domenica 18 agosto 2024

18/08/24 XIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE (ANNO B)

Le prime letture di queste 13 domeniche dopo Pentecoste hanno passato in rassegna in ordine cronologico alcune tappe fondamentali della storia della salvezza come viene narrata dai libri dell’AT. E oggi abbiamo letto un brano che si riferisce al tempo in cui, circa 500 anni prima della nascita di Cristo, 

gli ebrei, dopo l’esilio a Babilonia, finalmente tornarono in patria, grazie all’intervento di Ciro, il Re dei Persiani. Ciro non era un ebreo, non aveva la religione degli ebrei, per gli ebrei era dunque un pagano, però di lui si dice che fu un uomo al quale il Signore suscitò lo spirito, perché operò il bene verso il popolo di Israele. Anche nel vangelo c’è un pagano, un centurione romano, oltretutto un usurpatore, pure lui con la sua religione che non era quella degli ebrei, ma anche lui viene descritto come uno che era amato dal popolo, che addirittura aveva costruito la sinagoga per gli abitanti di Cafarnao, e di lui, alla fine, Gesù dice: "Neanche in Israele ho trovato una fede così grande". E san Paolo, nel brano della lettera ai Romani, rincara la dose dicendo come furono proprio i pagani quelli che accolsero il vangelo, a differenza dei suoi fratelli ebrei, e tra questi pagani, non dimentichiamo che dobbiamo metterci noi, perché noi non siamo ebrei e abbiamo accolto il vangelo. E sempre san Paolo cita una frase del profeta Isaia che riassume bene il tema delle letture di questa domenica: “Dice il Signore: sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me”.  Cosa significa per noi tutto questo? Vuol dire che non c’è un popolo eletto, che lo Spirito di Dio soffia dove vuole, perché Dio è Padre di tutti gli uomini, e ogni uomo che persegue il bene e la giustizia verso i fratelli, quale che sia il popolo, la razza o la religione a cui appartiene, che lo sappia o meno, è animato dallo Spirito santo. Vuol dire che Dio non esclude nessuno dal raggio del suo amore. Ecco perché è consequenziale che non ci sia nulla di più blasfemo e contraddittorio quando gli uomini arrivano addirittura ad uccidersi e a farsi guerra nel nome di Dio. Ma se questo il tema che lega le letture di questa domenica, e di per sé potrebbe anche bastare per la nostra riflessione e preghiera, vorrei, però, che ci fermassimo un attimo su altri due aspetti molto belli del racconto evangelico. Il primo è strettamente collegato a quello che ho appena detto. Da un lato ci sono gli abitanti di Cafarnao che dicono a Gesù che quel centurione, per ciò che aveva fatto per loro, meritava di essere esaudito nella sua richiesta di guarigione del suo servo, e dall’altro lo stesso centurione si rivolge a Gesù con le parole che anche noi ripetiamo, un po’ modificate, prima di ricevere la comunione, e cioè “Signore non sono degno”. Insomma, è degno o non è degno, se la merita o no l’attenzione da parte di Gesù? Una domanda che spesso ci facciamo anche noi, oltretutto, se ci pensate, in modo molto discutibile, perché ci arroghiamo il diritto di giudicare chi sia degno o no di ricevere l’attenzione di Dio, e lo facciamo, di solito, basandoci su meriti veri o presunti, lamentandoci col Signore quando, rivendicando i nostri presunti o reali meriti, non riceviamo le grazie che chiediamo, trattando Dio come un datore di lavoro che deve lo stipendio a chi lavora bene. Invece, la novità del messaggio di Gesù che ancora fatichiamo a capire, è che, con Gesù, la questione non si pone nemmeno, perché Gesù rivela che Dio non guarda i meriti delle persone, ma i loro bisogni, e nessun uomo, come dicevo prima, è escluso dal raggio del suo amore, che distribuisce su tutti gratuitamente, come il sole che scalda tutti. Ma come agisce l’amore di Dio? Noi vorremmo che Dio agisse non solo guardando, ma risolvendo i nostri bisogni, come fece verso il servo del centurione che stava per guarire e venne guarito. Del resto, il primo livello della fede nasce dalla coscienza della precarietà (il verbo “pregare” deriva proprio da “precario”). Chi si crede lui un Padreterno non può avere la fede, perché è lui a credersi Dio. Ma, per quanta fede uno possa avere, ci sono momenti della vita, per tutti, e per molti spesso insostenibili, in cui sembra che Dio non guardi i nostri bisogni o, se li guarda, poi non fa niente, e così si entra in crisi di fede. E qui, entra in gioco il secondo aspetto che vorrei evidenziare di questo racconto, quello della fede. Cos’è la fede? Il centurione ha fede nella Parola di Gesù, una parola che realizza quello che dice: basta che tu dica una parola, e so che il mio servo verrà guarito. E così accade. Non è Dio ad operare il miracolo, ma la fede del centurione nella Parola di Gesù. Vuol dire allora che se quando chiediamo al Signore, per esempio, il dono di una guarigione, e non succede nulla, allora è per colpa della nostra fragile fede? I prodigi operati da Gesù nei vangeli e che noi ci ostiniamo a chiamare miracoli, erano segni per indicare qualcosa di più profondo e, come tali, vanno interpretati. In questo caso viene guarito un servo, uno schiavo che sta per morire, e quest’uomo rappresenta ogni uomo che, da quando nasce, è schiavo delle sue paure, dei suoi limiti e della paura della morte. La sua guarigione indica che la fede nella Parola di Gesù è in grado di liberarci, di guarirci dalle nostre paure, e farci affrontare le situazioni della vita, anche le più drammatiche, in un modo nuovo. È solo uno il dono che Dio fa a tutti, indipendentemente dai meriti: Dio dona sé stesso, il suo Spirito, accogliendo il quale possiamo vivere tutto in un modo nuovo. Questo vuol dire, anzitutto, aver fede nella sua Parola, come scrive sempre san Paolo nel brano di oggi: la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo.