domenica 7 luglio 2019

IV DOMENICA DOPO PENTECOSTE ANNO C

 Una lettura superficiale di questi pochi versetti del vangelo presi dal Discorso della Montagna ci porterebbe a dire: siamo spacciati! È vero che non ho ucciso nessuno, quante volte, però, mi sono arrabbiato col mio fratello, e poi quante volte ho insultato gli altri con parole ben peggiori di “pazzo” e “stupido”. Forse è da qui è nata l’idea che dire le parolacce sia un peccato. Allora proviamo ad
andare un po’ più a fondo, perché Gesù non è venuto per dare lezioni di galateo o di buona educazione. Qui Gesù sta spiegando l’autentico significato del quinto comandamento, non uccidere. A volte, in confessione, capita di sentire qualcuno che dice: io sono a posto, non ho ucciso, non ho rubato, ecc. E no, dice Gesù, io vi dico: non uccidere non significa soltanto non ammazzare qualcuno fisicamente. Questo è il minimo. Il massimo, dirà Gesù in seguito, è amare i propri nemici. Perché? Per il semplice e sublime motivo che, ci piaccia o meno, se chiamiamo Dio col nome di Padre vuol dire che riconosciamo di essere suoi figli amati e che gli altri sono tutti nostri fratelli da amare. Lo scopo della vita non è portare gli altri in tribunale, ma farli diventare nostri fratelli. Per questo, dice Gesù, vigila anzitutto sul sentimento dell’ira, perché già questo conduce a non considerare l’altro come tuo fratello, ma come nemico da cui difendersi o da attaccare per eliminarlo dalla tua vita. E vigila sulle parole che scaturiscono dall’ira: se dici “stupido” al fratello vuol dire che lo consideri inferiore a te, e se gli dici “pazzo” (un termine che nel linguaggio biblico significa “empio”) vuol dire che lo consideri come il male in persona, e quindi da eliminare. Come vedete, non è questione di parolacce, quindi di buona o cattiva educazione, ma un ammonimento per non finire nel “fuoco della Geenna”. Cosa vuol dire questa espressione? La Geenna era una valle fuori le mura di Gerusalemme adibita a discarica, dove si bruciavano le immondizie, e dove c’era sempre il fuoco. In pratica, Gesù sta dicendo: quando nel rapporto con l’altro tu ti arrabbi e non disinneschi subito questa rabbia, e questa rabbia si trasforma in insulto e l’insulto arriva addirittura ad escludere l’altro dalla tua vita, tu non lo stai considerando come fratello, lo hai già eliminato, e così stai buttando nell’immondezzaio la tua vita, la stai buttando via, perché tu sei fatto per amare, non per odiare. “Si, ma l’altro se lo merita, io non ce la faccio a volergli bene dopo tutto quello che mi ha fatto”, diciamo noi. Bene, ci risponde Gesù, cerca di farlo, se no sei tu che butti via la tua vita, sei tu il primo a rimetterci. Per questo siamo qui a celebrare l’eucaristia, proprio per ricevere ogni volta dal Signore l’iniezione di quel surplus di amore ci manca per poterlo poi dare agli altri. E questo è il significato del racconto di Caino e Abele che abbiamo letto prima. Le domeniche dopo Pentecoste, nel rito ambrosiano, ci fanno ripercorrere da Adamo ed Eva in avanti gli eventi principali della storia della salvezza così come viene raccontata dalla Bibbia. Se il peccato di Adamo ed Eva letto domenica scorsa è quello di fuggire da Dio, pensandolo come nemico della gioia e non come Padre, oggi abbiamo letto qual è la conseguenza di questo peccato. Che facendo così diventiamo come Caino: se non considero Dio come Padre che mi ama come figlio, allora Abele non è mio fratello, e questo genera odio, guerra, violenza, prevaricazione, omicidi. Attenzione, lo dicevo anche domenica scorsa: Caino e Abele, come Adamo ed Eva, non sono personaggi storici, ma rappresentano ciascuno di noi. Abele, il cui nome “hebel”, in ebraico, significa soffio, alito di vita, rappresenta la vita umana che è fragile e transitoria e soccombe davanti alla forza e alla violenza del più forte. Di lui, nel breve brano della lettera agli Ebrei, si dice che per la fede offrì a Dio un sacrificio più prezioso di quello di Caino, e più avanti verrà addirittura paragonato a Gesù, l’uomo giusto per eccellenza che viene ucciso sulla croce. Cos’è questo sacrificio più prezioso? È l’unico sacrificio gradito a Dio: la misericordia verso i fratelli. Caino pensava a Dio non come Padre, ma come datore di lavoro a cui sacrificare qualcosa per ottenere in cambio lo stipendio, cioè dei favori, come chi ragiona dicendo: io sacrifico il mio tempo per fare il bravo, per venire a Messa, per pregare, e quindi Dio deve pagarmi. Se non lo fa, perché tutto mi va storto, allora non vale la pena, e si diventa invidiosi di chi magari queste cose non le fa e tutto gli va bene. E’ da questo errore di fondo, pensare Dio come uno a cui sacrificare e non come un Padre datore di vita, cioè di amore, che scaturiscono i sentimenti di ira e di invidia di Caino che lo portano a uccidere Abele. Dov’è Abele tuo fratello?, chiede il Signore a Caino. Non lo so, sono forse io il custode di mio fratello? Per forza: se non si rimane nel giusto rapporto con Dio, di conseguenza gli altri non sono miei fratelli, ma diventano nemici da combattere. E così si diventa, come Caino, destinati a propria volta a subire la vendetta degli altri. Per cui c’è solo un modo per frenare il dilagare della violenza: che nessuno tocchi Caino, che anche Caino torni ad essere considerato un fratello, altrimenti si diventa come lui. Mentre noi siamo chiamati da sempre a diventare come Gesù, il vero Abele, il giusto, capace di morire per gli ingiusti, perdonando. E’ il dono che chiediamo al Signore in ogni e in questa eucaristia.