Col Battesimo ci ha uniti a lui, ci
unito al suo stesso destino, ci ha dato lo Spirito per diventare anche noi,
come lui, figli del Padre, per darci la forza di diventare noi epifania,
manifestazione dell’amore di Dio verso gli altri, cosicchè coloro che ci
incontrano possano dire anche di noi: davvero Dio è Padre perché vediamo che
voi, come Gesù, gli assomigliate comportandovi come suoi figli. Davvero oggi
comprendiamo ancora di più il senso del Natale, il motivo per cui Dio si è
fatto uomo: per farci diventare come Lui, a immagine di Gesù, e avere, come
Gesù, il dono di una vita immortale.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-81355899122052171472024-01-07T15:40:00.011+01:002024-01-07T15:41:29.196+01:006/01/24 EPIFANIA MESSA DEL GIORNO<p>L’Epifania è una solennità che comprende quelle che la
Chiesa, fin dall’antichità, ha considerato come le prime tre manifestazioni
della divinità di Gesù: il momento dell’adorazione dei Magi, quello del
Battesimo di Gesù al Giordano e quello della trasformazione dell’acqua in vino
alle nozze di Cana. I </p><span><a name='more'></a></span><p>cristiani dell’Oriente continuano a celebrarle insieme,
mentre noi le suddividiamo in tre momenti, anzi, in quattro, perché
sant’Ambrogio ne aggiunse una quarta, quella del momento della condivisione dei
pani e dei pesci, per cui oggi celebriamo l’epifania dell’adorazione dei Magi e
nelle prossime domeniche di gennaio quella del Battesimo, delle nozze di Cana e
della condivisione dei pani e dei pesci. Per questo, il nostro rito ambrosiano
chiama “dopo l’Epifania” le settimane che vanno da qui alla Quaresima. E
dunque, oggi, soffermiamoci su questa prima Epifania che, in realtà, non è
altro che il racconto della nascita di Gesù secondo Matteo. Il 25 dicembre
abbiamo letto il racconto del natale di Gesù secondo Luca che parla di Maria e
Giuseppe che arrivano a Betlemme in occasione del censimento, della mangiatoia
e dell’arrivo dei pastori. Invece Matteo racconta la nascita di Gesù con toni
molto drammatici: scrive che Gesù nacque in una casa, che a riconoscere che
quel bambino fosse il Signore non furono dei pastori, e nemmeno gli abitanti di
Gerusalemme, Erode in testa, e infatti voleva ucciderlo, ma alcuni personaggi
misteriosi provenienti dall’Oriente, che quindi non erano ebrei. Noi separiamo
temporalmente l’Epifania dal Natale, come se fossero due cose diverse, e quindi
facciamo arrivare i Magi un po’ di giorni dopo, ma in realtà non è così:
dipende se seguiamo le indicazioni di Luca o di Matteo. Questo perché gli
evangelisti non vogliono fare una cronaca storica, ma anticipare alcuni temi
che svilupperanno nei loro vangeli. Luca parlerà molto della misericordia di
Dio verso le persone escluse dalla società per la loro condizione ritenuta
peccaminosa, e allora nel presepe ci mette i pastori perché essi erano ritenuti
peccatori. Matteo, invece, che parlerà molto di Gesù rifiutato dalla sua gente
e riconosciuto come Dio dai pagani, mette nel presepe i Magi, degli stranieri.
Quel che conta non è ciò che accadde esattamente quando nacque Gesù. Quello che
conta è che ci mettiamo noi nel presepe, davanti a quel bambino, e ci
domandiamo: ma tu chi sei? Cosa cambia nella mia vita che tu sia venuto al
mondo, credere che tu sei Dio? Davvero Gesù è l’epifania di Dio, perché tutto
quello che noi sappiamo di Dio è ciò che Gesù ci ha fatto vedere, ciò che Gesù
ci ha manifestato, fin dal principio, ma non solo nel momento della sua
nascita, del suo Battesimo e alle nozze di Cana, ma in tutta la sua vita,
soprattutto nel momento della sua passione, morte e risurrezione. E’ da lì che
si capisce tutto. Per questo oggi viene proclamata solennemente la data della
prossima Pasqua. Ed è proprio partendo dalla Pasqua che gli evangelisti
scrivono i loro racconti, per mostrare i segni della Pasqua presenti già nel
Natale. Infatti Matteo scrive che, quando Erode apprese dai Magi che era nato
il re dei Giudei, fu preso da terrore, e con lui tutta Gerusalemme, e dirà la
stessa cosa quando questo re dei Giudei verrà messo morte, rifiutato dalla sua
gente, e riconosciuto invece come figlio di Dio proprio da un pagano, come
erano i Magi, e cioè il centurione romano ai piedi della croce. Ma chi erano
questi Magi? Notate che di loro non si parlerà più in tutto il vangelo, così
come del resto non si parlerà più nemmeno dei pastori. Sono personaggi
simbolici: non viene detto né come si chiamassero né quanti fossero. È la
tradizione che li ha fatti diventare tre e che si è inventata i nomi, facendoli
addirittura diventare re. Così facendo, però, si rischia di non coglierne il
valore simbolico. Matteo parla di maghi, cioè di personaggi che nell’antichità
si dedicavano alle arti occulte, praticate dagli indovini e dagli astrologi, e
non godevano di buona fama, tanto che il termine “mago” finì col significare
“ingannatore”, “corruttore”, e come tali esclusi dall’amore di Dio. Per di più
erano pagani, stranieri, e per Israele i popoli stranieri erano esclusi dalla
salvezza. Invece no. Ecco l’annuncio straordinario che poi Gesù proclamerà nel
suo insegnamento. Dio effonde su tutti il suo amore indipendentemente se uno è
bello, brutto, buono, cattivo, meritevole o meno, italiano, africano, ebreo,
giapponese. Però serve a poco questo amore se poi non lo accogliamo, cioè se
non cambiamo vita e non viviamo di questo amore. In questo senso, i Magi sono
personaggi rappresentativi di ogni uomo che cerca la sua stella, che cerca ciò
che dia senso alla vita, che poi è ciò che noi chiamiamo Dio. Dio è il nome più
alto che gli uomini sono in grado di dare ai loro desideri più grandi. Ma fino
a quando, come Erode, i nostri desideri più grandi, la nostra stella, sono il
potere, la prevaricazione, il successo, l’avere, Dio diventa il tappabuchi al
quale rivolgerci per fare quello che noi non riusciamo, e la fede si riduce ad
una serie di riti e pratiche per ottenere qualcosa. Gesù invece ha manifestato
che l’unico potere di Dio è quello di donare se stesso col suo Spirito per
prendere dimora in noi e farci diventare come lui, capaci di amare, di
perdonare, di servire i fratelli, ottenendo così una vita di una qualità tale
da superare anche la morte. E infatti i Magi, a differenza di Erode, adorano un
Dio che si fa bambino, quel Dio che tra poco si rende presente in un pezzo di
pane perché anche noi, nutrendoci di lui, diventiamo pezzi di pane che si
spezzano per gli altri. È davvero questa la nostra stella, il senso che diamo
alla vita, il nome che diamo al nostro Dio, si o no?</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-4669579765180212742024-01-07T15:39:00.006+01:002024-01-07T15:41:59.063+01:005/01/24 EPIFANIA MESSA DELLA VIGILIA<p>Proviamo anzitutto a ripercorrere le letture che abbiamo
ascoltato. Le prime due sono una profezia dell’adorazione dei Magi che si
celebra domani. Il libro dei Numeri parla di Balaam, un indovino, che non
apparteneva al popolo di Israele, quindi uno straniero, che annuncia che da
Israele sarebbe sorto un </p><span><a name='more'></a></span><p>astro, una stella, che avrebbe governato il suo
popolo. Anche i Magi non provenivano da Israele, erano pagani, e proprio loro
