domenica 8 settembre 2019

II DOMENICA DOPO IL MARTIRIO

 Praticamente Gesù sta dicendo che ci sono due categorie di persone: ci sono quelli che sanno di essere peccatori, di compiere il male, come i pubblicani e le prostitute, e quelli che sono peccatori come loro, che fanno il male come loro, ma non lo ammettono, pensano di essere giusti, e questi sono messi peggio, perché se io riconosco il mio male ho la possibilità di cambiare, di ravvedermi, se io
non lo riconosco perché penso di essere giusto, rimango col mio male e sono spacciato. Chi si crede giusto, a posto, è svantaggiato rispetto a chi sa di non esserlo. Del resto, può convertirsi solo chi si rende conto di non essere a posto. Chi si sente a posto non cambierà mai. Ma c’è qualcosa di ben più profondo dietro questa verità. Gesù vuol far capire qual è l’origine del male, cos’è che porta tutti a fare il male, e poi perché alcuni lo riconoscono e altri non lo riconoscono, o non vogliono riconoscerlo. E qui entrano in gioco le altre due letture di oggi, soprattutto quella di San Paolo. Io non entro nei particolari perché se no facciamo notte. Lo farò, per chi verrà ad ascoltare, nell’incontro di lunedì sera di spiegazione della Parola di Dio della domenica. Perciò adesso mi limito ad andare al nocciolo della questione, una questione però che è così importante che se la si capisce, cambia tutto il modo di vivere la nostra vita, il rapporto con Dio, con se stessi, con gli altri. Il nocciolo della questione è questo. Il male, il peccato, è sempre uno solo: l’egoismo, il pensare solo a se stessi, a farla da padrone sugli altri, fare il male agli altri o essere indifferenti ai bisogni degli altri. Ma perché uno fa il male? Non perché è cattivo, ma perché è triste, perché non sa o non capisce o non ha mai sperimentato di essere amato, e allora cerca in tutti i modi di affermare se stesso. Come quando uno ha fame, sente un vuoto nella pancia e cerca cibo da mangiare, allo stesso modo uno che non si sente amato ha un vuoto dentro di sé per cui cerca gli altri per mangiarli. Se invece uno si sente ripieno d’amore, non cerca più gli altri per mangiarli, piuttosto si mette a sfamarli, e lo fa con gioia. Perché il senso, la gioia della vita, la salvezza, la giustificazione la chiama San Paolo, consiste in questo: nel sentirsi amati e nell’amare, non nel contrario. Ma allora perché, se Dio è amore, se Dio ci ama così come siamo, come figli, non come servi, riempiendoci d’amore, noi continuiamo lo stesso a fare il male? Semplice. Perché in fondo non ci crediamo, continuiamo a pensare a Dio come a un padrone, a un signore da servire per ottenere quello che vogliamo noi, pronto a punirci se sgarriamo e a mandarci all’inferno. Per cui cerchiamo di meritarci il suo amore cercando di ubbidirgli, anche quando facciamo il bene, ma lo facciamo o per paura di incorrere in una punizione o per essere poi ricompensati ottenendo le grazie che chiediamo, ma in fondo, fosse per noi, faremmo il contrario. È classica la frase che spesso si sente dire quando uno riceve un torto da una persona: “guarda, meriteresti che io ti spaccassi la faccia, ma per carità cristiana non lo faccio”, che tradotto vuol dire: “fosse per me ti ammazzerei, se non lo faccio è grazie a Dio”, il che vuol dire che non ti spacco la faccia non perché sei un mio fratello da amare, ma per timore di Dio, che è esattamente il contrario dell’insegnamento di Gesù, che ha detto di amare l’altro perché ha la mia stessa dignità di uomo amato da Dio. Dio si prende cura della sua vigna, che siamo noi, e si attende i frutti giusti, quelli dell’amore, diceva Isaia, ma non è così. Perché? Appunto perché non capiamo che Dio non è uno a cui ubbidire e che ci chiede cose strane e fuori dal mondo perché, se le facciamo ci premia, se non le facciamo ci punisce, ma che Dio è il principio di tutto l’universo, è colui che ha immesso nell’universo l’unica legge che gli permette di vivere e di evolvere, la legge dell’amore, e quindi che la comunione con Dio serve per accogliere il suo Spirito d’amore che ci rende capaci di amare con lui così da poter realizzare la nostra umanità. Noi ci realizziamo, diventiamo persone vere, non facendo il male, ma amando come Gesù. Fare il bene è conveniente, è l’unico modo per realizzare la nostra umanità: questa è la vera fede, credere in questa verità. No, dice il primo figlio della parabola raccontata da Gesù, quando il padre gli chiede di andare a lavorare nella sua vigna, cioè a produrre i frutti dell’amore. No, dice con molta onestà, non mi va, di donarmi, di servire, di essere mite, solidale, di perdonare, preferisco prendere piuttosto che dare, dominare che servire, preferisco la competizione alla solidarietà. E’ onesto con se stesso e davanti a Dio. Poi però ci ripensa, capisce, si pente e ci va. L’altro, invece, che risponde “Si signore”, considera Dio un padrone, quindi gli ubbidisce per timore, ma avrebbe voluto fare come suo fratello, e infatti poi non ci va a lavorare nella vigna, però l’apparenza è salvata, si sente a posto perché ha detto di si. Ecco perché, dicevo all’inizio, Gesù dice che è messo meglio chi fa il male rendendosene conto piuttosto di chi lo fa pensando di essere nel giusto, perché chi fa così non potrà mai cambiare. Al contrario, se capisco che Dio mi ama, mi riempie d’amore, non vuole che gli ubbidisca, ma che accolga la sua forza d’amore per vivere al meglio la mia vita, allora avrò maggiori possibilità di vincere il male e l’egoismo che sono dentro di me, perché mi sento amato, non sono più triste, non sento più il bisogno di mangiare gli altri, perché il pane di Dio, l’eucaristia, mi ha già nutrito a sufficienza. Mentre, se non mi rendo conto di questa cosa, continuo a dire di si a Dio come se fosse un padrone, ma vado avanti poi lo stesso a fare il male appunto perché resto con la mia tristezza di fondo.