domenica 26 febbraio 2017

OMELIA ULTIMA DOMENICA DOPO EPIFANIA ANNO A

Io mi sto rendendo sempre più conto che questa parabola è il concentrato teologico di tutto il Vangelo, ed è quella che, se compresa, riesce a cambiare il nostro rapporto con Dio e il nostro atteggiamento verso gli altri. Il volto di Dio è ben rappresentato dal padre di questa parabola, e i suoi due figli ci rappresentano purtroppo molto bene. Il figlio minore, il cosiddetto figlio prodigo, è il
credente che considera Dio un nemico della propria libertà, e infatti se ne allontana, salvo poi ritrovarsi in una condizione peggiore, ad essere schiavo di un estraneo e a morire di fame. Solo a quel punto decide di tornare da suo padre, cercando anche le parole da dirgli, che sembrano un atto di dolore, come quello che diciamo quando andiamo a confessarci, ma che in realtà sono solo di convenienza: non è pentito, semplicemente sta morendo di fame e spera che il padre lo riaccolga in casa dove stava meglio. E qui c'è il collegamento con la prima lettura. Il profeta Osea aveva una moglie abbastanza vivace che continuava a tradirlo, perché in realtà invece di amarlo come un marito, lo considerava come un padrone, e quindi cercava affetto da tutti gli altri uomini, e quando alla fine non trova quello che cercava, decide di tornare dal marito, non per amore, ma per convenienza. E Osea cosa fa? Ecco la novità. Invece di strozzarla, cerca i modi per sedurla e per proporle un nuovo viaggio di nozze, senza nemmeno aspettare che si penta, desiderando così che lei torni a considerarlo suo marito, non suo padrone. Osea racconta la sua storia perché, già molto prima di Gesù, capisce che è così che Dio fa con noi: ci perdona prima che siamo pentiti, ci ama gratis, non dobbiamo fare niente per meritarci il suo amore, dobbiamo solo accoglierlo, e così facendo allora forse c'è speranza che abbiamo a pentirci e a vivere con lui un rapporto basato sull'amore, perché il suo desiderio non è che gli obbediamo, ma che siamo felici, e la felicità è proprio scoprire di essere amati e imparare ad amare, a seguire cioè l'unica legge che egli ci ha dato, la legge dell'amore. E così Gesù, rifacendosi a questa pagina di Osea, fa vedere che se quel figlio aveva rinunciato al padre, il padre non aveva rinunciato al figlio. Aveva rispettato la sua libertà, e dunque ci fa vedere che Dio non è un padrone, tanto è vero che era sempre restato ad aspettarlo, e quando lo vede tornare, gli corre incontro commosso, per ridargli la vita, gli si getta al collo non per strozzarlo, ma per baciarlo, cioè per perdonarlo prima ancora del pentimento. Verrebbe da dire che Dio non perdona mai, perché non si sente mai offeso: o Gesù d'amore offeso ce lo siamo inventati noi. Il sacramento della confessione lo si vive male per questo motivo, perché lo si pensa come al tribunale dove io sono l'imputato, Dio il giudice e il prete l'avvocato, quando invece è il momento nel quale sperimentare il bacio di Dio che ridà la vita, che mi ridona l'eredità perduta, quella di essere suo figlio amato. Il padre non gli chiede nemmeno che cosa ha fatto e quante volte, e non gli lascia neanche terminare la frase che si era preparato. Il figlio crede che anche il perdono vada meritato: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Il perdono è un dono gratuito, che non si merita, nessuno lo merita, stop! Il padre non lo rimprovera nemmeno, come Gesù non rimproverò l'adultera, non gli fa nemmeno una ramanzina (adesso mi raccomando), ma addirittura lo premia, gli rimette la veste, cioè gli ridà la dignità di figlio, e gli dà l'anello, che è come se fosse la carta di credito, proprio a lui che aveva dilapidato tutto. Chi assicura al padre che la notte stessa il figlio non se la svigni di