domenica 3 giugno 2018

CORPUS DOMINI

Il 12 giugno 1993, cioè 25 anni fa, fui ordinato prete per le mani del compianto cardinale Carlo Maria Martini (eravamo in 38). Il giorno dopo, 13 giugno, era il Corpus Domini, e al mattino celebrai la mia prima messa nella mia parrocchia di porta Venezia a Milano, e la sera ci fu una processione molto semplice (perché a Milano, anche 25 anni fa, le processioni non sappiamo nemmeno cosa siano). Era
una calda e afosa sera e questa processione avvenne nel monastero delle suore Benedettine al seguito di una cinquantina di persone (un numero enorme per una parrocchia milanese). Nulla a che vedere con le processioni solenni come le nostre della Brianza e come quelle di questa sera, e io ringrazio i miei confratelli per avermi chiesto di essere io a presiederla. Ma la cosa divertente e paradossale è il fatto che io non ho mai nascosto una certa avversione per le processioni, e non perché si suda parecchio portando ostensori così belli, ma anche pesanti. Attenzione. Le processioni hanno un valore molto alto a livello simbolico, sociale, culturale e liturgico. Qual è il rischio, che poi è il motivo per il quale non mi piacciono tanto. È che questi significati simbolici, non essendo più compresi o addirittura conosciuti, dicano poco o nulla, e così una processione pur bellissima e curatissima, di fatto possa servire a poco e diventi solo un rito esteriore, per cui con alcune domande ed esempi provocatori, vorrei provare a descriverli, così ognuno può interrogarsi su quello che abbiamo vissuto insieme stasera. Abbiamo ascoltato tante parole, ma qualcuno di voi adesso ne ricorda almeno una? Le distrazioni nella preghiera sono sempre tante, anche quando uno si trova da solo nel silenzio di una chiesa. Questa processione è stata per voi un aiuto a distrarvi di meno o di più? Anche da qui nasce la domanda: perché facciamo le processioni? È chiaro che non valgono risposte del tipo: perché le abbiamo sempre fatte, perché fanno parte della nostra tradizione e cultura. Sono risposte vuote. Per far vedere a tutti che non ci vergogniamo di dirci cristiani, discepoli di Gesù? Certo, se fossimo passati su strade affollate da molta gente che ci guarda, avrebbe senso. Ripensandoci, la processione fatta da me 25 anni fa in un monastero di suore aveva ben poco senso. Non so se qualcuno di voi ha mai fatto la via crucis a Gerusalemme. Quella invece è molto significativa, perché si percorre la via del Calvario a gruppetti tra lo stupore o l’indifferenza dei non cristiani, e quindi è un segno. Ma da noi, dove in giro anche stasera non c’era nessuno se non qualche pia donna affacciata al balcone, gli unici che se ne sono accorti sono i vigili che hanno fatto gli straordinari. In ogni caso quello che conta è che io cerchi di essere testimone di Cristo e che non mi vergogni di lui quando sono in casa, al lavoro, a scuola, al bar, con gli amici. In questo bellissimo ostensorio abbiamo portato Gesù che tutto il paese benedice, che col suo amore tutti raggiunge, penso in particolare a tutti i nostri cari malati e a tante persone che vivono situazioni di povertà e di disagio. Ma il rischio è di delegare a Gesù quello che dovremmo fare noi. Perché ciascuno di noi, abitato dal suo Spirito e nutrendoci dell’eucaristia, è diventato tabernacolo, dimora, presenza di Gesù, e automaticamente ostensorio, nel senso che è con la nostra vita di tutti i giorni che dobbiamo diventare segni per gli altri dell’amore di Dio attraverso le nostre opere. Perché il Signore non ci chiederà quanti riti abbiamo fatto, ma con quanto amore abbiamo vissuto, per cui se anche questa processione sarà servita ad aiutarci in questo, allora avrà avuto senso. Infine, una processione richiama il fatto che la vita è un pellegrinaggio verso una meta che non è il cimitero, ma la risurrezione (ci pensiamo a questa cosa?); che siamo un popolo, tutti diversi, ma tutti uniti da un’unica fede (chi se lo dimentica andrà avanti a lamentarsi del fatto che la processione non viene fatta nella propria parrocchia). Bene, detto questo, vorrei dire un’ultima cosa che mi tocca da vicino. È chiaro che sono felice e riconoscente per tutte le manifestazioni di affetto che ho ricevuto e riceverò in occasione del mio 25esimo di ordinazione presbiterale, e non posso che ringraziare tutti di cuore, tutti e ciascuno. Però anche qui, vedete, vorrei sottolineare un rischio, una tentazione nella quale non il Signore certamente, ma il diavolo può indurci, anche stasera, e questa è una cosa che sono andato sempre più imparando in questi anni di ministero e su cui ho riflettuto. Quando mi esibisco in un concerto, se sono stato bravo e vengo applaudito, sono contento, e penso che l’applauso e il riconoscimento siano giusti, perché è vero che al centro c’era la musica, però anche chi l’ha eseguita. Invece, mi sento molto in imbarazzo a ricevere applausi e riconoscimenti particolari come prete, per il fatto di essere prete. Non perché non facciano piacere, ma perché (ecco la tentazione, per chi li riceve e per chi li fa) si rischia di guardare il dito e non la luna. Un esempio su tutti: se al centro di questa processione ci fossi stato io e non Gesù. In realtà non sono io ad avere portato Gesù, ma è lui che porta me. E’ lui che va applaudito, mi spiego? Sempre! Lo dicevo anche nell’omelia a Caravaggio, e lo ripeto adesso. Il prete per molti cristiani è considerato come un angelo, un super uomo, il cristiano perfetto (è da qui che nasce il titolo per me odioso di reverendo, cioè che deve essere riverito). Poi la realtà dei fatti mostra tutto il contrario. Infatti, ripercorrendo la mia vita, non solo i miei 50 anni di vita, ma i 25 da prete, sono andato riscoprendo sempre di più la verità di quanto diceva sant’Agostino: io sono cristiano con voi e prete per voi. Cosa voleva dire? Che prima di essere prete, cioè chiamato a svolgere un determinato servizio nella Chiesa, sono un discepolo di Gesù, uno che come voi cerca con tutti i suoi limiti, le sue resistenze e i suoi peccati, di seguire Gesù, di imparare a conoscerlo, amarlo e seguirlo, scoprendo sempre di più che il Signore sceglie sempre i peggiori, che io non sono meglio di nessuno, anzi, e proprio per questo posso fare il prete annunciando la misericordia di Dio, perché io per primo, come spesso ama ripetere papa Francesco, sono “misericordiato” da Dio, per cui non sono meglio di nessuno. Per questo mi sento in imbarazzo ad essere applaudito come prete. Il prete è un discepolo di Gesù, battezzato e cresimato come voi, che è stato chiamato da Dio ad essere a vostro servizio non per essere reverendo, cioè riverito, ma per rendere presente il Signore annunciandovi la sua Parola e amministrando i sacramenti, Parola che io per primo devo comprendere e tradurre nella mia vita, sacramenti di cui io per primo ho bisogno per essere trasformato a immagine di Cristo, esattamente come ciascuno di voi. Perché vedendo me ognuno di voi sia incoraggiato a dire: se uno come lui il Signore lo ha chiamato a diventare prete, vuol dire davvero che Dio sceglie proprio i peggiori per mostrare il suo amore, e quindi c’è speranza per tutti!!!