Il tema sviluppato dalle letture di questa quinta domenica dopo Pentecoste è quello della fede. Rileggiamo la profonda definizione di fede che viene data dall’autore della lettera agli Ebrei proprio nel primo versetto della lettura di oggi: “La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”. Fondamento di ciò che si spera: cosa vuol dire? Tutti viviamo di speranze: se io non sperassi che
le vacanze che farò saranno belle, non
partirei nemmeno; se uno non sperasse che quella persona è la donna della sua
vita non si sposerebbe. Vuol dire dunque che la base, il fondamento che
consente di sperare è la fede, cioè un atto di fiducia in qualcuno o in
qualcosa, senza il quale uno non si alzerebbe nemmeno dal letto. Senza fiducia
in quello che mi dice un dottore, non prenderei neanche una medicina nella
speranza di guarire. Senza fiducia nel cuoco che fa da mangiare, la speranza di
fare un’ottima cena al ristorante non ci sarebbe, e io resterei a casa,
sperando, oltretutto, che mia mamma non metta a sua volta del veleno nella
pastasciutta, e alla base di questa speranza c’è la fede, la fiducia in mia
mamma. Poi però la frase continua: la fede non è solo fondamento di quello che
si spera, ma è anche la prova di quello che non si vede. Potremmo tradurla
così: provare per credere, oppure, credere per provare. Cioè, alla fine devo
buttarmi: solo facendo qualcosa che spero accada, che ancora non vedo, ma che
penso sia degno di fiducia, potrò capire se ho riposto bene la fiducia. Ecco
perché dicevo che senza fede uno non si alzerebbe neanche dal letto. Quindi,
vedete, la fede è qualcosa di profondamente umano che ci riguarda tutti, senza
fede e senza speranza non si vive. La fede è dunque qualcosa di molto concreto,
ed è banale pensare che la fede sia qualcosa che riguarda solo chi crede in Dio
e dire: c’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Di più. Credere in Dio o non
crederci serve a niente se questa cosa non cambia la vita, possibilmente in
meglio. Io posso anche credere che esistano gli extraterrestri, ma finchè essi
non entrano in contatto con me o io con loro, la mia vita va avanti uguale, e
se entrassi in contatto con loro, un conto è se essi vengono in pace, un altro
è se vengono a distruggermi. Uno può dire di credere in Dio, ma questa fede serve
a niente se non gli cambia il modo di pensare e di vivere. E poi, attenzione, quando
si parla di fede in Dio bisogna capire di quale Dio parliamo. Se dico di
credere nel Dio di Gesù, il Dio Trinità, se chiamo Dio col nome di Padre e poi sono
razzista, se faccio la comunione tutte le domeniche pensando di essere in
comunione col Signore e poi non sono in comunione con gli altri, se il mio modo
di pensare, di ragionare e di vivere non c’entra niente con quello che ha detto
e insegnato Gesù, se di fronte alla morte di qualcuno mi dispero come chi non
crede nella risurrezione, cosa serve dire il Credo che tra poco ripeteremo? A
nulla. Allora, la fede cristiana non è un generico credere nell’esistenza di
Dio, ma fidarsi di Gesù, cioè credere che facendo quello che Gesù ha insegnato (provare
per credere) e fidandomi di quello che lui ha detto di Dio, tutte le promesse di
Gesù che suscitano speranza, si possono realizzare. Se lui ha detto beati i
poveri, i misericordiosi, i miti, gli affamati di giustizia, quelli che
perdonano, quelli che danno da mangiare a chi ha fame, che accolgono il
forestiero, che curano chi ha bisogno, che si mettono a servizio degli altri,
che amano i nemici, e potremmo andare avanti con l’elenco rileggendo tutti i
vangeli…finchè queste cose non le faccio, non potrò mai verificare, cioè avere
la prova, che Gesù ha ragione. Certo, l’ultima prova che chi vive così la sua
vita terrena non morirà mai, quella ce l’avrò quando sarò morto, ma in ogni
caso devo fare una scelta, devo decidere come vivere la mia vita, se in una
direzione o in un’altra. Per questo Abramo, dice sempre la lettera agli Ebrei,
è un modello di fede, perché fece quello che Dio gli aveva ordinato di fare. Il
suo lungo viaggio di cui parlava la lettura e che lo portò a spostarsi da Ur
dei Caldei che si trova in Iraq, passando per Carran che è in Siria per
arrivare poi nella terra di Canaan, la Palestina, è una metafora per indicare
che quello della fede è un cammino, prima di tutto interiore, che poi ha delle
conseguenze esteriori. Se è un cammino vuol dire che ci sono dei passi da fare,
e che quando faccio un passo vado avanti e lascio dietro qualcosa. E così
arriviamo al vangelo dove Gesù dice, usando altre metafore, cosa bisogna
lasciare, cioè quali sono gli ostacoli che impediscono un cammino autentico di
fede. Lasciare il nido, la casa, la tana, quella che hanno le volpi e gli
uccelli, vuol dire imparare a lasciare le proprie certezze, le proprie
sicurezze anzitutto materiali, come per Abramo era la terra in cui abitava. Per
Gesù, l’unica sicurezza che dobbiamo avere è il suo amore, per cui tutto il
resto deve servire come mezzo per vivere e far vivere gli altri, non come scopo
della vita. Tra queste sicurezze c’è sempre il dio denaro. Lascia che io prima
seppellisca mio padre. No, lascia che i morti seppelliscano i loro morti. I
morti, per Gesù, non sono i defunti, ma quelli che pensano solo ai soldi, che
hanno come Dio il denaro, che hanno fede e speranza solo in quello: perché quel
tale voleva andare a seppellire il padre? Perché altrimenti non avrebbe avuto
l’eredità. E infine non bisogna mettere mano all’aratro e poi volgersi
indietro. Cioè: la nostalgia del passato. Quando uno è ostaggio delle sue
abitudini e dice: io sono fatto così non posso cambiare; oppure ragiona dicendo:
si è sempre fatto così, e vede tutte le novità come un dramma; quando non si è
disposti al cambiamento in generale (vale anche per chi gli crolla il mondo
addosso se cambia un orario della messa o dovesse vivere da un’altra parte),
come potrà mai cambiare la sua mentalità e conformarla a quella di Gesù? Come
potrà sperare di uscire di chiesa anche oggi almeno un po’ diverso da come è
entrato?