domenica 23 settembre 2018

IV DOMENICA DOPO MARTIRIO

Penso che molti di noi possano ritrovarsi nella pagina del primo libro dei Re che racconta il momento in cui Elia, uno tra più grandi profeti della Bibbia, si inoltra nel deserto. Sta fuggendo dai soldati della regina Gezabele che lo vogliono uccidere (del resto Elia aveva sterminato tutti i sacerdoti della regina, e su questo ci sarebbe molto da dire, ma non è il tema delle letture di questa domenica).
Ebbene, Elia è sfinito, si sdraia sotto una ginestra, stanco, sfiduciato, desidera morire. Ecco: non è forse vero che capita anche a noi in certi momenti della vita, di essere sopraffatti dalla fatica, dalla tristezza, come se si fermasse il battito della vita? “Ora basta, Signore. Prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri”, prega Elia, e forse aveva ragione, visto quello che aveva fatto. E però ecco che, prosegue il racconto, un angelo del Signore lo toccò e gli disse: “Alzati, mangia”. Pensate che bello questo tocco dell’angelo e questo invito a mangiare: mangiò della focaccia cotta su pietre roventi e bevve dell’acqua dell’orcio. E si riaddormentò. Era talmente sfinito che nemmeno quella focaccia e quel sorso d’acqua gli erano bastati: troppa la debolezza fisica e la disperazione che gli stavano prosciugando l’anima. Ma ecco che di nuovo “l’angelo lo toccò e gli disse: Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. Ebbene, il tocco dell’angelo, la focaccia e l’acqua riuscirono a rimettere Elia in cammino e lo sostennero per quaranta giorni e quaranta notti nel deserto. E allora mi sono chiesto, e vorrei che ciascuno di voi si chiedesse: che cosa può risvegliarci da una depressone, da una paralisi, da quella voglia di lasciarsi andare o di farla finita in certi momenti della vita? Che cosa? Il tocco dell’angelo, la focaccia, l’acqua. Pane e acqua, cose semplici della vita, ma essenziali, accompagnati però da un tocco dell’angelo, cioè avvolti da un gesto che dice la relazione. Noi pensiamo magari che per rimettere nel cuore anche un solo grumo di fiducia nella vita ci sia bisogno di chissà chi o di chissà che cosa, quando invece è sufficiente il tocco di qualcuno che ti vuole bene e ti dona quel pane e quell’acqua di cui hai bisogno in quel momento. E questo è sempre il tocco di Dio, perché Dio si manifesta sempre quando qualcuno ti tocca con amore. E a nostra volta siamo chiamati a diventare gli uni per gli altri questo tocco di Dio. Quando celebriamo l’Eucaristia dovremmo avvertire la stessa cosa, e il vangelo ci aiuta a capire il perché. Gesù dice di sé di essere il pane disceso dal cielo che ci fa vivere, lui, non quello che mangiarono nel deserto gli israeliti, che infatti poi morirono: “chi mangia di me non muore”. Gesù si è detto pane, ma si è anche fatto pane. Ce lo ha ricordato oggi Paolo nella lettera ai Corinzi. Gesù mise tutto se stesso in quel pane e in quel vino, per farsi non solo toccare, ma addirittura mangiare, per far vedere che Dio vuole fondersi con noi e farci diventare come lui. Fate questo in memoria di me non vuol dire solo “ripetete quello che ho fatto io nell’ultima cena celebrando la messa”, ma vuol dire: diventate anche voi gli uni per gli altri il tocco dell’angelo, il tocco di Dio, diventate anche voi pane che si spezza, fatevi mangiare dagli altri, non mettetevi a mangiare gli altri, diventate vino per gli altri, vino di festa, fate in modo che gli altri, incontrando voi, siano più felici. Che peccato, allora, quando viviamo la cena del Signore come una semplice cerimonia, che più breve è meglio è, fatta di gesti che non riescono a toccare né il corpo né l’anima, invece di diventare il momento in cui poter fare la stessa esperienza di Elia, avvertire il tocco di Dio che ci riempie del suo amore perché poi possiamo donarlo agli altri diventando noi il tocco di Dio. E se andate a leggere la breve lettera pastorale del nostro Arcivescovo, nel capitolo terzo, c’è scritto: “Nella storia di Elia i cristiani hanno riconosciuto una prefigurazione dell’Eucaristia perché noi popolo di pellegrini abbiamo bisogno di trovare nella celebrazione eucaristica quella fonte di gioia e di comunione, di forza e di speranza che possa sostenere la fatica del cammino. E allora come si spiega che la celebrazione della Messa domenicale ha perso la sua attrattiva?”. Aggiungendo un’altra domanda che ci interroga e ci provoca non poco in queste settimane dove nelle nostre parrocchie si fanno le feste degli oratori. Scrive l’Arcivescovo: “Dove conduce il cammino di iniziazione cristiana che impegna tante buone risorse e coinvolge tanti ragazzi e tante famiglie, se alla sua conclusione non crea la persuasione che senza la domenica non possiamo vivere?”. Domanda fondamentale, perché quando c’è il catechismo e fintantoché c’è il catechismo forse c’è speranza di vedere qualche ragazzo in chiesa e forse anche i genitori; quando ci sono occasioni particolari come le feste degli oratori qualche ragazzo in più magari ci viene (solo magari); poi per il resto dell’anno e della vita basta. Sono domande che dobbiamo farci tutti. Io penso che una possibile risposta, tra le tante, ce la dia proprio Gesù nel vangelo di oggi, quando dice: “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato, non perché qualcuno abbia mai visto il Padre, ma solo colui che viene dal Padre lo ha visto”, e naturalmente si riferiva a se stesso. Cosa significa questa espressione? Che la colpa è di Dio, non è nostra. I giudei mormoravano contro Gesù, non accettavano che un uomo come tutti gli altri, di cui conoscevano i parenti, che era vissuto con loro, potesse essere Dio. Dio per loro doveva essere tipo Superman, che spacca tutto e risolve tutti i problemi. Nessuno ha mai visto Dio, eppure tutti pensano di sapere chi è Dio, com’è fatto e cosa deve fare. Gesù, invece, fa vedere che Dio è Padre, che ci da la vita, cioè l’amore di cui abbiamo bisogno per vivere e per affrontare tutte le cose, che Dio è uno che vuole cambiare me, il mio modo di sentire, di pensare, di vivere, vuol farmi sentire figlio amato, darmi una vita capace di superare la morte (questa è la vita eterna), e questa vita indistruttibile si ottiene accogliendo il tocco di Dio e toccando gli altri allo stesso modo, diventando fratelli degli altri: amatevi come io vi ho amato. Dio è così. Ecco perché la colpa è di Dio: perché Dio è questo e noi, o siamo attirati da un Dio così, che è Padre, che ci chiede di accogliere il suo amore per diventare come lui, amando i fratelli, o altrimenti, se siamo attirati da un Dio forte, potente, che deve fare quello che vogliamo noi e soprattutto quello che dovremmo fare noi, perché in fondo noi preferiamo restare dei servi che devono obbedire sperando così di ricevere una ricompensa, anziché camminare da persone libere per amare, cosa che è più pericolosa e faticosa, ogni occasione diventa buona non per essere attratti a Lui, ma per scappare via.