Mentre il calendario civile comincia il primo gennaio e finisce il 31 dicembre, il calendario della Chiesa, cioè il calendario liturgico, inizia con l’Avvento, domenica prossima, e termina oggi, con la festa di Cristo Re dell’universo. L’anno liturgico, come un album di fotografie, ci fa percorrere il mistero di
Cristo, dei santi e della Chiesa. Si comincia in Avvento celebrando il Signore che è venuto, viene e verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e si conclude oggi mostrandoci in che modo il Signore, Re dell’universo, giudica il mondo. Un giudice rifiutato, sconfitto e deriso da tutti, a sua volta giudicato come malfattore; un re che ha come trono la croce da cui emette un giudizio di perdono per tutti, preoccupato non di salvare sé stesso, ma di salvare tutti. Sapete quando si dice: Dio è buono, certo, però alla fine rimetterà le cose a posto; ora perdona tutti, ma alla fine darà a ciascuno il suo. E’ quello che pensavano i capi del popolo, la folla, i soldati: se sei Dio, dimostralo scendendo dalla croce, salvando te stesso, e così tutti capiranno se abbiamo ragione noi o hai ragione tu. Ragionava così anche uno dei due malfattori. L’altro, invece, passato alla storia come il buon ladrone, intuisce la verità. Non era buono, era un malfattore come il suo compare, lo dice lui stesso: noi veniamo giustamente condannati perché ce lo meritiamo. Ma, guardando l’uomo crocifisso, lo chiama per nome, è l’unico, in tutto il vangelo, a chiamarlo per nome, Gesù, perché Gesù significa “Dio salva”. Capisce, cioè, che davvero Cristo è Re, ma non perché usa il suo potere per salvare sé stesso, ma per salvare chi è perduto, che il potere di Dio è solo quello di perdonare e di continuare a infondere, a questo mondo e all’intera umanità, il suo spirito di vita immortale e di amore, soprattutto, a chi è senza amore e, per questo, compie il male, si sente solo e senza speranza. Capisce che il potere di Dio non è quello di premiare i buoni, ma di far risorgere noi vivi che, senza amore, siamo come morti. Per questo Gesù gli risponde: oggi stesso sarai come me in paradiso. E’ l’unica volta che Gesù usa questa parola, paradiso, riferendosi alla vita eterna, la vita dei risorti. Usa questa parola riferendosi al libro della Genesi, dove Dio castiga l’uomo peccatore e lo caccia dal paradiso, per far comprendere che non è così: Dio non guarda i meriti delle persone, non punisce e non castiga i peccatori come faremmo e facciamo noi, non guarda le virtù degli uomini, ma i loro bisogni, ma le loro necessità. L’unica cosa che occorre fare, per avere la salvezza, è riconoscere il suo amore, accoglierlo e lasciarsi trasformare da questo amore. Diversamente, ci autocondanniamo da soli a fallire, ora e per sempre, la nostra esistenza. L’inferno non è la punizione che Dio infligge ai malvagi, ma è la conseguenza di chi resta per sempre chiuso e impermeabile all’azione dello Spirito. E’ questa grande verità che quel malfattore riesce ad intuire, una verità che, ancora oggi, anche noi cristiani, fatichiamo a comprendere. Per questo continua ad essere pressante e fondamentale l’invito, se non il comando di san Paolo che abbiamo riascoltato nell’epistola, ad avere anche noi gli stessi sentimenti di Cristo, perché Gesù, proprio morendo sulla croce, restituendo vita e amore a chi gli dava morte e odio, dimostra che Dio è uno che si dona, che vuole partecipare a tutti la sua stessa vita immortale, che svuota se stesso (perché l’amore è svuotarsi per far posto all’altro, mentre l’egoismo è riempirsi), che diventa simile a noi, schiavi del peccato, dell’egoismo e dalla paura della morte, per farci diventare come lui. Questo è l’unico potere di Dio, e che Dio partecipa a tutti quelli che lo accolgono, per farci diventare tutti regine e re come lui