riconosceranno in Gesù bambino questa stella. Isaia aveva annunciato che a
Gerusalemme non sarebbero tornati solo gli israeliti che erano in esilio, ma
che sarebbe arrivata gente da ogni dove per adorare l’unico Dio. I Magi ne sono
la dimostrazione: venivano da un Oriente misterioso, patria delle religioni più
diverse, e arriveranno a Gerusalemme per dire che Dio appartiene a tutta
l'umanità: è il Dio di tutti coloro che lo cercano con cuore sincero. Le
letture successive, invece, ci hanno introdotto al momento del battesimo di
Gesù al Giordano. Abbiamo ascoltato il racconto della morte del profeta Elia,
un racconto mitico pieno di simboli. Elia muore presso il Giordano perché
attraversando questo fiume che il popolo di Israele era entrato nella terra
promessa e la sua morte viene descritta mentre viene rapito su un carro di
fuoco. Sono simboli che prefigurano il battesimo di Gesù nel fiume Giordano e
la sua morte come ingresso nel fuoco dell’amore di Dio. Anche il breve racconto
successivo è simbolico. Il profeta Eliseo, successore di Elia, getta nell’acqua
del Giordano un pezzo di legno per fare riemergere il ferro di un’ascia che vi
era caduta dentro. La pesantezza del ferro inghiottito dall’acqua prefigura la
morte di Gesù, il legno che lo fa riemergere è la croce che segna il passaggio
alla risurrezione. Gesù chiamava “battesimo” il momento della sua morte. La
parola “battesimo”, infatti, significa immersione nell’acqua: un uomo immerso
nell’acqua muore, quindi l’acqua del battesimo è simbolo di morte, ma dalla
morte Cristo riemerge vittorioso. Il suo battesimo al Giordano all’inizio della
sua missione e che celebreremo domenica prossima, è pertanto epifania, cioè
manifestazione, della sua Pasqua. Ecco perché, in questo giorno solenne, dopo
il vangelo la Chiesa ha proclamato la data della prossima Pasqua, la festa che
dà origine a tutte le feste, senza la quale non avrebbero senso di esistere
tutte le altre: se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede, come
dice san Paolo. E proprio san Paolo, nei versetti della lettera a Tito, spiega
che attraverso il Battesimo che noi abbiamo ricevuto, Gesù ha associato ogni
uomo che aderisce in lui al suo stesso destino. Tra l’altro, il simbolo
dell’acqua tornerà nel momento delle nozze di Cana: l’acqua trasformata in vino
rappresenta la nostra vita mortale che Dio fa diventare immortale, se però noi
impariamo a vivere la nostra esistenza guidati dal suo Spirito d’amore, se cioè
la nostra vita diventa pian piano un’epifania, cioè una manifestazione dell’immenso
amore di Dio. E questo vale per tutti, per ogni uomo, quale che sia la sua
provenienza o la sua condizione, come testimoniano i Magi. Vedete dunque come
il cerchio si chiude e ogni elemento trova il suo posto? La liturgia di questa
sera ci aiuta dunque a non ridurre l’epifania alla favoletta di tre strani
personaggi colorati (che, tra l’altro, non erano neanche tre e neanche dei re) che
arrivano ad arricchire il nostro bel presepe. L’Epifania è tutta la vita di
Gesù che manifesta ad ogni uomo il vero volto di Dio, un Dio che è Padre e che
vuole fare diventare suo figlio, come Gesù, ogni uomo della terra,
simboleggiato dai Magi; e suoi figli si diventa se accogliamo e seguiamo il suo
Spirito che ci rende capaci di vivere come Gesù, di trasformare la nostra vita
a sua immagine, di nascere nuove creature (ecco qual è il significato del
Natale) per poter così passare da una vita mortale a una immortale (la Pasqua),
come i segni del Battesimo e delle nozze di Cana manifestano a loro volta. Ed è
bello che il nostro rito ambrosiano distribuisca la celebrazione di queste
epifanie di Gesù nelle prossime settimane. Perché tutta la nostra vita diventi
pian piano epifania, manifestazione, dell’amore del Signore, man mano che gli
permettiamo di trasformarci a sua immagine. Davvero il Natale accade perché sia
per ciascuno subito Pasqua, che è ciò che celebriamo in ogni eucaristia
dell’anno.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-38532267194672054072023-12-31T12:12:00.008+01:002023-12-31T12:12:57.682+01:001/01/24 ULTIMO/PRIMO GIORNO DEL NUOVO ANNO NELLA FESTA DELLA CIRCONCISIONE<p><span style="font-family: Calibri, sans-serif;">Nella
liturgia, il primo giorno dell’anno civile coincide con l’ultimo giorno
dell’ottava di Natale. Natale, come Pasqua, dura otto giorni perché il numero
otto è il simbolo dell’eternità. Vuol dire che la nascita di Gesù e poi la sua
morte risurrezione non sono solo eventi del passato, al contrario: Gesù è vivo
per </span></p><p><span></span></p><a name='more'></a><p></p><p><span style="font-family: Calibri, sans-serif;">sempre, è il Dio con noi che accompagna i nostri passi, che vuole prendere
carne in noi per farci diventare come lui, quindi è il Dio che col suo Spirito
è dentro di noi, che quando celebriamo l’eucarestia si rende presente perché
vuole fondersi con noi, diventare una cosa sola con noi. Il fatto che la
liturgia ambrosiana celebri in questo giorno la festa della circoncisione di
Gesù che accadde otto giorni dopo la sua nascita, come era tradizione presso
gli ebrei, esprime ancora meglio questa cosa. Se Gesù non fosse stato ebreo,
sarebbe stato sottoposto a un altro rito. La circoncisione era il segno
indelebile sul corpo del bambino dell’appartenenza alla discendenza di Abramo,
e quindi dell’appartenenza a Dio, una tradizione che anche oggi hanno gli ebrei
e i musulmani. I suoi genitori volevano rendere figlio di Abramo colui che era
già stato proclamato figlio di Dio: fatto su Gesù era un rito inutile. Infatti,
Gesù insegnerà che la vera circoncisione, il vero segno che testimonia la
nostra appartenenza a Dio è quando impariamo ad amarci come lui ci ama: è l’amore
che ci rende simili a Dio. Ma questo rito, compiuto su Gesù, dimostra come Dio
si incarna nella vita, nelle tradizioni, nelle usanze di ogni persona, di ogni
popolo, di ogni tempo, dando però un nuovo significato a tutte le cose, alcune
delle quali possono poi essere tranquillamente abbandonate e superate, tanto è
vero che noi non veniamo circoncisi. Perciò, prendere coscienza, soprattutto
alla fine e all’inizio di un nuovo anno, del dono trasformante di Dio è
qualcosa di meraviglioso: sapere che ogni giorno dell’anno è pieno della sua presenza
di Dio capace di far nuove tutte le cose ci permette di vivere ogni giorno
dell’anno sotto la sua benedizione. Quella benedizione che è stata portata nelle
famiglie della nostra parrocchia durante l’avvento e che voglio continuare a
portare a tutte le rimanenti in questo mese di gennaio. Cosa significa
benedire? Cosa significano le parole del libro dei Numeri che si leggono sempre
in chiesa all’inizio di un nuovo anno civile, parole che dicono “Ti benedica il
Signore e ti custodisca, faccia risplendere per te il suo volto, ti faccia
grazia, e ti conceda pace”? Le parole che vengono sempre ripetute al termine di
ogni eucaristia quando veniamo benedetti dal nostro Dio, la santissima Trinità,
il Padre, il Figlio e lo Spirito santo? Molti hanno ridotto il termine
“benedizione” a qualcosa che di evangelico non ha più nulla: un rito
scaramantico e magico per ottenere da Dio salute, soldi, felicità, prosperità.
