domenica 19 agosto 2018

XIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE

 Quando si leggono pagine di vangelo come questa bisogna stare attenti a non prendere lucciole per lanterne. Gli evangelisti sono fini teologi e ogni parola non è mai messa a caso. Uno potrebbe dire: oggi abbiamo letto il miracolo della guarigione del servo del centurione che era malato, e di Gesù che loda la fede di quest’uomo. Dopodichè ti succede una disgrazia, hai un amico o un parente che sta
male, preghi il Signore, il miracolo non avviene e ti fai mille domande: perché? Come mai? Ma allora Dio non è buono? Perché a lui si e a me no? forse non ho avuto la fede del centurione. E molti perdono anche la fede e si arrabbiano col Signore. E tutto questo perché? Perché appunto ogni racconto evangelico va ben studiato e capito. Ora non possiamo entrare nei particolari, però vi faccio notare che si parla di un uomo che era ammalato e stava per morire, e quest’uomo è un servo, che nel testo greco vuol dire “schiavo”. Chi è questo schiavo? Sostanzialmente tutti noi, che da quando nasciamo abbiamo una malattia incurabile che è la vita, l’unica malattia mortale, e ne siamo coscienti, e per tutta la vita siamo schiavi della paura della morte, e tutto quello che facciamo non serve ad altro che a rimandare questo momento, quindi siamo tutti servi. E poi c’è la fede del suo padrone, il centurione. È interessante: vuol dire che la fede nasce, comincia, dalla coscienza del nostro limite, del fatto che siamo precari, da cui deriva la parola preghiera. Se uno ha il delirio di onnipotenza non può avere la fede perché il Padreterno è lui, ha fatto il mondo lui, fa e disfa tutto, quindi non ha bisogno della fede, se non in se stesso. Ebbene, questo centurione dice a chiare lettere di avere fede proprio nella parola di Gesù, si fida del fatto che quello che Gesù dirà accadrà, così come lui ha fede nel fatto che i suoi sottoposti, quando lui dà a loro degli ordini, essi li eseguono. E la parola di Gesù che vuole questo centurione è quellla che guarisca il suo servo che gli è caro come un figlio, che sta male e sta per morire. E il racconto termina col servo che è guarito. Da cosa? Dalla paura della morte, di questo era malato. Perché il vangelo non va letto dall’inizio, ma dalla fine, dalla risurrezione di Gesù, che prima di risorgere soffre e muore, quindi dalla morte del corpo, quale che ne sia il motivo, non si può guarire, ma risorgendo ci mostra che non dobbiamo avere paura di finire nel sepolcro, perché la morte è solo del corpo, non del nostro essere, della nostra persona. Ecco cosa vuol dire aver fede nella sua Parola: dare credito alla parola di Gesù, convertirsi ad essa, imparare a fidarsi di lui e non delle nostre paure, e non pregarlo perché ci faccia i miracoli che gli chiediamo. Ma c’è di più, questo racconto è ricchissimo di altri significati, infatti è costruito ad arte con molti particolari. Il protagonista del racconto è un centurione romano, quindi, per gli ebrei, un pagano, uno che non apparteneva al loro popolo, che non aveva la loro religione, oltretutto un usurpatore. Eppure viene descritto bene, era amato, tanto è vero che sente parlare di Gesù proprio dai Giudei, e sono loro che lo accompagnano da Gesù, e lo raccomandano a lui: “quest’uomo è veramente degno, ama la nostra nazione, ci ha costruito anche la sinagoga”. Oggi noi diremmo: lui non può venire in Chiesa, ma ci ha costruito la chiesa, quindi è un uomo di estrema bontà verso tutti. E Gesù va con loro verso di lui, e alla fine dice: "Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande". Sempre nel vangelo di Luca, nel momento della crocifissione, sarà un altro centurione romano a riconoscere che Gesù era un uomo giusto, e sempre Luca, nel libro degli Atti, racconta quando proprio nella casa di un altro centurione, Cornelio, Pietro si rende conto che "Dio non fa preferenze di persona, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto". Per questo la prima lettura presentava Ciro, il re dei Persiani, quindi un non ebreo, come colui nel quale il Signore suscitò lo spirito perché andasse in aiuto a Israele: anche chi non conosce il Signore, se compie il bene, vuol dire che è guidato da Dio. Vuol dire che Dio opera in tutti col suo Spirito, e chi compie il bene e opera per la giustizia è salvo, quale che sia la sua religione, perché Dio è il Signore di tutti: se non fosse così, Dio non sarebbe Dio, e se Dio è amore e Padre “nostro”, necessariamente ama tutti, esclude nessuno, quindi ogni esclusione, ogni barriera delle religioni è la cosa più assurda per Dio. E questo è proprio Dio stesso nella persona di Gesù ad averlo insegnato. E non dimentichiamo un particolare non da poco. Che i primi stranieri e pagani siamo stati noi. Perché i primi credenti in Gesù furono gli ebrei, e Gesù era ebreo, e noi non lo siamo, e quanta fatica fece Gesù per far capire che Dio non è solo degli ebrei, che Dio non esclude nessuno, altrimenti noi non saremmo qui. Per cui se noi cristiani che non siamo ebrei dovessimo ragionare come ragionavano gli ebrei (e purtroppo nella storia è stato fatto, vedi le guerre di religione, e magari qualcuno ancora la pensa così), allora siamo punto e a capo perché ci tiriamo la zappa sui piedi. Per questo non sono io, e nemmeno il papa, ma Gesù a dire ai suoi discepoli che devono guardare ogni uomo per quello è, figlio amato dal Padre, mai giudicando le persone da dietro le barriere erette dalla nazionalità, dalla cultura, dalla ideologia, dalla religione o da una morale diversa dalla nostra. Al contrario, fare come Gesù, che quando si trovava di fronte a qualcuno, ebreo o non, peccatore, malato, escluso, l’unica cosa che gli importava era quella di soccorrere quell’uomo dall’angoscia che lo abitava: lo considerava suo fratello, appunto perché chiamava Dio Padre nostro. E così torniamo al punto di partenza: la vera fede non quella che chiede miracoli o che fa vincere la mia squadra e perdere la tua, ma quella che si fida della Parola di Gesù e agisce di conseguenza.