nuovo? Nessuno. Ma questo è il rischio dell'amore. Gesù vuol far comprendere che l'amore di Dio viene concesso anticipatamente e gratuitamente senza nessuna garanzia. Roba da matti diremmo noi, ed è per questo che tuttora proprio noi che diciamo di essere discepoli di Gesù non riusciamo a capacitarci che Dio agisca così, e infatti andiamo avanti a pensare come il figlio maggiore, cioè come gli scribi e i farisei che poi sono i destinatari di questa parabola, chiamata a torto la parabola del figliol prodigo forse proprio per cercare di sviare il punto cruciale del discorso di Gesù che è sul figlio maggiore. Il figlio maggiore rappresenta il credente che, come gli scribi e i farisei, ritiene che l'amore di Dio lo si ottiene per i propri sforzi e giudica male tutti gli altri che non fanno come lui. Rappresenta l’uomo pio e religioso di ieri e di oggi per il quale Dio è comunque un padrone al quale si è graditi se si fa tutto giusto come lui ha detto, se si sgarra guai, e così uno passa tutta la vita attento a non sgarrare, cercando di impegnarsi il più possibile a svolgere tutti i suoi doveri e, quando ci riesce, giudica tutti gli altri che non ci riescono come peccatori che se non si convertono verranno prima o poi giustiziati da Dio, e se non lo fa Dio, li giustizia lui. Questo credente, che posso essere io, si ribella all'idea che Dio arrivi addirittura a premiare i peccatori, perché si crede giusto. E sono proprio i giusti quelli che Gesù faceva fatica a convertire. E infatti sulla croce viene messo da loro. Quando un bambino chiede alla mamma chi è stato a mettere Gesù sulla croce, normalmente si risponde: gli uomini cattivi. Non furono gli uomini cattivi a mettere Gesù sulla croce, ma quelli che si ritenevano bravi. Infatti il figlio maggiore, quando gli dicono qual era il motivo della festa, si arrabbia, non vuole entrare. Il padre esce a supplicarlo perché ama anche lui allo stesso modo, ma lui non capisce, e infatti gli risponde: da tanti anni io ti servo. Quante volte dalla bocca dei cristiani viene fuori questa frase: ma cosa ho fatto per meritarmi tutto questo io che cerco di fare il bravo, prego e vengo a messa? Vedete la mentalità perversa del figlio maggiore? Agli altri va tutto bene. Come per dire: Dio dovrebbe premiare me, non gli altri. Dio non è un padre, ma un padrone, un datore di lavoro, e noi i suoi schiavi. Non mi hai mai dato un capretto per far festa con gli amici. Ma scemo, prenditelo, fai festa, cosa aspetti, è tutto tuo, godi del fatto di essere con me nella mia casa come figlio, non come servo, sei tu il fortunato, non tuo fratello. E no, protesta il figlio maggiore: questo è tuo figlio, non mio fratello! Non si sente suo fratello. Ha divorato il tuo patrimonio con le prostitute! E chi lo ha detto? Lui l'ha detto, non c'era scritto che era andato con le prostitute. Per dire come la malizia di chi vive in modo così perverso il rapporto con Dio porta a vedere anche quello che non è. E il padre è ancora lì ad aspettare che il figlio maggiore entri a far festa. Quindi vedete come davvero in questa parabola c'è dentro tutta la rivoluzione del Vangelo, la buona notizia su Dio che ribalta l’orribile e angosciante immagine di Dio con la quale purtroppo sono cresciute anche generazioni di cristiani e che ha portato molti a vivere la fede non come liberazione e come gioia, ma come angoscia, e molti altri, i più furbi e coraggiosi, a diventare atei. Qui non si tratta di diventare atei, ma di riscoprire il vero volto di Dio, quello che Papa Francesco continua ad annunciare, e non è un caso che vi siano nella Chiesa molti pii e benpensanti a cui questa cosa non va bene. Ma il problema non è questo, non sono gli altri, ma sono io: a me piace questo Dio, che è il Dio di Gesù?