Tanto è vero che sono pochissime le persone che, per esempio, non mi hanno
aperto la porta di casa quando sono passato per benedire. Anche chi si dichiara
poco credente o non viene in chiesa mi dice: venga pure, una benedizione non
può farmi male. Ma la benedizione del Signore non è un portafortuna. Se fosse
così, come potremmo mai, noi cristiani, al termine dell’anno, cantare il Te
Deum di ringraziamento al Signore per l’anno trascorso considerando tutte le
cose che, purtroppo, sono invece andate male, molto male? Se fosse davvero Dio
a determinare il corso degli eventi e a decidere le cose, sarebbero molte di
più le persone che, al termine di un anno, avrebbero motivi non per
ringraziarlo, ma per bestemmiarlo. Pensiamo solo a chi vive anche oggi sotto le
bombe. E invece, come ripetiamo in ogni eucaristia (che vuol dire rendimento di
grazie) è veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza
rendere grazie, sempre, qui e in ogni luogo al Signore. Ma non gli rendiamo
grazie per le cose che sono andate bene, perché non è lui ad avercele
magicamente fatte andar bene, altrimenti dovremmo arrabbiarci con lui per
quelle che sono andate male, ma gli rendiamo grazie perché la sua presenza
benedicente e trasformante non ci abbandona mai. Gli rendiamo grazie perché Gesù
ci rivela che Dio non guarda i nostri meriti, ma i nostri bisogni, ed effonde
il suo amore su tutti, anche e proprio su quelli che pensano di non meritarselo
ed esserne esclusi, come accadde ai pastori. I pastori erano considerati
lontani da Dio, perché erano selvatici come le bestie che accudivano, e si
diceva che il Messia, alla sua venuta, li avrebbe eliminati perché peccatori, e
invece vengono avvolti dal suo amore. Una cosa talmente rivoluzionaria che
tutti quelli che udivano ciò che dicevano i pastori si stupivano. Purtroppo, è
triste vedere come questa immensa novità, anche molti cristiani, oggi, faticano
a capirla. Una riprova è l’astio di molti, anche vescovi e preti, verso le
parole e le indicazioni di Papa Francesco, come le ultime a proposito delle
benedizioni alle coppie giudicate irregolari secondo la dottrina cattolica.
Mentre il Papa non fa altro che tradurre la novità portata da Cristo, spiegando
bene come la benedizione del Signore consiste nel ricevere la luce e la forza
di Dio per poter compiere la sua volontà, per poter compiere il maggior bene
possibile in qualunque situazione uno si trovi, perché, anche da una situazione
problematica possa fiorire, in chi la accoglie, qualcosa di bello, di nuovo, di
sorprendente. E questa grazia, nessuno, tantomeno noi discepoli di Gesù, deve ostacolarla.
E se non la ostacoliamo, qualunque cosa possa accadere o accaderci, allora
stiamo certi che sarà per tutti un buon anno.</span></p>
<p class="MsoNormal"><span style="font-family: Calibri, sans-serif;">PRIMA DELLA BENEDIZIONE FINALE</span></p>
<p class="MsoNormal"><span style="mso-bidi-font-family: Calibri;">Eccoci dunque al
momento in cui il Signore, senza chiedere a nessuno di noi qui presenti né la
carta di identità né la fedina penale, ci inonda con la sua benedizione, che
vale molto di più di tutti gli auguri di buon anno che possiamo farci. P</span><span style="font-family: "Calibri",sans-serif;">er un cristiano, augurare buon Natale,
buona Pasqua, buongiorno, buonanotte, buon appetito, buon anno, è molto più che
augurare semplicemente che tutto vada bene, anche perché, per quanto sinceri
possano essere i nostri auguri e forti le nostre speranze, poi le cose andranno
avanti lo stesso con difficoltà e problemi di ogni tipo, e l’anno prossimo
saremo punto e a capo. Per un cristiano, invece, gli auguri in generale, e gli
auguri di buon anno, hanno il valore della benedizione, di invocare su ogni
persona a cui diciamo “auguri” la benedizione di Dio che, invece, è capace di
rendere nuove tutte le cose, anche le peggiori. Ma siccome il Signore si è
fatto uomo e agisce attraverso di noi, vuol dire che più che fare gli auguri
benedicendo, dovremmo imparare a farci noi auguri, benedizione per gli altri,
non limitandoci cioè a sperare che l’anno che iniziamo sia migliore di quello
passato, ma impegnandoci noi a portare qualcosa per rendere quest’anno un po’ più
bello e più umano, perché per Gesù la felicità non consiste in quel che si
riceve, ma in quel che si è capaci di donare.<o:p></o:p></span></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-22253952825069176362023-12-31T12:10:00.006+01:002023-12-31T12:10:58.468+01:0031/12/23 DOMENICA NELL'OTTAVA DI NATALE<p>Questa domenica si chiama “nell’ottava di Natale” perché è
inserita negli otto giorni che costituiscono l’ottava di Natale, che è iniziata
il giorno di Natale: oggi è il settimo giorno dell’ottava e domani, 1 gennaio,
è l’ottavo. Come c’è l’ottava di Natale c’è anche l’ottava di Pasqua. L'ottava
di una grande </p><span><a name='more'></a></span><p>festa ha il significato di prolungare la festa stessa, quindi il
Natale prosegue fino all’1 gennaio. Perché 8 giorni? Perché il numero 8 è il
simbolo della risurrezione, dell’eternità. L’uomo è creato il sesto giorno,
muore il settimo e risorge nell’ottavo. Come per dire: i giorni della nostra
vita sono 6. In questi sei giorni dobbiamo nascere nuove creature a immagine di
Gesù, dobbiamo vivere la nostra umanità come l’ha vissuta Gesù, dobbiamo
permettere alla Parola di Dio, al suo Spirito, ai sacramenti di trasformarci,
di farci diventare uomini e donne come Gesù, figli del Padre come Gesù (ecco il
senso del Natale). In questo modo, quando entriamo nel settimo giorno, quello
della morte, Gesù ci porta fuori e la nostra trasformazione in Dio si compie
nell’ottavo giorno, quello dell’eternità. Tra l’altro, la domenica, per i
cristiani, nel corso dell’anno, non è solo il primo giorno della settimana, che
dà inizio alla settimana, ma è considerato come l’ottavo giorno, proprio perché
è il giorno della risurrezione: celebrando la messa noi entriamo nell’eternità
di Dio che ci raggiunge col sacramento dell’eucaristia per fondersi con noi,
per rendere divina la nostra carne mortale, per farci diventare come lui. E
questo è anche il senso del Natale, come spiega bene san Giovanni nel prologo
del suo vangelo che abbiamo ascoltato: a quanti hanno accolto Gesù è stato dato
il potere di diventare figli di Dio, come lui. Accogliere Gesù vuol dire
aderire a lui, fidarsi e praticare la sua Parola, perché solo così si diventa
figli del Padre. Pensate quando si ragiona dicendo: Gesù era Gesù, io sono solo
un pover’uomo, fragile, mortale, come posso anch’io diventare figlio di Dio
come lui, come posso vivere come lui, avere i suoi sentimenti, comportarmi come
lui, risorgere come lui, avere il suo stesso destino? Sono ragionamenti
eretici, perché vuol dire rendere nulla la grazia di Dio e quindi vanificare
l’incarnazione, il natale di Gesù. Quello che Gesù è per natura, noi possiamo
diventarlo per grazia. Mi spiego. Certo, Gesù ha una natura divina, è vero Dio,
noi no. Di lui si dice: il Verbo era Dio, in lui era la vita. Ma questo Dio si
è fatto veramente uomo, non uomo per finta, dotato di super poteri. Di lui si
dice: il Verbo si fece carne. Carne, un termine che indica la fragilità e la
mortalità dell’uomo. E perché si rende carne? Perché tutti noi, che siamo
carne, possiamo diventare divini come Lui, e questo ci è possibile per grazia,
proprio perché Dio, diventando uomo, ce ne ha dato l’esempio, e perché,
nutrendoci di lui nell’eucaristia, possiamo averne la forza, perché egli
continua a prendere corpo in noi. L’eucaristia ci è necessaria per lo stesso
motivo per cui, una volta nati, per poter vivere e crescere, abbiamo bisogno di
nutrire il nostro corpo, altrimenti si muore. Ecco perché non ha senso un
Battesimo a cui non segue poi tutto il resto. Battezzati che non partecipano
poi all’eucaristia, che la considerano un rito facoltativo a cui partecipare
per tradizione una volta all’anno a Natale e a Pasqua, oppure vi partecipano
sempre, ma come spettatori, vivendola come un dovere da assolvere, non hanno
capito questa verità fondamentale. Cerchiamo di capirla almeno noi per non
vanificare il dono che ci viene fatto anche in questa eucaristia.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-62272001967467365592023-12-31T12:09:00.008+01:002023-12-31T12:09:56.050+01:0025/12/23 NATALE DEL SIGNORE<p>La predica di Natale è sempre difficile perché ci sarebbero
tante di quelle cose da dire che a me viene la tentazione di dirle tutte, ma
mica posso tenervi qui due ore. Tra l’altro, le letture delle tre Messe di
Natale (vigilia, notte, giorno) non sono uguali, e allora dovrei preparare tre
prediche, ma quest’anno non ci sono riuscito perché, capite bene che questi tre
mesi sono stati per me bellissimi, ma anche molto </p><span><a name='more'></a></span><p>faticosi. Vorrei allora fare
due riflessioni che mi sembrano importanti per capire quello che stiamo
facendo. La prima riflessione forse è un po’ difficile perché è una cosa a cui
non si pensa mai. Avete mai pensato all’apparente stranezza che noi celebriamo
la nascita di Gesù durante la Messa? In ogni messa di qualunque giorno
dell’anno, noi non celebriamo la nascita di Gesù, ma annunciamo la sua morte e
risurrezione, quindi celebriamo la Pasqua, non il Natale, e riceviamo il sacramento
dell’eucaristia. Perché questa cosa? Perché Natale non è il compleanno di Gesù:
non c’è bisogno di festeggiare un compleanno con la Messa. Gesù è risorto, è
sempre vivo e si rende presente nel pane nel vino che tra poco presentiamo
all’altare. Quindi, è sempre Pasqua. Qual è allora il collegamento tra Natale e
Pasqua? Vedete, con la nascita di Gesù, cioè facendosi uomo in Gesù, Dio ci ha
fatto vedere che è lontano e invisibile, ma è il Dio con noi, e quando è
risorto ha detto: io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo. Ma
come fa ad essere con noi se noi non lo vediamo? E’ sempre con noi perché, diventando
uomo (ecco il Natale), Dio ci ho fatto vedere che quando noi uomini e donne
viviamo la nostra vita come l’ha vissuta Gesù, lui si rende si fa vedere attraverso
di noi, nella nostra carne di uomini. Non è solo il Dio con noi, ma è il Dio
dentro di noi. Se viviamo nell’amore come Gesù, diventiamo noi l’immagine di
Dio. Man mano che noi diventiamo come Gesù, muore il nostro uomo vecchio pieno
di egoismo, e risorge un uomo nuovo, cioè nasciamo, diventiamo persone nuove.
