sabato 23 agosto 2025

X DOMENICA DOPO PENTECOSTE ANNO C

Nel rito ambrosiano, ogni domenica la lettura ci fa incontrare un personaggio dell’Antico Testamento. Domenica scorsa si parlava del re Davide, e oggi è la volta del re Salomone, suo figlio, e abbiamo letto il momento in cui, diventando re d’Israele, prega il Signore chiedendogli non ricchezze, ma il dono 

della sapienza nel governare. Una preghiera che certi potenti della Terra dovrebbero copiare subito, vista la loro brillante strategia ipocrita di perseguire la pace continuando a fare guerre. Fu proprio perché Salomone non chiese a Dio lunga vita, ricchezza, la morte dei suoi nemici, ma il discernimento nel giudicare, che Dio, oltre a un cuore saggio e intelligente, gli concesse anche gloria e ricchezze, in una quantità tale da divenire leggendaria. All’inizio, Salomone è un mito: regna con giustizia, costruisce il Tempio, la sua fama diventa internazionale. Poi, col tempo, il suo cuore si divide: soldi, compromessi, culti stranieri. Morale: la sapienza non ti salva dall’orgoglio se smetti di custodire il cuore. Non è la ricchezza il problema, ma cosa ci fai. Fu Easterlin, un economista americano, a coniare, nel 1974 la celebre frase: i soldi, la ricchezza, non danno la felicità, perché servono solo a creare aspettative sempre più alte, per cui non si è mai contenti. Una teoria a cui spesso si risponde con ironia, dicendo: “Meglio piangere in una villa che in monolocale; se i soldi non danno la felicità, allora datemi i vostri e fatemi provare”. Gesù, invece, dice che la vera felicità sta nel donare. E qui scatta lo shock: un ricco non si salva. Punto. Perché, se è ricco, vuol dire che non è generoso, ma tiene tutto per sé. Il cammello non passa per la cruna dell’ago: è fisica, non solo teologia. Se trattieni aria, scoppi; se accumuli ricchezze, vivi come Zio Paperone in ansia per la Banda Bassotti che cerca di rubargliele. Davvero, come dice san Paolo nel brano della prima lettera ai Corinti, ciò che per gli uomini è sapienza, per Dio è stoltezza, e così andiamo avanti a vivere da stolti, agli occhi di Dio. Ancor di più se siamo chiamati a riflettere su queste cose proprio nella terza domenica del mese, quella in cui si chiede ai fedeli un’offerta straordinaria per i bisogni della parrocchia. A dimostrazione del fatto che i soldi servono, è inutile essere ipocriti. Ma proprio perché la fede è dare credito a quello che dice Gesù, e il Signore gioca a nostro favore, non contro, allora bisogna intendere bene le sue parole. Gesù non dice che la felicità è vivere sotto i ponti, e quando ci sono spese e lavori da fare, anche in parrocchia, i soldi occorrono, non sono lo sterco del diavolo, come si suol dire. Il problema è quando diventano il proprio dio, come per Zio Paperone, e si accumulano e si usano solo per il proprio benessere, con quell’avidità che impedisce la generosità e di pensare ad usarle per il bene di tutti. Tanto è vero che Gesù estende questa logica perversa del senso del possesso anche alle persone. Quando Gesù dice di lasciare i beni per il Regno di Dio, non parla solo di beni materiali come le case, ma anche di moglie, genitori, fratelli e figli. Non è un né rivolto ai preti e alle suore, e nemmeno a tutti ad abbandonare i propri familiari, ma a non volerli possedere. Possedere è il contrario di lasciare. Possedere gli altri è l’abuso del potere, dell’autorità, quando si ha la pretesa che gli altri facciano quello che dico io, che io possa disporre del loro destino perché siano a mio servizio, impedendo loro di vivere la propria vita, tenendoli in gabbia. Cose, beni e persone, dice Gesù, vanno lasciati per il Regno di Dio, perché il Regno di Dio arriva quando le relazioni — in casa, al lavoro, ovunque — diventano fraterne, non dittature personali. Persino con Dio potremmo vivere questa logica di possesso, quando vorremmo tenerlo in pugno. Mentre Egli, proprio nell’Eucaristia, ci insegna la sua logica: è Lui a consegnarsi nelle nostre mani, perché, fondendosi con noi, sia il suo amore a possederci e cambiarci. E così sia.