domenica 17 settembre 2017

III DOMENICA DOPO IL MARTIRIO ANNO A

Questo Vangelo inizia dicendo che Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare, ma la traduzione esatta è un’altra: Gesù pregava da solo. Eppure c’è scritto che i discepoli erano con lui. Certo, perché si può essere con Gesù, ma lasciarlo da solo se non facciamo quello che fa lui. Possiamo anche noi essere qui in chiesa con Gesù senza però volerlo seguire e imitare, questo è il guaio. Il discepolo non
è uno che accompagna Gesù, ma che lo segue. Come nei rapporti tra le persone: un conto è stare insieme a qualcuno, un altro è amarlo. Io, dunque, che dico di essere suo discepolo, sono qui in chiesa con Gesù col desiderio di volerlo ascoltare, conoscere, amare e seguire, o sono qui per chiedergli altro o per altri motivi? E poi il Vangelo prosegue con Gesù che pose loro questa domanda: le folle chi dicono che io sia? Gesù in precedenza, dopo aver istruito i discepoli, li aveva mandati in missione. Come fa ogni volta con noi quando veniamo a Messa: qui ci istruisce con la sua Parola, ci dona se stesso come pane di vita, e poi, usciti di qui, inizia la missione, quella di testimoniare il suo amore, di far conoscere l’amore di Dio. Ma questa testimonianza non va fatta come i testimoni di Geova che vanno nelle case a rompere le scatole alla gente dicendo oltretutto delle cretinate, ma amando i fratelli nel modo che Gesù ci ha insegnato. Quindi in questo momento siamo anche noi come i suoi discepoli: dall’ultima messa a cui ciascuno ha partecipato era iniziata la missione, e adesso siamo qui, e Gesù chiede anche a noi come è andata, e lo fa con questa domanda intrigante: le folle chi dicono che io sia? Cioè: la gente che ti ha incontrato da quando tu sei venuto a messa l’ultima volta, cosa ha capito di me? Col tuo modo di vivere, gli altri cos’hanno capito di me? Da questo si capisce cosa tu hai capito di me. E la risposta che riceve dai discepoli fa cadere le braccia. Verrebbe da dire: meno male, perché vuol dire che anche noi siamo in buona compagnia. Dicono a Gesù: per alcuni sei Giovanni Battista, per altri sei Elia o uno degli antichi profeti che è risorto. Tutte risposte sbagliate. Ma è così anche oggi come allora. Se chiedessimo alla gente che non viene in chiesa chi è Gesù per te, otterremmo risposte le più diverse. Qual è la cosa che colpisce? Che Gesù non sembra preoccuparsi di quello che pensa la gente di lui, ma si preoccupa di quello che pensano di lui i suoi discepoli: voi, invece, chi dite che io sia? Non sarà forse che se la gente verso la quale i suoi discepoli erano stati mandati in missione pensa di Gesù cose sbagliate è perché i discepoli per primi hanno capito niente e sono andati in giro a vendere fumo? Una domanda che dobbiamo farci tutti proprio in occasione delle tante feste patronali o dell’oratorio come quelle che vivono le nostre parrocchie in questi giorni di settembre durante le quali tanta gente, tanta folla frequenta i nostri ambienti, folla che poi normalmente, dal giorno dopo non si vede più, nella logica del passata la festa gabbatu lu santu. E allora giù con altre feste, cene, pranzi, giochi, gonfiabili, falò, lotterie, premi, teatri, e chi più ne ha più ne metta. La questione non è che queste che queste cose, tutte belle, non vanno fatte, ma la domanda è se dietro il fumo delle salamelle e delle patatine riusciamo o meno a diffondere il buon profumo dell’amore del Signore o no. A volte mi viene da rispondere di no, considerando appunto che poi queste folle, dal giorno dopo non si vedono più. È pur vero che non c’è peggior sordo di chi non vuol capire è che ognuno è responsabile delle sue scelte. Voglio dire che io posso anche il più grande testimone della fede, e poi non ottenere alcun risultato positivo, perché ognuno ha la sua libertà e nessuno può imporre niente a nessuno, sarebbe violenza. Ma se io trasmetto o meno il buon profumo dell’amore di Dio è la questione fondamentale. Solo che per fare questo, noi per primi che siamo qui in chiesa