domenica 29 luglio 2018

X DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Il filo rosso che lega le letture di questa domenica è il tema del tempio. Prima di tutto il tempio in muratura, quello costruito da Salomone e di cui parlava il brano del primo libro dei Re, e poi quello in cui si svolge la scena del vangelo, che non era più quello di Salomone, perchè venne distrutto dai Babilonesi, e nei tempi precedenti la venuta di Gesù ne costruirono un altro, che a sua volta nel 70
dopo Cristo fu distrutto dai romani. Il tempio in muratura era per gli ebrei quello che per noi cristiani è la basilica di san Pietro a Roma e, più in piccolo, i nostri edifici, le chiese. Abbiamo letto di Salomone che costruisce un tempio al Signore, grandioso, dove raduna l’argento e l’oro di Davide suo padre, dove i sacrifici consumati sono all’insegna della spettacolarità: “immolavano davanti all’arca pecore e giovenchi che non si potevano contare né si potevano calcolare per la quantità”. Ma poi ecco la nota dissonante. Nel santo dei santi, cioè nella parte più intima del tempio (quella che per noi potrebbe essere il tabernacolo), ecco che c’è in una tenda l’Arca dell’Alleanza contenente nient’altro che le due tavole di pietra della Legge date da Dio a Mosè, con scritte le parole dell’alleanza. E, si legge, “appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nube riempì il tempio del Signore, e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il tempio del Signore. Allora Salomone disse: "Il Signore ha deciso di abitare nella nube oscura". Come “escono” i sacerdoti dal santuario, vi “entra” Dio con la sua presenza. Che è “nube oscura”, dice Salomone, non certo per alludere al buio, ma per alludere al mistero impenetrabile che circonda Dio. Dio abita non in mezzo a liturgie spettacolari e grandiose e non gli interessano i sacrifici, ma abita il silenzio e il segreto. Le nostre liturgie, come quella della cena del Signore che stiamo celebrando, devono servire per farci incontrare il Signore: le parole, i gesti, i segni, i canti sono strumenti che servono a noi, non a Dio, per imparare ad accorgerci che Dio abita già dentro di noi col suo Spirito. “Siamo infatti noi”, scrive san Paolo ai Corinti nel brano di oggi “il tempio di Dio”. Ecco la svolta, il grande passaggio. Dio è dentro di noi, siamo noi il suo tabernacolo. E’ dentro di noi col suo Spirito. E quando noi ascoltiamo la sua Parola e questa Parola germoglia dentro di noi, ecco che il nostro spirito entra in contatto con lo Spirito del Signore dentro di noi, e noi diventiamo davvero come l’arca dell’alleanza che custodiva al suo interno le dieci parole che Dio diede a Mosè, scritte non più su tavole di pietra, ma appunto nel nostro cuore. Di più. Perché la Parola di Gesù ci rivela il mistero impenetrabile di Dio, riesce a dissipare questa nube oscura. E dunque occorre che tutto quello che facciamo nelle nostre liturgie serva a mettere in contatto il nostro spirito con quello del Signore. Questo vuol dire pregare: chiedere al Signore che quella Parola che è lo stesso Gesù che poi diventa pane di cui nutrirci possa davvero formare il nostro spirito, e che noi diventiamo come lui. Come vedete, non c’è nulla da sacrificare al Signore, ma c’è solo da accogliere lui che si dona a noi, altrimenti anche l’eucaristia diventa un rito così formale da cui il Signore scappa. E immagino che adesso diventi molto chiaro il gesto forte, quasi violento, dirompente di Gesù compiuto da Gesù nel tempio di Gerusalemme. Un gesto così importante che tutti e quattro gli evangelisti ne parlano, ma ancora troppo poco capito. Gesù non si arrabbia perché la gente nel tempio, invece di pregare, vendeva e comprava, come per dire: queste cose fatele fuori di qui e non nel tempio, un po’ di educazione please! Spesso viene inteso così, ma è un’interpretazione banalissima e superficiale. La gente vendeva e comprava gli animali da sacrificare a Dio, e naturalmente c’era chi, in nome di Dio, aveva vantaggi economici (un po’ quello che accade in molti santuari e luoghi di culto). Ma il gesto di Gesù vuole evidenziare appunto che con Dio non si mercanteggia: più sacrifici faccio più tu sarai benevolo con me e mi concederai le grazie di cui ho bisogno. Quello che accadde purtroppo anche nella storia della Chiesa con la vicenda della compravendita delle indulgenze. E siccome tra qualche giorno ricorre l’indulgenza della Porziuncola, o del perdono di Assisi, occorre fare chiarezza. Pian piano anche la Chiesa ha fatto dei passi comprendendone il vero valore. L’indulgenza è una cosa sola: è Dio che è indulgente con noi, cioè misericordioso, e la sua indulgenza è gratis, noi dobbiamo solo accoglierla dicendo grazie, come i fanciulli quando ricevono gratis un dono. E infatti cosa fa Gesù subito dopo avere scacciato tutti quelli che vendevano e compravano? Si mise a guarire i ciechi e gli storpi che gli si avvicinavano, che nulla avevano da sacrificare, ma tutto avevano da ricevere. Ci sarebbero molte altre cose da dire su questo vangelo, ma mi fermo qui. C’è dunque solo una grazia da chiedere al Signore quando preghiamo: di accogliere la sua indulgenza, il suo amore che si manifesta nel perdono, nel donarci la sua Parola e il suo Pane, affinchè, entrando in contatto col suo Spirito presente in noi, diventiamo capaci di vivere come Gesù. E questa grazia Dio la concede non a coloro che gli sacrificano qualcosa per ottenere altre grazie, ma a tutti quelli che sono disposti a lasciarsi trasformare da Lui, perché Gesù ci ha rivelato questo: che Dio non è quello che cambia magicamente le cose che non vanno, ma è colui che vuole cambiare e trasformare la mia vita a immagine della sua.