domenica 27 agosto 2023

27/08/23 DOMENICA CHE PRECEDE IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA (ANNO A)

Questa domenica, nel nostro rito Ambrosiano fa da ponte, cioè che segna il passaggio tra le domeniche dopo Pentecoste e quelle che da domenica prossima si chiameranno dopo il martirio di San Giovanni Battista. E le letture di oggi sviluppano il tema del potere: il potere di Dio e il potere di Cesare (cioè il 

potere di chi è chiamato a governare uno Stato, un popolo, un gruppo, un’azienda, un’istituzione, anche quella della chiesa). Ma siccome il potere di Cesare è esercitato dagli uomini, vuol dire che il discorso si allarga al potere che è dato ad ogni essere umano, quindi a ciascuno di noi. Il significato del termine potere, anzi, del verbo potere (io posso), è molto bello perché esprime la capacità e la libertà di fare qualcosa secondo la propria volontà. Se ne avverte l’importanza soprattutto quando lo si perde (io non posso più), come accade per la salute, come accadde al popolo di Israele sotto la dominazione di Antioco Epifane, circa 160 prima della nascita di Gesù. Un regime totalitario che impediva agli ebrei di vivere secondo le loro usanze e la loro religione, come abbiamo ascoltato nella prima lettura. In seguito, poi, ai tempi di Gesù, Israele fu conquistato dai romani, che però permettevano la libertà religiosa, ma erano pur sempre invasori. E la storia continua a ripetersi fino ad oggi, basti pensare ai tanti paesi in cui non c’è libertà di pensiero e di religione, dove molti cristiani subiscono persecuzioni. Si parla spesso di poteri forti, in mano a poche persone capaci di determinare e decidere come dobbiamo pensare, vivere, agire, secondo un pensiero unico. Di per sé, il potere di Cesare è necessario: noi uomini siamo animali sociali e politici, che hanno bisogno di autorità che ci rappresentino e che organizzino la società. Il problema, dunque, non è il potere in sè, ma come si esercita il potere. Il problema non è avere in mano un coltello, il problema è chi ce l’ha in mano questo coltello e come decide di usarlo, se per tagliare la verdura o uccidere un uomo. Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Cosa significa dare a Cesare quel che è suo e a Dio quel che gli spetta? La risposta si trova comprendendo qual è il potere di Dio. Noi affermiamo che Dio è onnipotente, un termine ambiguo, perché onnipotente vuol dire che può fare tutto, e questa cosa manda spesso in crisi il credente perché, se Dio ha il potere di far tutto e nel contempo è buono, è amore, non si capisce per quale motivo intervenga così poco per impedire tutto il male che compiono gli uomini e i disastri a cui assistiamo tutti i giorni. I casi sono due o non è onnipotente o non è buono. Soltanto guardando Gesù si capisce cosa vuol dire che Dio è onnipotente: vuol dire che il suo amore che egli dona a tutti col suo Spirito, ha il potere di fare tutto, ma questo potere di fare ogni cosa, Dio la fa attraverso di noi, se noi accogliamo la potenza del suo amore. Dio agisce attraverso di noi: rende noi onnipotenti, ma onnipotenti nell’amore. Così si capisce la celebre frase di Sant’Agostino: ama e fa quello che vuoi, perché se tu ami, tutto quello che farai sarà solo donare amore. Dio ha impresso nell’uomo e non su una moneta la sua immagine. Perciò, che cosa bisogna restituire a Dio? Dobbiamo restituire noi stessi, cioè riconoscere che siamo suoi figli, chiamati dunque ad assomigliarli nell’amore, ad esercitare il nostro potere amando i fratelli come ha fatto Gesù. Se anche Cesare dà a Dio quel che è di Dio, anche Cesare eserciterà il suo potere politico per il bene di tutti. E se ogni uomo da a Dio quel che è di Dio capirà anche che cosa deve restituire a Cesare. Il credente non vive fuori dal mondo, ma è cittadino del mondo e quindi è chiamato a partecipare alla vita sociale e politica, e a rispettare l’autorità del Cesare di turno: questo va dato a Cesare. Se però il Cesare di turno governa secondo giustizia. Ma quando il potere di Cesare si propone come assoluto e impone un gioco contro coscienza, il credente è chiamato a ribellarsi, come i martiri della storia, come i martiri Maccabei della lettura di oggi, come Giovanni Battista, come Gesù. Ribellione che però non segue la logica della violenza o della restituzione del male con altrettanto male, ma segue la logica delle beatitudini, accettando dunque anche di perdere la vita, perché per Gesù il male è uccidere, non essere uccisi: beati voi quando vi insulteranno e perseguiteranno. Questo è il martirio cristiano, perché martirio significa testimonianza, e siamo chiamati a testimoniare l’amore di Dio. Non è facile, è vero. Il perché lo spiega molto bene San Paolo nel brano della lettera agli Efesini. Non è facile perché il vero nemico contro cui combattere si annida dentro di noi, è un nemico spirituale, è lo spirito del maligno, e che ci conduce a esercitare il potere non dell’amore, ma del comando, dell’egoismo, della sopraffazione, della vendetta. Se c’è una guerra, l’unica vera guerra santa da combattere quotidianamente, è quella che si combatte ogni giorno nel nostro cuore tra lo spirito Santo e lo spirito del male. Ecco perché Paolo usa un linguaggio bellico molto efficace per dire al credente quali sono le armi di cui deve fornirsi: l’armatura di Dio, molto più efficace di tutte le armi più sofisticate che si continuano a mandare in Ucraina, capaci queste si, se venissero usate, di arrestare davvero e addirittura di prevenire qualunque guerra, perché sono le armi, dice San Paolo, della verità e della giustizia e della pace. Che sono poi i frutti dello spirito che ci vengono donati nel pane spezzato e nel vino versato di cui tra poco ci nutriremo.