martedì 1 agosto 2023

IX DOMENICA DOPO PENTECOSTE (ANNO A)

Nel rito ambrosiano, le letture delle domeniche dopo Pentecoste, fino a dopo Ferragosto, raccontano in ordine cronologico un episodio legato a un 

personaggio dell’Antico Testamento per introdurre un tema che poi viene sviluppato dai brani del vangelo e di san Paolo che, quindi, sono collegati alla prima lettura. Quella di oggi racconta il momento in cui il re Davide viene aiutato dal profeta Natan a prendere coscienza del proprio peccato. Dunque, il tema sviluppato dalle letture di questa domenica è questo: che cos’è il peccato e come si comporta Dio di fronte al peccato. Penso che tutti sappiate cosa aveva combinato il grande re Davide. Mentre i suoi uomini erano in battaglia, Davide, nel suo palazzo, annoiato, siccome non gli bastavano tutte le mogli che aveva, vide la bellissima Betsabea, moglie di Uria, suo valoroso capitano, la fece portare nelle sue stanze, la stuprò e quando, in seguito, ella gli comunicò di essere incinta, Davide entrò in panico e fece di tutto per attribuire la gravidanza a Uria, il legittimo marito. Lo fece rientrare dalla battaglia come fosse una licenza premio, lo mandò a casa perché passasse la notte con sua moglie, ma Uria non se la sentì, pensando ai suoi soldati che erano sul campo di battaglia. Allora Davide escogitò un piano perché Uria tornasse in battaglia e venisse ucciso: in questo modo, Davide sposò la vedova, facendo buon viso a cattivo gioco. A crimine commesso, ed è il brano della lettura di oggi, il profeta Natan, per mettere il re di fronte alla gravità della sua azione, usa un escamotage: gli chiede di giudicare un uomo ricco che, pur possedendo tanto bestiame, non aveva esitato a uccidere l’unica pecorella di un uomo povero per dar da mangiare a un suo ospite. Di fronte a questa palese ingiustizia, Davide va su tutte le furie e decreta la morte per quest’uomo, senza avvedersi che, in realtà, quella di Natan era una parabola per parlare di Davide: tu sei quell’uomo! Smascherando quanto sia facile giudicare il male degli altri e non accorgersi del proprio. Ecco chi è l’uomo paralitico del vangelo di oggi: è Davide, e potrebbe essere chiunque di noi. Ecco cos’è il peccato: qualcosa che ci paralizza, che impedisce di camminare, di correre, di vivere. In greco, “peccato” significa direzione sbagliata di vita e in ebraico fallire il bersaglio. I peccati sono i tanti fallimenti della vita, che ti pesano, ti avvolgono, ti stringono e ti paralizzano. Oggi, di peccato, si parla solo in chiesa, e spesso non si sa più quello che è peccato o non lo è, ma abbiamo in compenso molti sensi di colpa, che sono una cosa diversa rispetto al peccato. La colpa riguarda la propria immagine, il "peccato", invece, riguarda gli altri. Se dalla finestra faccio cadere un vaso in testa ad un estraneo, mi sento in colpa, dispiaciuto per ciò che ho fatto io, al centro ci sono io. Se cade in testa ad un amico, sono dispiaciuto per il male che ho fatto a lui. Dunque, il peccato è il male che deliberatamente si compie verso gli altri. E il peccato è un fallimento per chi lo compie perché il senso e lo scopo della vita è generare vita e amore: tutto ciò che nasce dall’egoismo e che conduce a pensare solo al proprio interesse a scapito degli altri conduce, invece, a costruire l’inferno. Gesù viene a inaugurare il Regno di Dio, e Dio regna quando gli uomini imparano a riconoscersi figli di un Dio che è Padre e dunque ad amarsi come fratelli, non ad ammazzarsi. Quindi, il peccato è qualcosa che distrugge la nostra umanità. E perché Dio perdona sempre tutti? Per lo stesso motivo per cui il fuoco riscalda chiunque gli si avvicini e l’acqua disseta chiunque la beva: se Dio è fonte di vita e di amore, non può fare altro che perdonarePer questo, san Paolo scrive che la gloria di Dio è che Dio che non distrugge un vaso di creta come siamo noi, per cui non c’è situazione umana, anche la peggiore, quando ci si sente tribolati, sconvolti, perseguitati dove Dio non possa intervenire affinchè non veniamo schiacciati o ci abbandoniamo alla disperazione, perché Dio dona amore proprio a chi è privo dell’amore. Di per sé, dunque, non ci sarebbe neanche bisogno di chiedere perdono a Dio, e infatti Gesù non dice mai di chiedere perdono a Dio, ma di accogliere il perdono di Dio per perdonare gli altri. Serve a niente chiedere perdono a Dio se poi non uso il suo amore per amare gli altri: vuol dire che il suo perdono non mi ha cambiato, che sono ancora paralizzato. Chiedere perdono al Signore ha come unico scopo quello di renderci conto che siamo amati e perdonati a prescindere, e quindi che c’è sempre possibilità di cambiamento. Questo sarebbe il vero miracolo. Lo dico sempre e lo ripeto: smettiamola di chiamare miracoli i prodigi operati da Gesù, altrimenti continuiamo a rivolgerci a Dio chiedendogli grazie su grazie e arrabbiandoci con lui quando ci accorgiamo che malati o, in questo caso, paralitici, continuano a restare tali. Quelle di Gesù erano azioni visibili compiute come segni di qualcosa di ben più profondo, perché l’opera di Dio è cambiare non la realtà delle cose, ma trasformare la nostra umanità a immagine di quella di Gesù.