giovedì 2 luglio 2020

Omelia V domenica dopo Pentecoste

Il tema sviluppato dalle letture di questa quinta domenica dopo Pentecoste è quello della fede. Rileggiamo la profonda definizione di fede che viene data dall’autore della lettera agli Ebrei proprio nel primo versetto della lettura di oggi: “La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”. Fondamento di ciò che si spera: cosa vuol dire? Tutti viviamo di speranze: se io non sperassi che


le vacanze che farò saranno belle, non partirei nemmeno; se uno non sperasse che quella persona è la donna della sua vita non si sposerebbe. Vuol dire dunque che la base, il fondamento che consente di sperare è la fede, cioè un atto di fiducia in qualcuno o in qualcosa, senza il quale uno non si alzerebbe nemmeno dal letto. Senza fiducia in quello che mi dice un dottore, non prenderei neanche una medicina nella speranza di guarire. Senza fiducia nel cuoco che fa da mangiare, la speranza di fare un’ottima cena al ristorante non ci sarebbe, e io resterei a casa, sperando, oltretutto, che mia mamma non metta a sua volta del veleno nella pastasciutta, e alla base di questa speranza c’è la fede, la fiducia in mia mamma. Poi però la frase continua: la fede non è solo fondamento di quello che si spera, ma è anche la prova di quello che non si vede. Potremmo tradurla così: provare per credere, oppure, credere per provare. Cioè, alla fine devo buttarmi: solo facendo qualcosa che spero accada, che ancora non vedo, ma che penso sia degno di fiducia, potrò capire se ho riposto bene la fiducia. Ecco perché dicevo che senza fede uno non si alzerebbe neanche dal letto. Quindi, vedete, la fede è qualcosa di profondamente umano che ci riguarda tutti, senza fede e senza speranza non si vive. La fede è dunque qualcosa di molto concreto, ed è banale pensare che la fede sia qualcosa che riguarda solo chi crede in Dio e dire: c’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Di più. Credere in Dio o non crederci serve a niente se questa cosa non cambia la vita, possibilmente in meglio. Io posso anche credere che esistano gli extraterrestri, ma finchè essi non entrano in contatto con me o io con loro, la mia vita va avanti uguale, e se entrassi in contatto con loro, un conto è se essi vengono in pace, un altro è se vengono a distruggermi. Uno può dire di credere in Dio, ma questa fede serve a niente se non gli cambia il modo di pensare e di vivere. E poi, attenzione, quando si parla di fede in Dio bisogna capire di quale Dio parliamo. Se dico di credere nel Dio di Gesù, il Dio Trinità, se chiamo Dio col nome di Padre e poi sono razzista, se faccio la comunione tutte le domeniche pensando di essere in comunione col Signore e poi non sono in comunione con gli altri, se il mio modo di pensare, di ragionare e di vivere non c’entra niente con quello che ha detto e insegnato Gesù, se di fronte alla morte di qualcuno mi dispero come chi non crede nella risurrezione, cosa serve dire il Credo che tra poco ripeteremo? A nulla. Allora, la fede cristiana non è un generico credere nell’esistenza di Dio, ma fidarsi di Gesù, cioè credere che facendo quello che Gesù ha insegnato (provare per credere) e fidandomi di quello che lui ha detto di Dio, tutte le promesse di Gesù che suscitano speranza, si possono realizzare. Se lui ha detto beati i poveri, i misericordiosi, i miti, gli affamati di giustizia, quelli che perdonano, quelli che danno da mangiare a chi ha fame, che accolgono il forestiero, che curano chi ha bisogno, che si mettono a servizio degli altri, che amano i nemici, e potremmo andare avanti con l’elenco rileggendo tutti i vangeli…finchè queste cose non le faccio, non potrò mai verificare, cioè avere la prova, che Gesù ha ragione. Certo, l’ultima prova che chi vive così la sua vita terrena non morirà mai, quella ce l’avrò quando sarò morto, ma in ogni caso devo fare una scelta, devo decidere come vivere la mia vita, se in una direzione o in un’altra. Per questo Abramo, dice sempre la lettera agli Ebrei, è un modello di fede, perché fece quello che Dio gli aveva ordinato di fare. Il suo lungo viaggio di cui parlava la lettura e che lo portò a spostarsi da Ur dei Caldei che si trova in Iraq, passando per Carran che è in Siria per arrivare poi nella terra di Canaan, la Palestina, è una metafora per indicare che quello della fede è un cammino, prima di tutto interiore, che poi ha delle conseguenze esteriori. Se è un cammino vuol dire che ci sono dei passi da fare, e che quando faccio un passo vado avanti e lascio dietro qualcosa. E così arriviamo al vangelo dove Gesù dice, usando altre metafore, cosa bisogna lasciare, cioè quali sono gli ostacoli che impediscono un cammino autentico di fede. Lasciare il nido, la casa, la tana, quella che hanno le volpi e gli uccelli, vuol dire imparare a lasciare le proprie certezze, le proprie sicurezze anzitutto materiali, come per Abramo era la terra in cui abitava. Per Gesù, l’unica sicurezza che dobbiamo avere è il suo amore, per cui tutto il resto deve servire come mezzo per vivere e far vivere gli altri, non come scopo della vita. Tra queste sicurezze c’è sempre il dio denaro. Lascia che io prima seppellisca mio padre. No, lascia che i morti seppelliscano i loro morti. I morti, per Gesù, non sono i defunti, ma quelli che pensano solo ai soldi, che hanno come Dio il denaro, che hanno fede e speranza solo in quello: perché quel tale voleva andare a seppellire il padre? Perché altrimenti non avrebbe avuto l’eredità. E infine non bisogna mettere mano all’aratro e poi volgersi indietro. Cioè: la nostalgia del passato. Quando uno è ostaggio delle sue abitudini e dice: io sono fatto così non posso cambiare; oppure ragiona dicendo: si è sempre fatto così, e vede tutte le novità come un dramma; quando non si è disposti al cambiamento in generale (vale anche per chi gli crolla il mondo addosso se cambia un orario della messa o dovesse vivere da un’altra parte), come potrà mai cambiare la sua mentalità e conformarla a quella di Gesù? Come potrà sperare di uscire di chiesa anche oggi almeno un po’ diverso da come è entrato?