domenica 13 maggio 2018

ASCENSIONE DEL SIGNORE OMELIA DELLA DOMENICA

 Luca riporta due racconti dell’Ascensione, uno a conclusione del Vangelo e l’altro come introduzione al libro degli Atti degli Apostoli. Per comprendere il significato dell’Ascensione bisogna rifarsi alla cultura dell’epoca, al modo in cui era concepito il rapporto tra il cielo e la terra. Dio era lontano dagli uomini e stava in cielo, e gli uomini naturalmente erano sulla terra. Pertanto tutto ciò
che proveniva da Dio scendeva dall’alto, scendeva dal cielo, mentre tutto quel che andava verso Dio saliva verso il cielo. Che è un po’ quello che in fondo pensiamo anche noi. Del resto quando diciamo “Padre nostro che sei nei cieli” ci viene da guardare in alto, e quando diciamo che Gesù risorto è asceso al cielo pensiamo che Gesù sia in cielo e lontano da noi. Lo stesso dicasi di Maria (assunta in cielo) e dei nostri defunti (“sono in cielo”). Anche il vangelo di oggi sembrerebbe confermarlo: “Gesù si staccò da loro e veniva portato su in cielo”. Forse anche per questo l’Ascensione tende a diventare la “cenerentola” delle feste cristiane. Pensate solo quanta importanza diamo al Natale e quanta ne diamo all’Ascensione. Questo probabilmente è dovuto al fatto che si festeggia più volentieri il Signore che viene, e non il Signore che va via e che scompare. Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile, e l’invisibilità, la lontananza, è qualcosa che fa sempre soffrire, quando ad allontanarsi è una persona cara. Non penso solo ai nostri morti, ma anche quella tra due amanti che attendono di rivedersi. Però la lontananza, alla lunga, può anche allentare una relazione, tanto è vero che abbiamo coniato il proverbio “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Ed è proprio questo quello che accadde: “Gesù fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”. Però, la storia che seguì, che è quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, e che continua per noi oggi, contiene una sfida al proverbio, perché dimostra che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore. L’Ascensione rovescia il proverbio, che così diventa: “lontano dagli occhi, ma vicino nel cuore”. Perché questo? Perché dobbiamo entrare nel significato del linguaggio biblico, non dobbiamo prenderlo sempre alla lettera, come in questo caso. L’incarnazione di Dio che celebriamo col Natale di Gesù rivela che Dio non è in cielo, ma che Dio è dentro la nostra carne mortale, perché si è fatto uomo. Non siamo noi ad andare in cielo, ma è il cielo che è entrato dentro di noi. La parola “cielo”, nel linguaggio biblico, indica Dio, infinito “come il cielo”. “Padre nostro che sei nei cieli” non significa che Dio è in cielo, ma “Padre nostro che sei Dio”. E dunque il salire al cielo di Gesù non può essere un allontanamento di Dio, e infatti è un modo per spiegare cosa vuol dire che Gesù è risorto: vuol dire che la sua persona, dopo la sua morte, non è scomparsa, ma continua a vivere in Dio (“in cielo”). E siccome Dio è dentro di noi, l’ascensione di Gesù significa non che egli è assente o lontano, ma che continua ad essere presente in ciascuno di noi mediante lo Spirito santo: “io manderò su di voi colui che il Padre mio ha promesso”, come celebriamo a Pentecoste. Vedete, l’anno liturgico che giustamente ci fa celebrare a distanza i vari avvenimenti della vita di Cristo, da un lato è necessario per aiutarci a penetrare in ciascuno di questi misteri, ma d’altro lato, se non stiamo attenti, rischia di farci perdere il senso complessivo di tutto. Tutto è ormai compiuto, non è che ogni anno Gesù nasce, poi muore, poi risorge, poi ascende al cielo, poi ci dà lo Spirito santo. Non è così. È dalla Pasqua che dobbiamo partire per comprendere tutte le cose, e l’ascensione e la Pentecoste ci fanno capire cos’è la Pasqua, cosa vuol dire che Gesù è risorto: vuol dire che non è più visibile ai nostri occhi (l’ascensione), ma continua ad essere presente in noi col suo Spirito (presente nel cuore, la Pentecoste). E così capiamo il significato del Natale: che Dio appunto non è in cielo, non è lontano, ma assume la nostra carne mortale, infatti è lo Spirito a generare Gesù in Maria, lo stesso Spirito che nel Battesimo genera Gesù in noi. E se noi, come Gesù, ci lasciamo guidare dal suo Spirito, vivendo come Gesù una vita nell’amore, siamo già risorti adesso, perché siamo in comunione con Dio che è amore, e anche su di noi, come per Gesù, la morte non avrà potere, anzi, la morte del corpo diventa il passaggio definitivo che ci porta ad ascendere al cielo, cioè ad entrare nella pienezza della comunione con Dio. Ma siccome Dio è in noi col suo Spirito, vuol dire che chi muore, anche se è lontano dagli occhi di chi non è morto, in realtà, come Gesù, non è lontano dal cuore, ma abita proprio nel cuore di tutti. Appunto perché con l’Ascensione Gesù non si allontana dal mondo, ma si avvicina; la sua non è un’assenza, ma una presenza ancora più intensa. Del resto, finchè Gesù era in vita, la sua presenza era solo per le poche persone che lo vedevano. Invece, con la sua ascensione, pensate quanti miliardi di storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore, che è Vivente, e che nell’eucaristia ci ha fatto il regalo più grande che potesse farci. Rendendosi visibile nel pane consacrato ci permette di nutrirci di lui, di masticarlo, di assimilarlo, per alimentare questo legame di comunione con lui, per aiutarci ad accogliere il suo amore, per sentirlo vivente in noi capace di darci vita, e infatti quando ce ne nutriamo diciamo che facciamo la comunione col Signore. Ma siccome egli è presente in tutti, ricevere l’ostia consacrata vuol dire entrare in comunione con tutto il corpo di Cristo, che è la sua Chiesa, capaci come lui di accogliere tutti e di non escludere nessuno, perché quando escludo qualcuno, sto escludendo Dio che è presente in tutti.