Le letture di questa domenica, solo in apparenza possono
sembrare piene di concetti astratti. In realtà descrivono molto bene due modi assai
diversi di vivere il rapporto con Dio e con gli altri. Lo possiamo vivere da
uomini e donne religiosi, o da uomini e donne di fede. E c’è una bella
differenza tra fede e religione. Il cristianesimo non è una religione. Il brano
di vangelo letto oggi è difficile da capire perché è solo un pezzetto di un
racconto più lungo dove si racconta in che modo Giovanni Battista lentamente,
da uomo religioso, diventa un uomo di fede. All’inizio era un uomo
profondamente religioso. Battezzava con l’acqua per far capire che bisognava
convertirsi, morire ai
propri peccati, e per questo digiunava, faceva sacrifici
per espiare i suoi peccati, nell’attesa che arrivasse il Messia, il quale
avrebbe salvato tutti coloro che si erano pentiti e si erano convertiti
diventando bravi, giusti, meritevoli di salvezza. Poi, quando vede Gesù che
viene a farsi battezzare, scopre una cosa meravigliosa che non aveva capito.
Vedendo lo Spirito di Dio scendere su Gesù, capisce che quell’uomo è il Messia
mandato da Dio, è il liberatore, e quindi che Dio si rivela come uno di noi,
solidale con il nostro peccato e il nostro male, un Dio che non condanna, ma
che ama, come rivelerà pienamente sulla croce: tu mi togli la vita? e io te la
do! Un Dio che allora non ci ama perché siamo bravi e quindi ci salva per
premiare i nostri sacrifici e i nostri sforzi. Ma il contrario: Gesù è l’agnello
di Dio che toglie i peccati del mondo. Mite come un agnello che viene a
liberare gli schiavi, e li libera perché invece di fare come tutti i padroni
che rendono schiavi gli uomini, lui si fa servo. Capisce che Dio è amore che si
fa servizio. Giovanni smette di essere un uomo religioso, che si fida dei suoi
sforzi per salvarsi, e diventa un uomo di fede, che si fida cioè dell’amore di
Dio. L’autore della lettera agli Ebrei, nel brano che abbiamo letto, con un
linguaggio più teologico, ridice la stessa cosa. Gesù è sommo sacerdote di
un’alleanza nuova ed eterna perché col suo sacrificio ci ha uniti a Dio per
sempre. Non siamo noi che coi nostri sforzi ci uniamo a Dio e siamo salvi, ma è
Dio stesso che facendosi uno di noi e prendendo su di sé i nostri peccati, ci
unisce a Lui, ci purifica dalle opere di morte che commettiamo e dunque di dona
come eredità di avere la sua stessa vita divina, quindi di avere la vita
eterna.
Ora, queste cose possono diventare più chiare se andiamo a
rileggere il brano degli Atti degli Apostoli, dove si racconta di Paolo che
arriva ad Efeso e trova dodici discepoli di Giovanni Battista che avevano
ricevuto il battesimo di Giovanni, che poi erano diventati cristiani, ma che
non avevano neppure sentito dire che esisteva uno Spirito santo. Cosa vuol
dire? Che anche se avevano cambiato bandiera, erano rimasti uomini religiosi e
non erano diventati uomini di fede, per cui possono benissimo assomigliare a noi.
Noi, anche se abbiamo ricevuto sacramento del Battesimo, che non è quello di
Giovanni, se non stiamo attenti, rischiamo di vivere senza lo Spirito santo che
pur abbiamo ricevuto, cioè di essere uomini religiosi e non uomini di fede e
quindi di non aver capito che il cristianesimo non è una religione, come dicevo
all’inizio. Cioè di essere cristiani pervertiti. La religione è il tentativo
degli uomini di avvicinarsi a Dio compiendo pratiche rituali e osservando
regole di comportamento pensando che così Dio è contento e ci premia. Vede che
io sono bravo, che mi pento dei miei peccati, che mi converto, che faccio
quello che Lui mi dice, e allora mi salva, mi premia. Questo è ancora il
Battesimo di Giovanni Battista, il battesimo di acqua, per cui un cristiano
vive magari anche 80 anni in apnea, cioè con enorme sofferenza e con un
continuo patema d’animo perché non è mai in pace, non si sente a posto; oppure,
peggio, si sente a posto perché sta compiendo tutti i sacrifici religiosi
(anche venire a Messa è un bel sacrificio, me ne starei volentieri a casa a
dormire, ma sono venuto, guarda come sono bravo), per cui giudica tutti gli
altri che non fanno queste cose o dei dannati oppure gente senza Dio che
bisogna convertire perché sennò vanno tutti all’inferno. Senza capire che
pensando così, all’inferno ci siamo già adesso. Allora Paolo dice a quei dodici
discepoli: il battesimo di Giovanni era di conversione per avere il perdono: se
non ti converti non sei perdonato. Invece Gesù ha capovolto le cose: noi siamo
perdonati perché sulla Croce Cristo non ci ha imputato i peccati, ma ci ha
perdonato, li ha presi su di sé. Quindi il perdono precede la conversione. Ci
possiamo convertire perché lui ci ama e ci accoglie sempre. Non è perchè io mi
sono convertito perché sono diventato più bravo, ma io mi converto perché scopro
di non essere bravo e che Dio mi perdona! Se capisco questa cosa, allora mi
converto, vivo una vita nuova, quella di Cristo, che è una vita nell’amore.
Ecco cos’è il Battesimo nel nome di Gesù e nello Spirito santo. Paolo impose le
mani ed essi ricevettero lo Spirito che diede loro il potere di parlare in
lingue e di profetare. Ricevere lo Spirito di Gesù vuol dire far entrare dentro
di noi la sua Parola che facendoci capire queste cose, ci trasforma, ci fa
rinascere, ci fa vivere in lui e come lui, ci rende figli del Padre e ci fa
vedere gli altri come fratelli, perché ci riempie dell’amore che unisce il
Padre e il Figlio. E questo amore è il suo Spirito. Lo Spirito santo è la
presenza in noi dell’amore del Padre e di Gesù. E allora parlo in lingue, parlo
cioè una lingua che tutti capiscono, che è quella dell’amore. E divento
profeta, che non vuol dire predire il futuro: a questo ci pensano le previsioni
del tempo, Nostradamus e gli oroscopi. Essere profeti vuol dire vedere le cose
con gli occhi e col cuore di Dio. Il cristianesimo, dunque, non è una religione
perché non siamo noi che cerchiamo di ingraziarci Dio, ma è la fede in un Dio
che ci ama a prescindere, e questo suo amore ci trasforma. Una fede guidata
dallo Spirito di Gesù che ci porta a sentirci amati non perché siamo bravi, ma
perché siamo peccatori. I nostri riti religiosi non sono pertanto pratiche
umane che siamo costretti a fare per ingraziarci il Signore, ma sono i veicoli
della sua grazia, cioè suoi doni. Venendo a messa, infatti, non è Dio a dirci
grazie e bravi, ma siamo noi a dirgli grazie, riconoscendo che questa è cosa
buona e giusta, nostro dovere perché è fonte di salvezza. Come capisco
l’importanza della mano destra quando ho la sinistra ingessata, come capisco
cos’è la vista quando la perdo, come capisco l’importanza della persona amata
quando la perdo, allo stesso modo capisco l’importanza dello Spirito santo di
Gesù risorto quando non vivo nella pace e nella gioia il rapporto con Dio e non
vivo nell’amore il rapporto coi fratelli.