domenica 5 febbraio 2023

5/02/23 V DOMENICA DOPO EPIFANIA

Nelle domeniche dopo l’Epifania si leggono vangeli che raccontano alcuni tra i tanti gesti compiuti da Gesù che, comunemente, vengono chiamati miracoli: infatti, le domeniche scorse (a parte la parentesi della festa della famiglia) abbiamo ascoltato i racconti delle nozze di Cana, poi della condivisione dei 

pani e dei pesci, e oggi la guarigione del figlio del funzionario del re. Questi gesti di Gesù vengono letti in particolare nel tempo dopo l’Epifania perché sono epifanie, cioè manifestazioni concrete della divinità di Gesù, ma non nel senso che Gesù, compiendo questi gesti, dimostra di essere Dio. Vorrebbe dire che noi presumiamo di sapere già chi è Dio e riteniamo che Dio sia quello che fa i miracoli, quindi, i miracoli che Gesù compiva sarebbero la prova che lui era Dio. Come quando, sulla croce, gli dicono: se sei Dio, scendi dalla croce e ti crederemo! Ma Gesù dalla croce non scende, mostrando che non sono i miracoli la prova dell’esistenza di Dio, che Dio non è uno che fa miracoli: noi non sappiamo chi è Dio, ed è Gesù a farcelo vedere. E i gesti che lui compiva, non erano miracoli, tanto è vero che il termine miracolo, cioè qualcosa che va oltre le leggi della natura, non compare mai in nessun vangelo. Per esempio, il quarto vangelo ne racconta sette, e quello di oggi è il secondo, dopo le nozze di Cana, e Giovanni, al termine del racconto, cosa scrive? Non che questo fu il secondo miracolo, ma il secondo “segno” compiuto da Gesù. Il segno è come il dito che indica la luna: se invece di guardare la luna noi ci fermiamo a guardare il dito, siamo stolti, pensiamo che la luna sia il dito, prendiamo fischi per fiaschi, tanto è vero che molti, quando si rivolgono al Signore per ottenere delle grazie e non le ottengono, vanno in crisi di fede o smettono di credere. Veniamo dunque al brano di oggi. Non entro nei dettagli perché impiegherei troppo tempo, a scapito di qualche riflessione che vorrei fare sulla giornata della vita che si celebra oggi, ma che si sposa bene proprio con questo segno compiuto da Gesù. Vi faccio osservare alcuni particolari di questo racconto. Prima di tutto c’è questo funzionario del re che quasi ordina a Gesù di scendere per guarire il figlio malato che stava per morire, e non si dice di cosa fosse malato. E’ un uomo di potere, abituato a dare ordini, a trattare gli altri come subalterni, a ottenere quello che comanda. Chiede a Gesù di scendere, perché Gesù era in Galilea, a Nord, e il funzionario abitava a Sud, in Giudea. Ma “scendere” vuole anche dire: guarda giù, fa qualcosa, prima che il mio bambino muoia. Come per dire: guarda che se muore è per colpa tua! Al che Gesù gli risponde: va, tuo figlio vive. La traduzione corretta sarebbe: sei tu che devi scendere, e tuo figlio vivrà. Cioè, scendi dalla tua privilegiata posizione, smetti il ruolo potente del funzionario, torna ad essere padre per tuo figlio, non considerare anche lui un tuo subalterno. A quel punto, c’è scritto che quell’uomo credette alla parola di Gesù e si mise in cammino. Notate la finezza? L’evangelista non lo chiama più funzionario, ma uomo, perché la Parola di Gesù ha cominciato a guarire, non il figlio, ma quell’uomo, perché comincia a capire che credere in Dio non vuol dire aspettare il suo intervento dall’alto, ma usare la forza di Dio che consente a noi di diventare umani, di compiere gesti di umanità. Tanto che alla fine, se leggete attentamente, l’evangelista lo chiama padre. Da funzionario è diventato uomo, da uomo è diventato padre: era lui che doveva essere guarito. La malattia del figlio era l’assenza dell’amore del padre. Quando il figlio ritrova il padre che torna a trasmettergli vita e amore, guarisce anche lui. Capite, dunque, come questo non è il racconto di un miracolo (lo stesso vale per tutti gli altri gesti operati da Gesù), ma è, in questo caso, il segno che Dio infonde in noi la sua stessa vita che ci consente di dare vita agli altri. Bene, questo fatto, come accennavo prima, si sposa bene proprio con la giornata della vita che oggi si celebra in tutta la Chiesa. Vi leggo alcuni stralci del messaggio scritto dai vescovi italiani per questa giornata. “Produrre morte sta diventando una risposta pronta, economica e immediata a una serie di problemi personali e sociali. Un figlio non lo posso mantenere, non l’ho voluto, potrebbe nascere disabile e quindi limitare la mia libertà o mettere a rischio la mia vita? Basta abortire. Una malattia non la posso sopportare o non sopporto di veder soffrire una persona cara? C’è l’eutanasia. La relazione con il partner diventa difficile, perché non risponde alle mie aspettative? Lo ammazzo. Femminicidi, violenza sui bambini, aggressività delle baby gang sono i frutti di una cultura di crescente dissacrazione della vita. Il male di vivere è insostenibile? Mi tolgo la vita col suicidio, perché la vita è mia e ne faccio quello che voglio. Accogliere e integrare chi fugge dalla guerra o dalla miseria comporta problemi economici, culturali e sociali? Semplice: abbandoniamo le persone al loro destino. Le ragioni di conflitto tra i popoli sono tante? Invece di cercarne le ragioni per provare a risolverli, si preferisce optare, come unica soluzione, per la guerra. E così, poco a poco, la “cultura di morte” si diffonde e ci contagia. Alla superbia di arrogarsi il diritto di giudicare se e quando una vita risulti degna di essere vissuta o meno, il Signore crocifisso e risorto ci indica una strada diversa: dare non la morte, ma la vita, generare e servire sempre la vita, cogliendone il senso e il valore anche quando la sperimentiamo fragile, minacciata e faticosa”. Capite bene, allora, perché il segno operato da Gesù verso il funzionario del re, trasformandolo in un uomo e poi in un padre capace di generare vita, può ripetersi oggi in tutti coloro che credono nella sua Parola, e vogliamo che questo accada anzitutto a noi che siamo qui.