Nascere nuove creature e risorgere è la stessa cosa. Quindi, il Natale e la
Pasqua sono due facce della stessa medaglia, capite? Ma qui nasce un problema:
come si fa? questo cammino è difficile. E’ vero, anzi, con le nostre sole forze
è impossibile. Ma nulla è impossibile a Dio: quello che per noi è impossibile,
col suo aiuto diventa possibile, e qui allora entra in gioco il sacramento
dell’eucaristia che stiamo celebrando. Tra poco noi presentiamo al Signore il
pane e il vino che rappresentano la nostra umanità, i nostri sforzi, le nostre
difficoltà, i nostri limiti e debolezze, ma anche tutte le cose belle che noi
facciamo. Col pane e col vino noi offriamo al Signore noi stessi, e lui cosa
fa? Ce li restituisce trasformati, li fa diventare il segno della sua presenza
e ci dice: mangiate e bevete, sono io che vi do la forza di diventare come me,
di rinascere, di risorgere. Non è una magia. Noi siamo qui a ricevere dal
Signore la forza del suo amore, del suo Spirito, per diventare come lui, ma noi
rinasciamo, risorgiamo se, con questa forza, diventiamo, come lui, pane che si
spezza per tutti, vino di gioia per chi ci incontra. Ricevendo l’eucaristia,
Dio continuamente prende la nostra carne, entra in comunione con noi, ma noi
entriamo in comunione con lui se poi, usciti di chiesa, usiamo questa forza per
amare come Gesù: allora si che è veramente natale. Spero di essere riuscito un
po’ a spiegarmi. Capire questa cosa è essenziale, perché altrimenti facciamo
diventare il Natale solo una data del calendario, un giorno di festa che serve
solo per farci ingrassare a tavola e poi trovare il modo di fare la dieta,
diventa un giorno diverso da tutti gli altri per poi tornare dopodomani a
riprendere il tran tran della vita di tutti i giorni, senza che sia cambiato
niente: tanto rumore per nulla. Se queste cose, purtroppo, il mondo non le
capisce, tanto che addirittura in una scuola hanno sostituito in un canto alla
parola Gesù la parola cucù, almeno noi che siamo qui dobbiamo provare a capirle
bene, altrimenti, anche se oggi siamo qui a messa, corriamo il rischio di rivendicare
tradizioni che però non incidono nella nostra vita.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-23266133648660920222023-12-17T20:24:00.002+01:002023-12-17T20:24:07.237+01:0017/12/23 VI DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B)<p>La sesta e ultima domenica di Avvento, nel rito ambrosiano,
si chiama dell’Incarnazione o della Divina maternità di Maria. E, ad essere
precisa, è già Natale, perché un bambino nasce quando viene concepito e, anche
in Maria, Gesù nasce quando viene concepito nel grembo di Maria, quando Maria
dice di sì. </p><span><a name='more'></a></span><p>Vedete, questa pagina di vangelo è una delle più belle, difficili e
importanti, e proverò a spiegarla quasi parola per parola nell’ultimo lunedì
della Parola di quest’anno che faremo lunedì 19 a Belledo. Perchè occorre
capire che ogni volta che ascoltiamo una pagina della Scrittura, non si sta
parlando di qualcosa di fantastico, di strano, di assurdo capitato nel passato,
ma di qualcosa che continua ad accadere. Qui accade che una ragazzina
partorisce Dio, diventa Madre di Dio. E Gesù poi dirà: chi ascolta la mia
parola e la mette in pratica, come ha fatto Maria, diventa per me fratello,
sorella e madre. Fratello e sorella vuol dire che diventa come me, figlio di
Dio come me, cioè assomigliante a Dio. E madre. Cioè, anche noi possiamo
partorire Dio. Cosa vuol dire partorire Dio? vuol dire diventare un altro
cristo, diventare creature nuove, divine, che hanno un modo di pensare e di
vivere come Gesù, e quindi che hanno dentro di sé la stessa vita di Dio, una
vita di una qualità tale che nemmeno la morte del corpo potrà distruggere.
Nascere nuove creature vuol dire risorgere, vuol dire trasformarsi: è un
cammino che dura tutta la vita, naturalmente se vogliamo compierlo. Ebbene,
questa pagina di vangelo perché è così bella e importante? Perché ci spiega
come si fa per diventare come Dio: dobbiamo fare come Maria: ascoltare, capire,
fidarci e fare quello che ci dice il Signore. Allora Dio viene: ecco l’Avvento.
Detto questo, ora vorrei molto semplicemente soffermarmi con voi proprio su
quello che il Signore dice a Maria e a ciascuno di noi: le prime parole che Dio
pronuncia, parole stupende con le quali il Signore dice chi è lui e chi siamo
noi, e sono le parole più famose di tutto il vangelo, parole che tutti
conoscono a memoria, parole che molti pronunciano anche più di 50 volte al
giorno quando pregano il Rosario, parole che, purtroppo, rischiano di essere
solo suoni pronunciati dalle labbra e che, così, non riescono a produrre
l’effetto desiderato, le parole iniziali dell’Ave Maria. Dopo la modifica della
traduzione del Padre nostro, mi piacerebbe che prima o poi venisse modificata
anche l’Ave Maria. La prima parte dell’Ave Maria è costituita dalle parole che
abbiamo appena letto nel vangelo e che l’angelo rivolge a Maria, mentre le
seguenti sono quelle che le vengono rivolte da Elisabetta. Tutte da rifare,
secondo me. Elisabetta le dirà: benedetta tu fra le donne, e benedetto il
frutto del tuo grembo. Noi invece diciamo il frutto del tuo seno, che è
un’espressione molto poetica che però molti non capiscono, soprattutto poi se qualcuno,
ancora, dice non “il frutto del tuo seno”, ma del seno… pausa… tuo Gesù. Io da
piccolo non capivo cosa volesse dire frutto del seno (virgola) tuo Gesù. Già
dire le preghiere è un modo di dire da abbandonare, perché un conto è dire le
preghiere, un conto è pregare, sono due cose diverse. Se poi si cerca di
pregare dicendo preghiere incomprensibili, la frittata è fatta. Le parole che
invece dice il Signore a Maria sono quelle iniziali: Ave, Maria, piena di
grazia, il Signore è con te. Anche qui, la prima parolina, Ave, non solo non è
corretta, ma anche questa, come seno, è di difficile comprensione. Ave è un
saluto antiquato, si salutavano così gli antichi romani, chi si saluta oggi
dicendo Ave? Ave vorrebbe dire “ti saluto”, ciao, buon giorno, buona sera. Ma
l’angelo non sta salutando Maria augurandole buona giornata, semmai la saluta,
si, ma non dicendole “ciao”, ma “rallegrati”. E’ il primo comando di Dio. Cosa
ci comanda Dio? E uno pensa ai comandamenti, fai questo, non fare quello.
