lunedì 20 febbraio 2023

19/02/23 ULTIMA DOMENICA DOPO EPIFANIA (ANNO A)

Gesù racconta questa parabola prima di tutto per far vedere in che modo Dio tratta i peccatori, e poi per denunciare un modo perverso e sbagliato di pensare Dio, perché il problema non è quello che Dio pensa di noi, ma quello che noi pensiamo di Dio. E dunque, Dio come tratta i peccatori? Gesù lo spiega 

raccontando la vicenda del figlio minore di questo padre che desiderava la libertà, fare quello che voleva, pensare solo a sé stesso e divertirsi. Per Gesù questo è il peccato: pensare solo a sé stessi e non agli altri, compiere il male, col risultato che poi si sta peggio.A un certo punto, raggiunto il fondo, questo ragazzo si rende conto della sua stupidità e cerca di trovare il modo di farsi riaccogliere in casa, ma non perché fosse pentito o sentisse dolore e rimorso verso il padre, ma solo per non morire di fame. Ed ecco la sorpresa: il padre gli corre incontro, non gli chiede se fosse pentito, non gli fa nemmeno terminare l’atto di dolore che si era preparato, e gli si getta al collo, ma non per strozzarlo, bastonarlo, rimproverarlo, condannarlo e fargli ramanzine, bensì per abbracciarlo. Non lo considera un servo, ma un figlio, lo riveste con le preziose vesti del suo amore, gli mette l’anello al dito per indicare che torna a ridargli tutta la sua fiducia, come se niente fosse. E pensare che questa parabola, ancora oggi, viene chiamata “del figlio prodigo”. Prodigo, in senso negativo, vuol dire che sperpera quello che ha, ma in senso positivo donare tutto quello si ha, quindi vuol dire essere generosi all’ennesima potenza, perciò bisognerebbe chiamarla, non del figlio, ma “del padre prodigo”, perché descrive appunto la generosità con la quale Dio tratta i peccatori: non li detesta, non li punisce, non li castiga, non prova rancore, non chiede la lista dei peccati, ma li perdona prima ancora che si pentano, e vuole soltanto che il peccatore capisca di essere amato, indipendentemente dai suoi meriti. E’ così che bisognerebbe vivere il sacramento della Riconciliazione, non come un tribunale dell’inquisizione, ma come l’abbraccio di Dio. Di per sé, non ci sarebbe nemmeno bisogno di chiedere perdono a Dio: sarebbe come chiedere al sole di scaldarci. Se lo facciamo è solo per renderci conto che Dio è questo e che è solo accogliendo il suo amore che, forse, c’è speranza che cambi qualcosa nella nostra vita. Poi non è detto, non è automatico. Infatti, Gesù non racconta se quel figlio cambiò o no il suo modo di vivere: vuol dire che questo dipende da ciascuno di noi. Ma questa parabola, dicevo all’inizio, Gesù la racconta non solo per spiegare come Dio tratta i peccatori, ma per denunciare il modo perverso e sbagliato che noi abbiamo di pensare Dio. Gesù, stando insieme ai peccatori, e dicendo di essere venuto non per i sani, ma per i malati, faceva vedere che Dio non ci ama per i nostri meriti, ma per i nostri bisogni, e questa cosa scandalizzava i benpensanti di allora, come continua a scandalizzare, purtroppo, ancora tanti devoti cristiani che vivono una religiosità cupa, tetra, per i quali Dio vuol dire sacrificio, penitenza, paura, sensi di colpa nel cercare di fare tutte le cose per bene, per dovere, non per amore, ma per ottenere una ricompensa. Che pensano Dio come un datore di lavoro che deve dare a ciascuno quel che si merita, e poi, quando scoprono che Dio ama anche i malvagi, si scandalizzano. Pensare che Gesù disse, invece: beato chi non si scandalizzerà di me. Ecco perché Gesù prosegue il racconto parlando della reazione del figlio maggiore. Tornato dal lavoro, sente provenire dalla casa suoni di festa, si insospettisce, e quando viene a sapere che si faceva festa per il suo fratello che era tornato, rivendica le sue opere buone e si arrabbia col padre (io ti ho sempre obbedito) perché ha trattato l’altro figlio peccatore meglio di lui, e non vuole entrare in casa a far festa. Noi non sopportiamo che Dio sia come il sole che scalda tutti, belli e brutti, buoni e cattivi. Allora il padre cerca di fargli capire che dovrebbe essere felice perché ha sempre goduto del suo amore. Ma lui no, non era felice, faceva tutto con pesantezza, per dovere, per ottenere una ricompensa, e quindi non riesce a gioire col padre e come il padre per il ritorno di suo fratello. Vedete come, alla fine, tutti e due i fratelli consideravano il padre, cioè Dio, come un padrone, e infatti erano insoddisfatti, solo che il minore ebbe il coraggio di andare via, l’altro no. Io penso che la differenza tra un cristiano triste che continua a venire in chiesa e a vivere il rapporto con Dio per dovere e quelli che invece non ci vengono più illudendosi di vivere meglio, sia soltanto che questi ultimi sono più coerenti e coraggiosi. Sia quelli che smettono di credere in Dio sia quelli che continuano a credere in Dio e vivere la loro fede in modo triste, è perché non conoscono il Dio di Gesù.