domenica 20 agosto 2017

XI DOMENICA DOPO PENTECOSTE ANNO A

Hanno il sapore di qualcosa di eccezionale le straordinarie esperienze di incontro col Signore di cui parlavano le due letture vissute una dal profeta Elia e l’altra da san Paolo, in epoche, circostanze e luoghi molto diverse. Eccezionali perché chi di noi potrebbe dire come san Paolo di essersi sentito rapito fino al terzo cielo, in paradiso? Forse meno eccezionale quella di Elia che sente la presenza del
Signore nel soffio di un vento leggero: può capitare che qualcuno, in un momento della sua vita, abbia interpretato certe sensazioni come segno della presenza di Dio. Da qui a dire che davvero uno abbia incontrato Dio i passi sono tanti, perché è facile prendere fischi per fiaschi. Una cosa è certa, e ci riguarda tutti: vivere la preghiera per quello che dovrebbe essere, luogo nel quale entrare in contatto con lo Spirito del Signore presente in noi, non dovrebbe essere qualcosa né di eccezionale né di straordinario. Purtroppo il cristiano medio confonde la preghiera col dire le preghiere. È la differenza che passa tra vedere una foto con impresso un gelato (le preghiere) e mangiare un gelato (la preghiera). Preghiera deriva da precario, e precari non sono solo quelli che purtroppo non hanno un lavoro sicuro, ma siamo tutti di fronte alla vita, per questo nasce l’esigenza di pregare, di chiedere. Il punto è a quale Dio ci rivolgiamo e che cosa gli chiediamo. Elia pensava a Dio come l’onnipotente che si sarebbe manifestato con forza e violenza, e invece scopre che “il Signore non era nel vento, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma nel sussurro di una brezza leggera”, che una traduzione più fedele traduce con silenzio. Quando facciamo fatica a sentire la presenza di Dio non è perché Dio non parla, ma perché noi non facciamo silenzio, non mettiamo a tacere tutti i nostri pregiudizi e nostre false immagini di Dio, come quelle che aveva in mente Elia. Anche noi come Elia pensiamo a Dio come all’onnipotente nel senso che può fare quello che vuole, e allora lo preghiamo chiedendogli di mostrare la sua potenza rendendo meno precaria la nostra vita. Poi ci si avvede che le calamità e le sofferenze continuano e si entra in crisi di fede. Certo, perché se Dio è onnipotente, cioè può fare tutto, e non lo fa, allora vuol dire non è buono. E se è buono e non interviene, vuol dire che non è onnipotente, e quindi non serve. Nel silenzio, invece, mettendo a tacere questa nostra idea di Dio, ascoltando la sua Parola ci accorgiamo in che modo Dio è onnipotente: nell’amore. Ma non di un amore che previene il male che ognuno è libero di compiere, anche andandosi a scentrare con una macchina in mezzo alla folla, o che ci mette sotto una campana di vetro al sicuro da ogni pericolo, anche dalle malattie e dalla morte (come noi vorremmo). Dio non ha creato un mondo perfetto, ma libero, dove la natura segue il suo corso e gli uomini sono liberi di compiere il bene e il male. Non è che Dio permette il male, è che Dio non ha creato il mondo come se fosse un teatro delle marionette. Quindi Dio non è l’onnipotente burattinaio, anche perché se lo fosse, visto come vanno le cose, sarebbe un pessimo burattinaio. Dio, nelle vicende del mondo, ci mostra il suo amore continuando a donare a ciascuno il suo Spirito, lo Spirito del Figlio che ci fa sentire Dio come Padre e amare i fratelli come Gesù ha amato noi. Noi, per paura di soffrire e di morire, ci chiudiamo in noi stessi e ci difendiamo, e il male che riceviamo fa uscire il male che c’è dentro di me provocando una reazione a catena. La logica di Dio invece è opposta, perché è Dio per primo che si fa agnello per essere sbranato dai lupi. Cioè, anziché uccidere chi gli toglie la vita, mentre gliela tolgono lui la dona, e così arresta il male. Per Dio il male non è soffrire e morire - e neanche essere uccisi, perché chi dona la vita risorge -, ma far soffrire e far morire. Dunque il male c’è non perché Dio lo permette, ma perché Dio ha creato un mondo libero, e quando accade il male serve perché noi impariamo come lui non a fare altrettanto male, ma a fare il bene, come ha fatto lui. In mezzo al male, dice Gesù, lo Spirito del Padre vi suggerirà cosa dire, come comportarvi, cioè come figli del Padre, amando. La preghiera è dunque entrare in contatto con lo Spirito di Dio presente in noi perché impariamo a vivere la vita come Gesù, e quindi come agnelli in mezzo ai lupi, non come carri armati che uccidono i lupi. Ma ancora di più. La preghiera è ringraziare il Signore perché, come san Paolo, scopro che l’onnipotente amore di Dio si manifesta anzitutto nei miei riguardi perché fa diventare i miei limiti non un motivo per annientarmi, ma per riempirli della sua grazia. Nel brano di oggi racconta questa esperienza che fece di Dio, talmente intensa che non riesce nemmeno a descriverla, se non dicendo che si sentì rapito in paradiso. Forse però stava scambiando Dio con le proprie virtù: come sono bravo, Signore, mi sto proprio avvicinando a te con tutte le belle cose che sto facendo. Ma ancora non sono perfetto, porca miseria, c’è come una spina nella mia carne che punge. Cosa fosse questa spina ancora nessun commentatore l’ha capita, perché Paolo non lo dice. Ma qualunque cosa fosse, Paolo sta parlando dei suoi limiti, dei suoi peccati, chiamiamoli come vogliamo, che lui non vorrebbe avere, che vorrebbe allontanare. E in quel momento ha un’illuminazione ancora più grande: capisce che la sua è solo superbia, che non è lui coi suoi sforzi ad avvinarsi a Dio, ma che è Dio a raggiungerlo col suo amore in mezzo ai suoi limiti. E allora capisce che le sue debolezze, oltre agli oltraggi, alle difficoltà, alle persecuzioni e alle angosce che la vita gli presenta sono il luogo in cui si manifesta la forza dell’amore di Dio che riesce a fargli scorgere spiragli di risurrezione in qualunque circostanza di morte.