Le letture di oggi ci invitano a riflettere su un tema molto importante e attuale: l’ospitalità. Il primo brano, dal libro dei Re, racconta l’episodio del profeta Elia, che trovò accoglienza in casa di una vedova straniera, cioè non appartenente al popolo ebraico. Nella lettera agli Ebrei abbiamo ascoltato l’invito:
“Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”. Il riferimento è al celebre episodio della Genesi in cui Abramo, con generosità, ospitò tre viandanti del deserto, e scoprì poi di aver accolto Dio stesso. Gesù, nel Vangelo, conferma questa verità: ai discepoli inviati in missione dice che chi accoglie loro, accoglie Lui; e chi accoglie Lui, accoglie il Padre che lo ha mandato. Significa che, quando qualcuno — anche distante dalla fede — accoglie un discepolo di Gesù, senza saperlo accoglie Dio stesso. Perché questo? Perché il discepolo di Gesù, se davvero è un discepolo, è uno che, sapendo di essere figlio amato del Padre, accoglie ogni uomo come fratello con lo stesso sguardo del Padre. Perciò, chi, a sua volta, sentendosi accolto da un discepolo di Gesù, lo accoglie, entra anche lui in questa logica di fraternità: che lo riconosca o meno, diventa anche lui figlio del Padre. E la ricompensa di cui parla Gesù promessa a chi offre anche solo un bicchiere d’acqua “a uno di questi piccoli perché è un discepolo” non è un premio che Dio darà un giorno in cielo, ma la possibilità, già oggi, di vivere in un mondo più umano, più giusto e fraterno. E’ molto interessante l’etimologia e il significato della parola “ospite” (andatelo a leggere sul dizionario). Ospite non è solo chi viene accolto, ma anche chi accoglie. E’ interessante che, in latino, il termine hospes (cioè ospite) e hostis (cioè nemico, straniero, da cui la parola “ostile”), abbiano la stessa radice. Significa che l’ospitalità che cos’è? è ciò che trasforma il nemico in un fratello. Per gli antichi ebrei, l’ospitalità era sacra: ai tempi di Abramo, quando erano nomadi e vivevano in mezzo ai pericoli del deserto, essere accolti e accogliere qualcuno, chiunque fosse, era questione di vita o di morte, e l’ospite godeva di protezione. Quando, invece, diventarono un popolo sedentario, l’accoglienza si limitò a chi apparteneva alla stessa cultura e religione, escludendo gli stranieri. Ma Dio non è d’accordo. Emblematico è, infatti, il racconto del profeta Elia: un profeta israelita, affamato e disperato, viene mandato da Dio, non a Israele, ma in terra straniera, nemica, a Sarepta, dove incontra una vedova poverissima, con un figlio a carico. La vedova, nella Bibbia, è il simbolo della fragilità e della miseria assoluta. Ma lei, nonostante tutto, accoglie Elia. E quell’accoglienza diventa vita per tutti: né lei, né suo figlio, né il profeta moriranno di fame. Questo è il miracolo. Se oggi i cosiddetti “sionisti” israeliani rileggessero con sincerità e verità queste pagine bibliche, non agirebbero così. Invece, paradossalmente, oggi questa scena è rovesciata perché è proprio Israele che sta provocando un’ecatombe in Palestina, seminando morte e distruzione, generando migliaia di vedove e di orfani. Quel che è peggio, secondo me, è che i governanti dei nostri paesi cosiddetti “civili” e “cristiani” non fanno nulla per sanzionare la violenza del governo israeliano, e le uniche parole forti le scagliano contro chi cerca di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale su questa tragedia. Tra pochi giorni, il 7 ottobre, ricorrerà l’anniversario dell’altra tragedia, quella provocata da Hamas contro Israele, che a sua volta affonda le sue radici su tante altre ingiustizie e violenze pregresse. Del resto, come sempre ricorda la Chiesa, non può esserci pace senza giustizia. E la vera giustizia nasce da quello che ha insegnato Gesù, inviando i suoi discepoli in missione per annunciarlo: la vera giustizia nasce quando ci sono cuori capaci di ospitare i bisogni dell’altro. Il vero miracolo, nella storia di Elia e della vedova, non è tanto la farina e l’olio che non finiscono, ma il cuore capace di ospitare i bisogni dell’altro: una donna disperata che apre la porta, un profeta affamato che scopre fratellanza dove pensava di trovare inimicizia. Così nasce e cresce il Regno di Dio annunciato da Gesù, quando, nel vangelo di domenica scorsa (ricordate?) diceva: “Amate i vostri nemici, benedite chi vi maledice”. La vera giustizia e la pace si possono costruire quando gli uomini imparano da Gesù crocifisso a non rispondere al male subito con un male ancora peggiore, a coltivare sentimenti di ospitalità e non di vendetta, altrimenti il male si moltiplica e la ricompensa per tutti è morte e distruzione, esattamente l’opposto della ricompensa promessa da Gesù. Facciamo in modo, oggi, tra di noi, che la Parola del Signore penetri nei nostri cuori. Perché siamo noi quei discepoli che Gesù manda nel mondo. E la Messa ci ricorda proprio questo: “Messa” significa essere mandati. Alla fine della Messa viene detto: Andiamo in pace. Non è un semplice saluto, ma un invio: portare pace, costruire comunione, testimoniare con la vita che Dio è Padre e che la fraternità è l’unica via della vita.