Sbagliato. Il primo comando di Dio è: rallegrati. Non lo dice solo a Maria, ma
lo ripete a ciascuno di noi. Pensate l’effetto che farebbe se, per esempio,
quando si dice il Rosario in occasione di un funerale, ognuno di noi mettesse
il suo nome al posto di Maria e si sentisse ripetere dal Signore: rallegrati. Se
uno capisse che la volontà di Dio, quel che Dio vuole, non è niente di gravoso,
ma è che noi abbiamo a rallegrarci, ad essere sempre lieti, come dice san Paolo
nel testo di oggi. Ma come si fa ad essere sempre lieti, diciamo noi,
giustamente, in mezzo ai mille affanni, problemi, ansie, preoccupazioni e
tragedie della vita? Come si fa a stare sempre lieti? Perché tu sei piena di
grazia e perché il Signore è con te. In queste due frasi c’è dentro il nostro
nome e il nome di Dio, ci viene detto chi siamo noi e chi è Dio. Noi siamo
graziati, siamo riempiti dell’amore del Signore. Dovremmo dire: rallegrati,
Maria, perché Dio è innamorato di te, perché a Dio tu piaci così tanto da
essere pronto a morire per te dandoti la sua vita immortale. Ecco il nostro
nome, ecco chi siamo noi. E poi, dicevo, il nome di Dio. Dobbiamo rallegrarci
perché il Signore è con te. Il nome di Dio è un complemento di compagnia. Gesù
risorto dirà: Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo. E’
chiaro che se un giorno si cambiassero le traduzioni dell’Ave Maria
occorrerebbe cambiare anche tutte le canzoni alla Madonna, ma la cosa che
volevo evidenziare è che se, almeno, ci rendessimo conto della portata di
questa frase che ripetiamo sempre quando preghiamo la Madonna, capiremmo che la
preghiera non serve per convincere il Signore per mezzo di Maria a fare
qualcosa per noi, ma per permettere al Signore di operare in noi come accadde a
Maria.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-11347134921070841562023-12-10T16:17:00.004+01:002023-12-10T16:17:37.080+01:0010/12/23 V DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B)<p>Sarebbe interessante fare un sondaggio e chiedere: quanti
cristiani sanno, quanti di voi sanno che, col Battesimo, siamo tutti diventati
sacerdoti, re e profeti, sacerdotesse, regine e profetesse? Nella preghiera che
viene proclamata durante l’unzione col crisma, viene detto al battezzato: il
Padre ti consacra col </p><span><a name='more'></a></span><p>crisma di salvezza perché, inserito in Cristo, sacerdote,
re e profeta, tu sia sempre membro del suo corpo. Cioè, il Battesimo è il segno
che il nostro destino è lo stesso destino di Gesù, un destino di risurrezione,
e Gesù è sacerdote, re e profeta. Ebbene, le letture di oggi ci spiegano: Isaia
cosa vuol dire essere re, la lettera agli Ebrei cosa vuol dire essere sacerdoti
e il vangelo cosa vuol dire essere profeti. Partiamo da Isaia. <b><span style="color: red;">Isaia</span> dice
che dalla discendenza di Iesse, il padre del re Davide, sorgerà un re giusto e
di pace,</b> una pace che abbraccerà tutto il mondo, e noi riconosciamo in Gesù
questo re. Gesù è re perché ci mostra la potenza di Dio, che è quella che
vedevamo domenica scorsa, il potere dell’asino, e questo potere lo trasferisce
a noi: Dio viene (ecco l’Avvento) man mano che noi diventiamo re e regine che
usano il loro potere per fare gli asini, cioè per portare i pesi gli uni degli
altri. Se il mondo va male e il sogno di Dio non si realizza, è colpa anche
nostra che non usiamo questo potere. <span style="color: red;">La <b>lettera agli Ebrei</b></span><b>, invece, parla del sacerdozio di Gesù.</b>
Nel linguaggio comune, purtroppo, si pensa che sacerdoti siano solo i preti. Ma
chi sono i sacerdoti? In tutte le religioni i sacerdoti sono i mediatori tra
Dio e gli uomini. Gesù viene definito sommo sacerdote a somiglianza di
Melchisedek, perché Melkisedek è un personaggio misterioso nell’AT che non si
sa chi fosse e da dove venisse, chiamato sacerdote dell’Altissimo. Siccome, in
Gesù, il cielo si è unito alla terra e la terra al cielo, Dio si è fatto uomo,
Gesù è sommo sacerdote perché nella sua persona Dio e l’uomo diventano una cosa
sola. E allora anche noi, col Battesimo, uniti a Cristo, diventiamo sacerdoti e
sacerdotesse, cioè possiamo diventare una cosa sola con Dio, se viviamo come
Gesù. E questo vale anche per il prete. Il prete non è più sacerdote di un
normale battezzato, ma viene ordinato rendere presente Gesù nei sacramenti di
modo che tutti, nutrendoci di lui, possano vivere uniti a Cristo ciascuno
secondo la sua vocazione. Chi non ha coscienza di questa cosa, poi pensa che
nella Chiesa la persona più importante sia il prete e gli altri siano
spettatori o soldatini. Invece no: Dio viene (ecco l’Avvento) attraverso tutti i
membri della Chiesa. <b><span style="color: red;">E Infine, il vangelo ci dice cosa vuol dire essere profeti. </span></b>Giovanni Battista fu l’ultimo profeta prima
di Cristo. E’ vero che quando gli chiedono se fosse lui il profeta, Giovanni
risponde di no, ma questo perché per “profeta” intendevano un nuovo Mosè. In
realtà, Giovanni, e molti prima di lui, è un profeta, perché il profeta è chi
parla al posto di Dio, nel nome di Dio. Non chi predice il futuro, ma chi sa
vedere oltre le cose, coglierne il significato, vedere tutto con gli occhi di
Dio. Gesù è il più grande di tutti i profeti perché, con la sua persona, ci fa
vedere chi è Dio, perché Dio è in lui, lui è il Figlio, e quindi Gesù ci fa
vedere che Dio è Padre, e che noi diventiamo figli se amiamo come lui. Perciò,
uniti a Gesù, anche noi diventiamo profeti e profetesse che vedono le cose con
gli occhi di Dio se impariamo a conoscere Gesù, e se impariamo a vivere la vita
e a giudicare la realtà delle cose lasciandoci guidare dallo Spirito santo. Uno
che vive nell’egoismo, che fa il male, che produce guerra e ingiustizia, e
magari pretende di parlare nel nome di Dio, è solo un falso profeta. E dunque
chiediamo al Signore in questa eucaristia di aiutarci a prendere consapevolezza
del potere regale, sacerdotale e profetico che ci ha donato dal giorno del
nostro Battesimo. Man mano che viviamo così, il Signore viene. Anche a questo
ci richiama il tempo di Avvento.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal"><o:p> </o:p></p>
<p class="MsoNormal">Vieni Signore a giudicare il mondo. Erano le parole del
ritornello del salmo. L’Avvento è il tempo che ci ricorda che il Signore
risorto è sempre vivo, è sempre venuto, sempre viene, anche adesso, in ogni
eucaristia, in ogni momento della nostra vita, e alla fine della storia del
mondo e della nostra vita personale verrà. Tutto parte da lui e tutto a lui
ritorna. Noi viviamo nell’attesa della sua venuta. Cosa vuol dire? Vuol dire
che non veniamo dal nulla, che non andremo a finire nel nulla. Che bello! Ma cosa
significa che il Signore viene a giudicare il mondo? Vuol forse dire che viene
con la bilancia per premiare i buoni e castigare i cattivi? No, perché il Padre
giudica tutti gli uomini come suoi figli, e il Figlio Gesù giudica ogni uomo
come suo fratello, e il Signore è fonte di vita per tutti. Ma tutto ciò che è
morto, che è marcio viene spazzato via. Se noi non abbiamo vissuto una vita
nell’amore, di noi non resterà nulla. La pagina del profeta Isaia ci parla del
sogno che Dio ha da sempre: che gli uomini costruiscano un regno di pace. <o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-14628404800982345992023-12-10T16:16:00.004+01:002023-12-10T16:16:17.759+01:008/12/23 IMMACOLATA CONCEZIONE<p>Nei vangeli non si racconta né l’inizio né la fine della
vita terrena di Maria. Però la Chiesa celebra la nascita di Maria con la festa
dell’Immacolata, e la sua morte con la festa dell’Assunzione. Immacolata vuol
dire senza peccato originale. Immacolata Concezione vuol dire che Maria è stata
concepita senza </p><span><a name='more'></a></span><p>peccato originale. Quando ancora era nel grembo di sua madre.
