Tutti i vangeli delle domeniche dopo l’Epifania, eccezion fatta per quelli delle feste della Santa Famiglia e della Presentazione al Tempio, sono racconti di alcuni prodigi di Gesù: le nozze di Cana, domenica scorsa la guarigione del servo del centurione e, oggi, la purificazione dei lebbrosi. In realtà,
gli evangelisti non li chiamano miracoli, ma segni, cioè qualcosa che rimanda ad altro, quindi qualcosa non di straordinario accaduto a qualche fortunato, ma qualcosa che Dio continua a compiere sempre. Però, bisogna leggerli attentamente, interpretando ogni particolare. Rileggiamo, allora, con attenzione, questo testo evangelico. Se conoscete un po’ la geografia di Israele, sapete che al nord c’è la Galilea, al centro la Samaria e al sud la Giudea, dove si trova Gerusalemme. Gesù si sta dirigendo verso sud, verso Gerusalemme, ma Luca scrive che Gesù attraversava la Samaria e la Galilea, quindi, passa dal centro e poi va al nord. Un itinerario un po’ contorto: sarebbe come dire che, per andare a Roma da Firenze, occorre passare per Milano. Eppure, c’è scritto così: come mai? Gesù proveniva da Nazaret, dalla Galilea, come i suoi discepoli, e la Galilea rappresenta la nostra quotidianità. La Samaria era la terra abitata dagli infedeli, meticci, eretici, considerati esclusi dalla salvezza, e quindi rappresenta la nostra lontananza da Dio. La Giudea, e Gerusalemme, è la mèta del viaggio di Gesù, il luogo dove, sulla croce, Gesù mostrerà in modo totale il volto d’amore di Dio. Luca è come se ci stesse dicendo: l’amore di Dio passa per la nostra Samaria (la nostra lontananza da lui) per far diventare la nostra Galilea (cioè, la nostra quotidianità, le nostre fragilità) luogo di salvezza in cui Dio ci incontra e ci guarisce. E non potrebbero esserci migliori rappresentanti di una situazione apparentemente senza possibilità di salvezza dei lebbrosi, che sono dieci perché il 10 è il numero della totalità, in questi 10 si può sentire rappresentato ogni uomo che cerca la salvezza, che vive una situazione estrema di difficoltà fisica, psicologica, spirituale, di chi si sente lontano o abbandonato da Dio, escluso dal suo amore. Questo perché, col termine lebbra, la Bibbia indica diverse malattie della pelle contagiose, ripugnanti e sgradevoli, al punto che i malati di lebbra erano come morti viventi, dovevano restare reclusi in posti isolati, non potevano avere relazioni con nessuno. Oltretutto, si sentivano in colpa perché gli facevano credere che Dio li stesse castigando con la lebbra per qualche peccato, e quindi si sentivano esclusi anche dal suo amore: per loro era impossibile accedere al tempio. Pensate che la lebbra è una delle 20 malattie tropicali che ogni anno, anche oggi, colpiscono più di un miliardo di persone nel mondo, causando gravi disabilità, malattie però curabili, purtroppo dimenticate, come tante altre, tanto è vero che, se ci pensate, della lebbra, al giorno d’oggi, se ne sente parlare solo in chiesa quando si leggono brani di vangelo come questo. Ai tempi di Gesù, dalla lebbra non si poteva guarire: per questo si rivolgono a Gesù chiedendogli non tanto di essere guariti (non ci speravano nemmeno), ma solo purificati, per poter avere almeno uno spiraglio di speranza, quello di non sentirsi esclusi dal raggio d’azione dell’amore di Dio. Peccato che il profeta Isaia, lo abbiamo ascoltato nella lettura, avesse detto che nessun uomo era escluso dal raggio d’azione dell’amore di Dio, nemmeno lo straniero e nemmeno l’eunuco, cioè un uomo menomato nel corpo. Ma la voce dei profeti aveva sempre faticato ad essere accolta. Cosa che, invece, capì molto bene san Paolo, come abbiamo ascoltato: che bello se fossimo tutti sani, belli, buoni, bravi, intelligenti, se fossimo tutti nati già perfetti e capaci di camminare secondo la legge, come vorrebbe il Signore, ma non è così, perché dentro di noi ci sono delle forze che ci spingono non a fare il bene che vorremmo, ma il male che non vorremmo, e allora uno vive tutta la vita con angoscia, come una scalata verso Dio, e in tanti restano indietro. Paolo capisce che Gesù non è venuto a portare gli uomini a Dio, ma ha portato Dio agli uomini, accompagnando il nostro fragile cammino, guarendoci lui col suo amore: non c’è più bisogno di essere puri per entrare in comunione con Dio, ma è Dio che ci rende puri col suo amore, perché non guarda i nostri meriti, ma i nostri bisogni. Purtroppo, a rendersi conto da quale lebbra Gesù lo avesse salvato, fu soltanto uno dei 10 lebbrosi, non a caso proprio un samaritano, sottolinea Luca, cioè quello che era messo peggio di tutti gli altri, perché, oltre ad essere lebbroso, aveva l’aggravante, secondo gli ebrei, in quanto samaritano, di essere un eretico, quindi escluso comunque dalla salvezza. Forse per questo è l’unico a tornare indietro a ringraziare Gesù per il dono ricevuto, perché, tra tutti, era quello messo peggio. L’unico a cui Gesù dice: la tua fede ti ha salvato. Cioè, è la fede in un Dio unicamente buono che ti ha cambiato la vita. Ma Gesù, più che mostrarsi contento per lui, si preoccupa degli altri nove che non erano tornati, ma non perché avesse bisogno di essere ringraziato, ma perché ringraziare Dio vuol dire fare eucaristia, cioè riconoscere di essere immersi in un amore più grande capace di trasformarci la vita.