domenica 13 febbraio 2022

13/02/22 VI DOMENICA DOPO EPIFANIA (ANNO C)

Anche ai tempi di Gesù c’era il Green pass! La legge religiosa ebraica, che era anche una legge civile, prevedeva che chi guariva dalla lebbra si presentasse dai sacerdoti a Gerusalemme, i quali dovevano verificare l’avvenuta guarigione e rilasciavano loro un certificato, una specie di Green pass appunto. 

Per questo motivo Gesù dice ai 10 lebbrosi che erano andati da lui sperando di venire guariti di andare a presentarsi al sacerdote. Oggi, della lebbra, se ne parla solo in chiesa quando si leggono vangeli come questi, eppure la lebbra è ancora una delle 20 malattie tropicali che colpisce quasi 1 miliardo di persone nei paesi tropicali. Nei Vangeli, però, col termine lebbra si indicavano diverse malattie della pelle che rendevano contagiosi, ripugnanti e sgradevoli i malati, al punto che dovevano restare reclusi in posti isolati, non potevano avere relazioni con nessuno, praticamente dovevano restare in quarantena, anche per tutta la vita, se uno non guariva, un po’ come è stato purtroppo per tanti malati nelle nostre case di riposo a causa del Covid. Ma, a quei tempi, i lebbrosi dovevano stare isolati a distanza da tutti perché si credeva che Dio li avesse castigati per qualche peccato commesso, ed entrare in contatto con loro voleva dire contaminarsi anche nello spirito e così non poter più andare in sinagoga o nel tempio: per accedere a Dio bisogna prima purificarsi. Se, in più, un uomo, oltre ad essere lebbroso, era anche uno straniero, e oltre ad essere straniero era addirittura un samaritano, cioè un nemico di Israele, apriti cielo: per lui proprio non c’era più speranza di integrazione sociale e di salvezza, nemmeno se avesse ottenuto il Green pass ad avvenuta guarigione. Peccato che il profeta Isaia, lo abbiamo ascoltato nella lettura, avesse detto che nessun uomo era escluso dal raggio d’azione dell’amore di Dio, nemmeno lo straniero e nemmeno l’eunuco, cioè un uomo menomato nel corpo. Ma la voce dei profeti ha sempre faticato ad essere accolta. Lo capì invece molto bene San Paolo, lui che, prima della conversione, era un uomo della legge, perché era un fariseo convinto. Dopo aver conosciuto Gesù, cosa capisce? Che la legge serve per farti capire cosa devi fare e cosa non devi fare, l’ideale a cui tendere, ma non ti dà la forza per fare il bene e per evitare di male. Che bello se fossimo tutti sani, belli, buoni, bravi, intelligenti, se fossimo tutti nati già perfetti e capaci di camminare come vorrebbe il Signore, ma non è così. Quindi la Legge serve solo per farci sentire in colpa, perché dentro di noi ci sono delle forze che ci spingono non a fare il bene che vorremmo, ma il male che non vorremmo, e allora uno vive tutta la vita con angoscia, come una scalata verso Dio, e in tanti restano indietro. Paolo capisce che Gesù non è venuto a portare gli uomini a Dio, ma ha portato Dio agli uomini, accompagnando il nostro fragile cammino, guarendoci lui col suo amore: non c’è più bisogno di essere puri per entrare in comunione con Dio, ma è Dio che ci rende puri col suo amore, è Dio che ci dà la vita, una vita capace di superare anche la morte e di affrontare ogni avversità in un modo nuovo, dandoci la forza di fare quello che da soli non potremmo fare: un Dio che non guarda i nostri meriti, ma i nostri bisogni. Quindi, anche le malattie non possono essere un castigo, infatti Gesù, di fronte ad ogni sorta di malattia e di infermità, interveniva per curare o per guarire, non per infierire mettendo il coltello nella piaga. E un giorno disse: voi farete opere più grandi di quelle che ho fatto io! Perché Gesù aveva certamente poteri taumaturgici, come li avevano e li hanno tante persone, se si escludono i ciarlatani, e li aveva in quanto uomo, non in quanto Dio, ma, in ogni caso, la sua azione poteva raggiungere solo alcune persone, non tutti. Per questo Gesù non voleva che si facesse pubblicità quando guariva qualcuno: perché si capisse che non è Dio a intervenire per guarire qualcuno, ma che è il suo spirito d’amore a rendere capace, chi lo accoglie, di prendersi cura dei bisogni degli altri, come nella storia hanno fatto non solo madre Teresa di Calcutta verso i lebbrosi, ma come hanno fatto e continuano a fare milioni di persone, uomini e donne, pensiamo solo in questo tempo di pandemia a tutti i medici e gli infermieri, e come fa ognuno di noi quando si prende cura di chi ha bisogno. Ecco perché i tanti episodi come quelli raccontati dai Vangeli di queste domeniche dopo l’Epifania non bisogna chiamarli miracoli, come ho avuto ampiamente modo di spiegare nelle catechesi che ho fatto nel mese di gennaio. Ad ogni modo, il Vangelo di oggi ci dice un’altra cosa fondamentale. Ci mostra che la salvezza donata da Dio non è la guarigione da una malattia. È fondamentale capire questa cosa. Purtroppo, la capì solo il samaritano, non gli altri nove. Di lui, l’unico che tornò indietro a ringraziare Gesù riconoscendolo come Signore, si dice che fu salvato, non da Dio, ma dalla sua fede, mentre degli altri si dice soltanto che vennero guariti. Proviamo a capire quest’ultima cosa partendo proprio dalla situazione pandemica che stiamo vivendo. Certamente guarire dal Covid è importante, ma a cosa serve non essere più positivi al Covid se poi si continua ad essere negativi nel vivere la vita? A cosa serve tornare a stare in salute, a tornare a vivere senza bisogno di mascherine e senza bisogno di esibire alcun green pass, se poi di fatto ci portiamo dentro quella lebbra che ci impedisce di vivere secondo la legge dell’amore e continuamente angosciati di fronte alla vita e alla morte? E’ da questo mal di vivere che ci salva il Signore, e la fede che ci salva è precisamente questa. Per questo è cosa buona, giusta e fonte di salvezza rendere sempre grazie al Signore: non perché o quando le cose vanno per il verso giusto, ma sempre, perché ringraziare vuol dire riconoscere la sua onnipotenza capace di farci vivere l’esistenza non più da lebbrosi.