Perché, non dimentichiamocelo, noi siamo nati nove mesi prima del giorno del
nostro compleanno. Chi comincia ad avere una certa età non è molto felice
pensare che ai suoi anni effettivi deve aggiungere nove mesi. Chi pensa che
l’aborto non sia un omicidio deve invece riflettere sul fatto che noi non siamo
nati quando siamo stati partoriti, ma nove mesi prima, quando cioè siamo stati
concepiti. Ma, tornando a Maria, di lei diciamo che è stata concepita senza
peccato originale, e le letture di questa festa sono scelte per spiegare cos’è
questo peccato originale. La prima lettura, una delle pagine più difficili e
non comprese della Bibbia, non racconta un fatto storico accaduto all’inizio
dell’umanità, quasi che all’inizio dell’umanità ci fossero serpenti parlanti o
alberi che non esistono in natura (l’albero della conoscenza del bene e del
male, tra l’altro, non è un albero di mele), ma vuole spiegare cosa c’è
all’origine di tutti nostri mali e di tutti i disastri provocati dagli uomini,
quelli che generano lotte, invidie, guerre, gelosie, ingiustizie, egoismi,
morte e distruzione. All’origine c’è il fatto che gli uomini, simboleggiati da
Adamo ed Eva, che rappresentano l’umanità, non si fidano di Dio perché credono
in una menzogna. C’è chi pensa che all’origine della nostra esistenza ci sia il
nulla, che veniamo dal nulla e finiamo nel nulla, per cui la vita non ha senso:
ne consegue che vivere in un modo o nell’altro è indifferente. Oppure, se uno è
credente, ma pensa, come Adamo ed Eva, che all’origine della nostra vita ci sia
un Dio distante, lontano, invidioso della nostra felicità, che proibisce per
capriccio di mangiare i frutti di un albero, un legislatore che vuole essere
ubbidito, di cui avere paura, un giudice implacabile che premia i buoni e
punisce i cattivi, va a finire che, credendo nella menzogna (ecco il peccato
originale) che Dio sia un mostro, di conseguenza, essere figli di questo Dio,
creati a sua immagine, fa si che si diventi dei mostri, che la vita diventi un
inferno e che si costruisca l’inferno. Questo è il peccato originale, origine
di tutti gli altri peccati. E tutti di fatto nasciamo in questa condizione che
viene trasmessa di generazione in generazione, perché chi nasce eredita una
vita già inquinata a causa dei nostri errori, dell’ingiustizia, del nostro
egoismo e di questa immagine distorta di Dio. Gesù ci salva da questo
“peccato”, perché ci rivela che le cose non stanno così. Gesù ci salva da
questo peccato perché rivela che all’origine della nostra vita, come scrive san
Paolo nel brano della lettera agli Efesini che abbiamo ascoltato, c’è un Padre
che non vuole la morte, ma la vita e la gioia dei suoi figli; un Padre che ha
un unico disegno, quello di farci diventare santi come egli è santo, e
immacolati, cioè irreprensibili, nella carità, come Dio, perché Dio è amore. Questo
Dio ci ha creati a immagine di Gesù, nel senso che Gesù è il modello di uomo
sul quale Dio ha pensato ciascuno di noi. Se aderisco a Gesù, se mi fido di
lui, se mi lascio guidare dal suo Spirito, realizzo la mia umanità, e il suo
destino di risurrezione diventa anche il mio. Maria ne è la prova. Proprio
perché Maria è una creatura come noi, e Maria, nel vangelo, viene chiamata
piena di grazia, cioè riempita d’amore, diventa nostra sorella: queste parole
ognuno di noi deve sentirle rivolte a sé: è così che Dio concepisce ciascuno di
noi. E dunque, la Chiesa ci presenta Maria immacolata fin dal suo concepimento per
indicarci in che modo Dio concepisce, cioè pensa, considera, ciascuno di noi,
fin dal nostro concepimento. Che all’origine della nostra vita non c’è il nulla
o un Dio cattivo, ma un disegno buono, che conduce non finire al cimitero, ma
alla gloria della risurrezione se, come Maria, lo accogliamo. Per questo, il
termine della vita di Maria si celebra con la festa della sua assunzione. Quindi
vedete come l'inizio (la concezione immacolata) e la fine (l’assunzione) della
vita terrena di Maria ci mostrano qual è il progetto che Dio ha su ciascuno di
noi, di fronte al quale non possiamo fare altro, come Maria, che gioire e fare
eucaristia, cioè dire grazie.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-88281421453809557412023-12-03T22:01:00.004+01:002023-12-03T22:01:43.375+01:003/12/23 IV DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B)<p>Come potete leggere sul foglietto della Messa, il titolo
della liturgia di questa quarta domenica di Avvento è “l’ingresso del Messia”.
Il Messia è il Cristo, il rappresentante di Dio, che ci fa vedere chi è Dio, e
noi crediamo che questo Cristo sia Gesù. Gesù è venuto, ha fatto il suo
ingresso nel mondo </p><span><a name='more'></a></span><p>quando è nato a Betlemme, e oggi si legge il momento solenne
in cui, trent’anni dopo, fa il suo ingresso a Gerusalemme. Eppure siamo in
Avvento: oggi non è la domenica delle Palme che dà inizio alla Settimana santa.
Questa è un’antica tradizione della nostro rito ambrosiano per farci vivere
l’avvento come tempo, guardando Gesù, comprendiamo il modo col quale Dio è
sempre venuto, si è sempre manifestato, fin dall’inizio dei tempi, in che modo
viene, come si manifesta, e in che modo verrà alla fine della storia del mondo.
E viene sempre esattamente nel modo opposto a quello che noi ci aspetteremmo.
Questo ci ha fatto vedere Gesù. Noi vorremmo e ci aspetteremmo che Dio venisse
dall’alto come uno che comanda, che fa, che disfa, che decide chi deve vivere,
chi deve ammalarsi, chi deve guarire, chi deve e quando deve morire, che premia
chi gli obbedisce, che punisce chi non fa quello che dice lui, che risolve i
problemi a chi lo invoca o fa dei sacrifici per lui, che fa vincere la propria
squadra del cuore, che fa vincere le guerre, che spacca i denti ai malvagi, che
ferma la mano degli assassini, insomma, che fa il tappabuchi, tanto è vero che
gli uomini si rivolgono a lui quando hanno bisogno, per poi continuare a vivere
la loro esistenza come vogliono, e se Dio non interviene, smettono di credere
in lui: sono venuto a messa, ho pregato, ho fatto sacrifici, sono stato bravo,
poi me ne succedono di tutti i colori, e allora adesso smetto di credere in Dio
e nella sua bontà. Perché, nelle scorse domeniche, ascoltavamo l’invito di
Giovanni Battista a convertirci, cioè a cambiare mentalità? Perché col suo
ingresso nel mondo, Gesù ci ha fatto vedere che Dio è sempre venuto, viene e
verrà non in questi modi. Perciò, se non guardiamo Gesù, andremo avanti tutta
la vita a prendere fischi per fiaschi, pensando che Dio sia quello che abbiamo
in mente noi. Gesù viene nascendo in una mangiatoia per essere mangiato, come
noi facciamo nell’eucaristia, per farci vedere che Dio viene donando sé stesso,
per infondere nel mondo e in ogni uomo la sua stessa vita divina e immortale; Gesù
viene cavalcando un asino per portare i pesi di tutti per farci vedere che Dio
viene quando gli uomini imparano ad amarsi tra loro come lui ci ha amato, mettendosi
a servizio gli uni degli altri, per costruire il suo Regno di amore e
giustizia, non per farsi la guerra e ammazzarsi; Gesù viene lasciandosi
inchiodare sulla croce perdonando tutti, per far vedere che Dio viene non per
restituire il male ricevuto, ma per prendere su di sé tutto il male del mondo
perché gli uomini imparino a fare altrettanto. E quando finalmente tutti
impareranno a vivere così, allora Dio sarà tutto in tutti, ed egli verrà nella
gloria. Sembra un bel sogno, una bella utopia, ma questo è il sogno di Dio,
questa è la sua volontà, e il suo unico potere è quello di dare a tutti il suo
Spirito per farci vivere così. Dio entra nel mondo e lo trasforma, ma questo
dipende da noi, se impariamo ad accoglierlo e a lasciarci trasformare da lui.
Non è Dio che deve aiutare noi: siamo noi che dobbiamo aiutare Dio ad agire
dentro di noi.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-51333447777436487452023-11-27T16:15:00.004+01:002023-11-27T16:15:23.410+01:0026/11/23 III DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B)<p>Le
parole che il profeta Isaia mette in bocca al Signore nel brano della lettura
di oggi esprimono molto bene i sentimenti, le attese e le speranze non solo del
popolo di Israele di quel tempo che viveva in esilio, ma quelle di tutta
l’umanità, e anche le nostre. Voi che siete in cerca di giustizia, voi che
cercate</p><span><a name='more'></a></span><p>il Signore, voi che sperimentate l’aridità dell’esistenza come un uomo
assetato nel deserto. Sono differenti e tante le prove, i problemi, le
difficoltà, i dolori, le tragedie della vita, ed è proprio in questi momenti
che nasce spontaneo il grido: Signore guarda giù. A questo ci richiama
l’Avvento, al fatto che tutta la vita è un’attesa, l’attesa che venga la
salvezza, che qualcuno ci salvi. L’attesa dell’esito di un esame, di una
telefonata amica, del termine di un brutto periodo, della buona riuscita di un
progetto, di trovare lavoro, che finisca la guerra, che ci sia giustizia, e chi
più ne ha più ne metta. È da qui che nasce la speranza, e quando vediamo che le
cose non si sistemano e non sappiamo più a che santo votarci, allora gridiamo:
Signore guarda giù. Ecco, il profeta Isaia raccoglie questo grido, e il Signore
risponde, prima di tutto dicendo: ascoltatemi, porgete l’orecchio! Rivolgendosi
al popolo di Israele dice: non dimenticate quello che io ho fatto nel passato
con Abramo, e dunque non temete: il deserto diventerà un giardino, giubilo e
gioia ci saranno in Gerusalemme, ringraziamenti e melodie di canto, la mia
giustizia è vicina, la mia salvezza si manifesterà, le mie braccia governeranno
i popoli. Parole rivolte anche a noi. Peccato che queste promesse non si siano
mai realizzate, non solo per gli abitanti di Gerusalemme (basti vedere cosa sta
accadendo anche oggi in quelle terre), ma più in generale nel mondo e nelle
vicende di ciascuno di noi. Mentre restiamo in attesa, per usare ancora le
parole del profeta Isaia, la terra continua a logorarsi come un vestito e i
suoi abitanti a morire come larve, e a continuare a ripetere: Signore, guarda
giù. Senza contare chi, sfiduciato, ha smesso anche di gridare al Signore, di
sperare in lui. E così l’avvento diventa solo il triste simbolo dell’attesa
della venuta non tanto del Signore, ma della morte che finalmente ponga fine ai
dolori dell’esistenza. Ma è possibile che Dio non mantenga la sua promessa? Che
continui a ripeterci di ascoltarlo, se poi è tutta un’illusione o se occorre
solo aspettare di morire perchè qualcosa si possa finalmente aggiustare?
Passiamo allora alla pagina del Vangelo, dove Gesù si lamenta perché si trova
circondato da gente che, di fatto, non ha mai voluto ascoltare la voce di Dio,
quel Dio che tutti invocano senza conoscere il suo volto, senza sapere chi è, e
continuano a compiere lo stesso errore davanti a Gesù che viene proprio a
testimoniare, a far vedere il volto di Dio. Come? Attraverso le sue opere. Le
opere che Gesù compiva testimoniavano che cosa? Gesù agiva trattando ogni uomo
come fratello, anche chi gli dava contro; operava per il bene e la giustizia
nei confronti di chi era malato o soffriva, di chi veniva escluso, e in questo
modo cosa testimoniava? Vivendo come fratello in mezzo agli uomini,
testimoniava che Dio è Padre, fonte di vita immortale, fonte d’amore, che
agisce non dall’alto dei cieli, ma attraverso gli uomini che, come Gesù,
diventano suoi figli, cioè accolgono il suo amore e gli assomigliano. Che
dunque Dio realizza le sue promesse di salvezza, ma lo fa nella misura in cui
noi accogliamo la forza del suo Spirito. E quindi che dobbiamo smetterla di
gridare: Signore, guarda giù. Il Signore non ha mai smesso di guardare giù, in
Gesù si è fatto addirittura uno di noi, è il Dio con noi. Col suo Spirito è
dentro di noi. Non è il Signore che deve guardare giù, ma siamo noi che
dobbiamo guardare, non su, ma dentro di noi, per entrare in contatto col suo
Spirito che ci abita. Allora si che il Signore viene. E così sia.</p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-47755575003124559762023-11-19T21:33:00.007+01:002023-11-19T21:33:52.334+01:0019/11/23 II DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B) NELL'INGRESSO DI DON MARCO COME PARROCO A LECCO<p>Le omelie in queste occasioni sono le più difficili, primo
perché sono tante le cose che uno vorrebbe dire; secondo perché, anche se siete
qui così numerosi perché oggi è il giorno della mia investitura a nuovo
parroco, non bisogna perdere di vista che siamo qui a celebrare l’eucaristia,
dove al centro non </p><span><a name='more'></a></span><p>c’è il prete, ma il Signore; terzo perché l’omelia non può
prescindere dalla Parola di Dio che oggi è stata proclamata in questa seconda
domenica di Avvento. Perciò, mi capite che tenere insieme queste tre cose
cercando nel contempo di essere breve, per non appesantire questa celebrazione,
non è semplice. Allora, ho pensato di dedicare qualche minuto al termine della
Messa per esprimere i miei ringraziamenti più sentiti a tutti voi, e di
regalarvi adesso tre brevi pensieri capaci di tenere insieme tutte queste
esigenze e che possano aiutarci a vivere con frutto l’eucaristia domenicale. E
questi pensieri o riflessioni prendono spunto da tre frasi che prendo dalle
letture che abbiamo ascoltato. Il primo pensiero si rifà al brano della lettera
ai Romani, dove San Paolo parla della grazia che gli è stata data di essere
ministro di Cristo Gesù che è quello di annunciare il vangelo, non a coloro che
già conoscono Cristo, ma tra le genti, cioè i pagani, che non lo conoscono.