col Signore come gli apostoli del vangelo, dobbiamo aver capito chi è Gesù. Purtroppo anche noi, come gli apostoli, dopo duemila anni, rischiamo di non averlo capito. Siamo esattamente come Pietro, quindi in buona compagnia. Voi sapete che il vero nome di Pietro è Simone. Quando nel Vangelo Simone viene chiamato Pietro, come in questo caso, vuol dire che sta dicendo una stupidata. Pietro risponde a nome di tutti, e la sua risposta, apparentemente, sembrerebbe giusta: tu sei il Cristo di Dio. Evidentemente non lo era, visto che Gesù impose loro severamente di non dirlo a nessuno. Ma come? Gesù non è il Cristo? Cristo, addirittura, lo abbiamo fatto diventare quasi il cognome di Gesù. Certo che Gesù è il Cristo, il problema è cosa si intende per Cristo. Cristo è la traduzione in greco del termine ebraico Messia, e Messia vuol dire unto, consacrato, scelto da Dio come suo rappresentante. All’epoca di Gesù tutti aspettavano questo Messia, ma le sue caratteristiche erano quelle che avevano in mente Giovanni Battista, Elia e altri profeti, descritte bene dal profeta Isaia nella lettura di oggi, che ora non mi metto a spiegare, ma che nella sostanza sono quelle del vendicatore che fa tornare a Gerusalemme il suo popolo disperso ai quattro venti sterminando i suoi nemici. Se il Cristo è questo, ed è il rappresentante di Dio, vuol dire che Dio è uno che premia, castiga, punisce, fa, disfa, è tipo un giudice, un poliziotto pronto a darti la multa, un padrone, un datore di lavoro. Pietro, dicendo che Gesù era il Cristo di Dio, aveva in mente un Dio fatto così. È da questa idea di Dio che poi nascono le bestemmie. Spesso mi chiedo come mai così tanti cristiani bestemmiano? Non parlo di quelli che bestemmiano come intercalare, per sport, perché questi sono solo poveri ignoranti, ma di chi bestemmia quando le gli vanno male le cose, perché la bestemmia è in fondo un grido di rabbia nei confronti di Dio quando non interviene come dovrebbe, quando cioè non fa il suo lavoro. Se Dio è un giudice giusto, un governatore e un datore di lavoro, uno si arrabbia quando non ripaga le persone secondo i loro meriti. Certo, ma questo è il Dio che ci siamo inventati noi, non il Dio di Gesù. Per questo ritengo che le bestemmie serie in fondo non lo sono, perché si rivolgono a un Dio che non esiste. Gesù ha rivelato che Dio non è niente di tutto questo. Ma se noi, come Pietro, applichiamo a Gesù l’idea di Dio che abbiamo in mente, andiamo avanti a credere in un Dio che non c’è e, quel che è peggio, a testimoniarlo alle folle. E allora cosa dobbiamo fare? Dobbiamo imparare, noi, non gli altri che non vengono in chiesa, a desiderare di scoprire il vero volto di Dio. Ma per farlo, non ci si può accontentare del limitato spazio della predica della domenica o delle reminiscenze del catechismo , ma occorre che ognuno cerchi di approfondire la fede o per conto suo o cercando di partecipare, ad esempio, ai tanti momenti di formazione rivolti a tutti nel corso dell’anno (gruppi di ascolto, catechesi, corsi biblici, gruppi familiari, momenti di adorazione). Altrimenti, come dicevo, si rischia di andare avanti tutta la vita a pensare di essere discepoli di Gesù senza conoscerlo. Oggi è la giornata del seminario. Quando il profumo della bellezza del volto di Dio diventa più attraente del buon profumo delle salamelle e nelle nostre feste riusciremo a cuocere le salamelle facendo trasparire il buon profumo della fede, allora, sarà automatico che ci saranno più seminaristi. Semplicemente perché ci saranno più cristiani. Se i seminaristi e anche i preti sono pochi, e magari neanche buoni, è perché per poter scegliere di diventare prete, prima bisogna aver scoperto la bellezza dell’essere cristiano, e quindi se sono pochi, è perché pochi sono i cristiani che hanno scoperto la bellezza del volto di Dio che Gesù ci ha rivelato. Dunque pregare perché ci siano tanti preti significa che ognuno deve preoccuparsi di se stesso a imparare a conoscere e seguire Gesù, non come accompagnatore, ma come discepolo.