Le letture di oggi ci parlano di una parola che ci riguarda da vicino: Cristo. Cristo non è il cognome di Gesù, né una semplice esclamazione quasi blasfema, ma è il titolo con cui i suoi discepoli lo hanno riconosciuto. E da questo titolo viene anche il nostro nome: cristiani. Nella prima lettura vediamo il profeta Samuele che unge
Davide come re d’Israele. All’epoca, ungere con l’olio significava scegliere qualcuno per una missione speciale, guidata da Dio. Lo stesso olio, chiamato crisma, è usato ancora oggi nel battesimo e nella cresima: è il segno che anche noi siamo stati scelti per qualcosa di grande. Dio aveva promesso che da Davide sarebbe nato un giorno un altro unto, un Messia – in greco: Cristo – che avrebbe portato la sua presenza nel mondo. I discepoli hanno riconosciuto in Gesù il compimento di questa promessa. Ma Gesù non voleva essere confuso con l’idea sbagliata che molti avevano del Messia: un re potente, un guerriero, un politico che avrebbe, con la violenza, restaurato il Regno di Israele, come continuano oggi a pensare, non gli ebrei, ma i fondamentalisti ebrei. Gesù era un Messia diverso, che manifestava il vero volto del Dio delle Scritture: il Cristo dell’amore, del perdono, del servizio. Nel Vangelo, però, Gesù va oltre: mostra che il Cristo non è solo un discendente umano di Davide, ma è superiore a Davide, è anche il Signore, il Figlio di Dio. E noi crediamo proprio questo: che Gesù è l’unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli, che si è fatto uomo. Una prerogativa solo sua: “chi vede me, vede il Padre”. Eppure, scrive san Giovanni nel prologo del suo vangelo, a quanti accolgono il suo Spirito e mettono in pratica la sua parola, anche a loro “ha dato il potere di diventare figli di Dio” come lui. Che non vuol dire, attenzione, diventare “fotocopie di Gesù”. Primo, perché nessuno deve essere la fotocopia di nessuno, secondo perché nessuno di noi può essere fotocopia di Gesù. Infatti, solo Gesù è la manifestazione assoluta di Dio, e poi Gesù era un uomo del suo tempo, che visse nella Palestina di 2000 anni fa, e nessuno è chiamato a diventare ebreo, a farsi circoncidere, a mangiare e a vestirsi come Gesù, senza dimenticare che le donne verrebbero escluse, considerando che Gesù era un maschio. Ecco perché non ci chiamiamo “gesuani”, ma cristiani, perché, in forza dell’unzione col crisma del battesimo e della cresima, siamo chiamati, non ad essere degli altri Gesù, ma degli “altri cristi”, cioè persone che mostrano il volto di Dio nel mondo, ognuno a modo suo. Essere cristiani, allora, non è imitare Gesù in tutto e per tutto, ma vivere oggi come segni dell’amore di Dio, come piccole tessere del grande mosaico che è il Cristo totale, che è fatto da Gesù e da tutti coloro che vivono nel suo Spirito. Come dice san Paolo: noi siamo le membra vive del corpo di Cristo di cui egli è il capo, affinchè, anche attraverso di noi, alla fine Dio sia tutto in tutti. Cioè, il sogno di Dio è che tutto il mondo diventi “cristico”, cioè che rifletta il suo amore. E questo sogno deve iniziare da iniziare da noi, da chi si chiama cristiano e cerca di esserlo davvero: non solo a parole, ma con la vita.