Oggi viviamo in un contesto post cristiano, nel quale Cristo è ancora un
illustre sconosciuto anche tra coloro che proclamano cristiani. Sconosciuto
perché si conosce troppo poco o in modo approssimativo la Bibbia, e questo fa
si che molti credenti vanno avanti, magari tutta la vita, a credere non nel
Gesù del vangelo, ma in un Gesù, e quindi in un Dio, che non esiste, proprio
quel Dio nel quale, poi, tante persone, smettono di credere. Una priorità del
mio ministero in mezzo a voi vorrei che fosse dunque proprio questa: dare
spazio all’ascolto e alla spiegazione della Parola di Dio, come, del resto, ho
anche promesso prima quando mi è stato consegnato l’evangeliario. Il secondo
pensiero lo prendo dalle parole del Battista ascoltate nel vangelo, quando
dice: convertitevi perché il Regno dei cieli è vicino. Il Regno dei cieli, o
regno di Dio, non è l’aldilà, ma la possibilità che il Signore ci dona, se noi
accogliamo il suo Spirito, di vivere una nuova umanità, cioè di vivere
sentendoci figli amati da un Dio che Padre imparando a vivere come fratelli e
sorelle, secondo il comando di Cristo: amatevi gli uni gli altri come Dio ha
amato voi, e che fin dall’inizio dell’anno, appena arrivato, ho voluto
riassumere nella frase che troneggia nelle nostre tre chiese, che ci invita
proprio a imparare a prenderci cura gli uni degli altri con la stessa cura di
Dio per noi, quella cura che ogni volta che celebriamo l’eucaristia si rende
presente sull’altare. Presiedere l’eucaristia che tutti insieme celebriamo vorrei
che diventasse sempre più la sorgente perché possiamo costruire una comunità in
cui tutti possano sentirsi accolti e valorizzati, imparando a mettere i carismi
di ciascuno a servizio del bene di tutti. Il terzo pensiero lo prendo
dall’ultima frase della lettura, quando Isaia mette in bocca al Signore queste
parole: io sono il vostro consolatore. Consolare vuol dire non far sentire solo
che si sente solo. In una società sempre più individualista e che non riesce a
vedere al di là del proprio naso, vorrei che fossero tanti e belli i momenti
vissuti insieme, che approfittaste tutti delle numerose occasioni di incontro
che vengono proposte, e accompagnare questa comunità in un cammino capace di
aprirsi ai bisogni della società, come fanno e ci insegnano i volontari che
lavorano nella Caritas. Ecco, mi fermo qui, penso che sia sufficiente. Sono qui
tra voi da poco più di due mesi, e mi sembra di aver visto, finora, che il
terreno dal quale partire per fare queste cose, sia davvero bello e buono. Sono
fortunato. E allora proseguiamo l’eucaristia con lo spirito giusto che il tempo
di Avvento ci suggerisce, perché l’Avvento è il tempo che serve per accorgerci
che Dio continua a venire in tutti questi modi, e viene sempre per darci vita,
per farci risorgere, per trasformarci, per farci diventare come lui. E così
sia.</p><p class="MsoNormal"><o:p></o:p></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3011845889847996464.post-70643716338654424972023-11-12T18:43:00.001+01:002023-11-12T18:43:05.422+01:0012/11/23 PRIMA DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B)<p><span style="font-family: Calibri, sans-serif; font-size: 11pt;">Il
tempo dell’Avvento ambrosiano, che dà inizio al nuovo anno liturgico, si apre
tutti gli anni facendoci ascoltare, in questa prima domenica, delle letture che
ci invitano a coltivare non l’attesa della venuta (avvento vuol dire venuta) di
Dio nel natale, nella nascita di Gesù, ma nel ritorno finale di Cristo, quando,
come ripetiamo nel </span></p><p><span></span></p><a name='more'></a><p></p><p><span style="font-family: Calibri, sans-serif; font-size: 11pt;">Credo, egli verrà nella gloria per giudicare i vivi e i
morti e il suo regno non avrà fine. “Allora vedranno il Figlio dell’Uomo venire
sulle nubi con grande potenza e gloria”, dice Gesù al termine del lungo vangelo
di Marco che si legge oggi. Ma prima della sua venuta finale, dice Gesù, la
storia del cosmo, dell’umanità e di ogni uomo sarà come un grande campo di
battaglia tra il bene e il male, costellata da guerre, terremoti, carestie e
dolori; i suoi discepoli verranno perseguitati; ci saranno lotte e omicidi
anche nelle famiglie (perché a quei tempi, quando, in una famiglia pagana, uno
diventava cristiano, c’era la possibilità che venisse rinnegato e anche
ucciso). In mezzo a questi disastri che corrispondono a tante tragedie che sono
anche oggi sotto i nostri occhi, viene spontaneo farsi prendere dall’angoscia e
pensare che sia la fine del mondo, come lo pensarono gli ebrei e i primi
cristiani quando i romani distrussero il tempio di Gerusalemme, e Gesù aveva
preannunciato anche questo: non sarà lasciata pietra su pietra che non venga
distrutta. E già il profeta Isaia, lo abbiamo letto nella prima lettura,
diceva: a pezzi e in frantumi si ridurrà la terra. Ed è vero: tutto ha un
inizio e una fine, il mondo, il creato, la nostra vita. Ma se Dio è Padre come
può permettere che tutto ciò accada? Perché non interviene? In realtà Dio è
sempre intervenuto e continua a intervenire, ma non dall’alto, come vorremmo
noi, ma dal basso, cioè attraverso di noi, se noi ci lasciamo guidare dal suo
Spirito: per questo si è fatto uomo in Gesù, per indicarci la meta a cui siamo
destinati e quindi per farci vedere come dobbiamo vivere e affrontare la vita e
darcene la forza. Dio non ha creato un mondo perfetto, ma in continuo divenire,
altrimenti avrebbe tolto la libertà: sarebbe un paradiso, ma un paradiso dove
si vive come dei robot. E questo continuo divenire del mondo comporta passione,
non solo nel senso di patimenti, ma anche nel senso di avere passione, di
cacciarcela per costruire il Regno di Dio, cioè per vivere come figli che amano
i fratelli, non che li ammazzano. Ebbene, a chi vive così, Gesù ripete: saltate
sul treno giusto, non fatevi ingannare, non andate dietro ai falsi cristi e
profeti, non credete in loro, fate attenzione, non preoccupatevi, non abbiate
paura nelle prove, lo Spirito santo saprà come farvi reagire. Perché Gesù dice
così? Perché il progetto del Padre non è quello di farci andare incontro alla
distruzione, altrimenti non sarebbe un padre, ma un assassino. Il progetto del
Padre è quello di far nuove tutte le cose, di trasformarle, di essere “tutto in
tutti”, scrive san Paolo al termine dei versetti della lettera ai Corinti di
oggi, se però noi glielo permettiamo. In che senso? Se noi accogliamo il suo
Spirito e viviamo la nostra umanità come lui (per questo Dio si è fatto uomo),
come figli che amano i fratelli: allora, come lui, passeremo sì attraverso la
passione e la morte, ma per giungere alla risurrezione. Risurrezione vuol dire
trasformazione in Dio, morire al nostro uomo vecchio e diventare come Gesù, ed
è qualcosa che comincia già adesso per chi aderisce alla sua Parola, e allora,
quando la nostra vita terrena giungerà al termine, questa trasformazione in Dio
si completerà. Questa è la speranza che sostiene la vita del cristiano. Questo
è il momento in cui Cristo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti.
In cosa consiste questo giudizio? Non in qualcosa di pauroso e angosciante. Se
Dio è Padre vuol dire che ci giudica tutti come suoi figli, se Dio è Figlio
vuol dire che ci giudica tutti come suoi fratelli. Quindi la sua volontà è
farci risorgere e vivere per sempre, ma affinchè ciò accada, dobbiamo usare il
suo Spirito che ci fa risorgere fin da adesso, cioè dobbiamo vivere davvero
come suoi figli e come fratelli. Ecco come Dio giudica i vivi. E proprio perché
al termine della nostra esistenza resterà di noi solo il bene che avremo fatto,
se questo bene, anche minimo, non ci fosse, ecco che Dio non può fare altro che
giudicarci come morti.</span></p>don Marco Rapellihttp://www.blogger.com/profile/08150351341130926989noreply@blogger.com