domenica 23 febbraio 2020

ULTIMA DOMENICA DOPO EPIFANIA

Gli scribi e i farisei si scandalizzavano perchè Gesù mangiava con i peccatori, con tutta quella brutta gente che le persone perbene giudicavano esclusa dall’amore di Dio e con la quale non volevano contaminarsi, come quando noi diciamo che non è bene frequentare cattive compagnie. Gesù invece ci sguazzava in mezzo alle cattive compagnie, e questa cosa scandalizzava i benpensanti. Proprio per
loro Gesù racconta questa parabola del padre e dei suoi due figli: il padre rappresenta Dio, il figlio minore i peccatori e il figlio maggiore i benpensanti, gli uomini religiosi dell’epoca. C’è dunque questo figlio minore a cui interessano solo i soldi e chiede al padre l’eredità che gli spettava, come se il padre fosse già morto, e il padre gliela concede. È addolorato, ma rispetta la sua libertà. Questo figlio siamo noi quando Dio lo consideriamo non come un Padre, ma come un bancomat che ci dia quello che vogliamo. Si allontana dalla casa del padre e, siccome è un emerito idiota, sperpera tutti i soldi, per questo viene chiamato prodigo, cioè uno che sperpera tutto quello che ha. Si sentiva libero, ma, restato senza soldi, per poter sopravvivere, diventa schiavo di qualcuno che possa dargli da mangiare mandandolo a pascolare i porci. Ecco cos’è il peccato: pensare solo a se stessi, ai propri interessi, usare male la libertà. Allora decide di tornare a casa, ma non perché sente rimorso per il dolore arrecato a suo padre, non perché si era pentito, ma solo per interesse, altrimenti sarebbe morto di fame. Anche qui, vedete, è arrabbiato con sè stesso, non riesce a perdonare la sua stupidità, al centro c’è sempre lui, il suo è solo un senso di colpa, niente più. Siccome però la legge prevedeva che chi avesse ricevuto l’eredità non aveva più il diritto di essere trattato come figlio, si fa furbo e cerca il modo di ingraziarsi il padre preparandosi a recitare un atto di dolore. Questo figlio, vedete, rappresenta bene chi pensa che Dio detesta i peccatori, li punisce, li castiga, però se si pentono e fanno qualche sacrificio li perdona. Come chi va a confessarsi fondamentalmente per mettersi un po’ a posto la coscienza, poi basta un’Ave Maria e un Padre nostro per rimettere le cose a posto. E invece, ecco la sorpresa! Si ritrova di fronte a un padre che lo vide quando era ancora lontano, che gli corse incontro, non per bastonarlo, per condannarlo, per fargli ramanzine, per vedere se era pentito; un padre che non gli si getta al collo per strozzarlo, ma per abbracciarlo, senza aspettare che andasse a purificarsi (perché chi entrava in contatto con i maiali era giudicato impuro); lo bacia, cioè lo perdona prima ancora che il figlio apra la bocca, prima ancora di sentire le stupidate che si era preparato, infatti non appena il figlio comincia a recitare il suo atto di dolore, ma non fa a tempo a finire di dire tutto quello che aveva in mente perchè il padre lo interrompe prima che gli dica “non sono degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi servi”, perchè lo vuol far sentire figlio, lo zittisce, lo riveste con le preziose vesti del suo amore, gli mette l’anello regale ad indicare che torna a ridargli fiducia totale. Questo è il modo col quale Dio si comporta con i peccatori. Dio non attende che gli uomini si convertano per concedergli il suo perdono, Dio li perdona in anticipo, così eventualmente poi gli uomini si possono convertire. Pensate come cambierebbe il modo di andarsi a confessare se capissimo questa cosa: “avrò detto tutto, mi sarò dimenticato qualcosa, Dio mi perdonerà, ma in fondo non sono neanche molto pentito”. Non sappiamo come si si sarà comportato in seguito quel figlio, e infatti non viene detto nulla, perché a Dio interessa solo donare il suo amore non a chi se lo merita, ma a chi ha più bisogno. Vedete come spesso tanti brani di vangelo sono stati intitolati male? Questa parabola dovrebbe chiamarsi non “Il figliol prodigo”, ma “Il Padre prodigo”, prodigo di amore, di amore, di compassione. Ma Gesù dicevamo, non raccontò questa parabola per i discepoli, ma per gli scribi e i farisei che vengono rappresentati dall’altro fratello. Tornato dal lavoro, il fratello maggiore sente provenire dalla casa suoni di festa, si insospettisce, ma non va a vedere cos’è successo, lo chiede a un servo. Rappresenta bene tutta quella religiosità cupa, tetra, dove il rapporto con Dio è vissuto all’insegna non della gioia, ma del sacrificio, della penitenza, non del piacere, ma del dovere, della paura, del sospetto, della preoccupazione di fare tutte le cose per bene, per dovere, non per amore, ma per ottenere una ricompensa. In questo non è molto diverso dal fratello minore. Anche lui viveva così il rapporto col padre, ma almeno lui aveva avuto il coraggio di andarsene via. Ebbene, quando il fratello maggiore viene a conoscere il motivo della festa, ecco che si arrabbiò e non voleva entrare. Al che il padre esce per pregarlo, come aveva fatto per il figlio minore, e si sente ripetere le frasi tipiche di chi fa tutto per Dio e se vede che le cose gli vanno male dice: perché a me si e non a quelli che si comportano male? “Sono anni che ti servo, non ho mai trasgredito un tuo comando e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa, a lui si, a quel tuo figlio (non lo chiama fratello)”. Ma come?, risponde il padre: “è tutto tuo, hai la tua eredità di figlio, usala anche tu, usala bene, sii felice, e sii felice con me perché è tornato tuo fratello!”. Vedete come con Gesù le cose cambiano: Dio non è uno a cui obbedire, ma un Padre dal quale accogliere l’amore per assomigliargli riversandolo sugli altri. Un Dio che perdona, ma l’effetto del perdono è quando anche noi perdoniamo. Che scandalo questo Dio, lo vedevamo anche domenica scorsa quando Gesù dice all’adultera: neanch’io ti condanno. Siamo pieni di gioia al pensiero che è questo il Dio in cui diciamo di credere, oppure restiamo scandalizzati anche noi?