domenica 30 settembre 2018

V DOMENICA DOPO IL MARTIRIO

Il Vangelo è una bomba, soprattutto quello di oggi: speriamo che qualche scheggia possa colpirci. Non mi metto ad analizzarlo e a spiegarlo come meriterebbe, altrimenti non andiamo più a casa. Per fare questo ci vuole tempo, e lo farò nell’incontro di lunedì sera. C’è da capire chi sono i dottori della Legge, chi è il sacerdote, chi è il levita, per quale motivo Gesù parla di un samaritano, chi sono i
samaritani, oltretutto questa parabola così famosa (ma per l’appunto forse ancora troppo poco compresa) è chiamata “del buon samaritano”, che però è un titolo sbagliato, perché farebbe pensare che allora gli altri samaritani fossero cattivi, e invece non è così. Oltretutto, per capirla bene, bisognerebbe spiegare, come sempre, cosa era successo prima, e poi, come vedete, Gesù la racconta per rispondere a una domanda che gli viene fatta, e io vorrei adesso concentrarmi con voi non tanto sulla parabola, quanto sulla domanda che viene posta a Gesù. In realtà sono due le domande che questo dottore della Legge pone a Gesù. La prima è cosa deve fare per avere la vita eterna e la seconda è “chi è il mio prossimo”. Partiamo dalla prima domanda: cosa fare per ereditare la vita eterna. Per gli ebrei la vita eterna voleva dire non il paradiso, perché gli ebrei credevano che dopo la morte si finisse nel regno dei morti e che poi, un giorno, i giusti sarebbero risuscitati. Allora Gesù gli risponde con una contro domanda: cosa c’è scritto nella Legge, cosa vi leggi? La Legge si riferisce ai libri della Bibbia che raccolgono le parole che Dio diede a Mosè. E il dottore della Legge gli risponde citando il passo del libro del Deuteronomio che prima abbiamo ascoltato anche noi nella lettura, dove c’è scritto il “Credo” di Israele: “amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, la tua anima, la tua forza e la tua mente”. E poi cita un secondo comando che è scritto nel libro del Levitico: “amerai il prossimo tuo come te stesso”. Gesù accetta la risposta (“hai risposto bene”), ma aggiunge “fa questo e vivrai”, per dire: non basta fare una esatta professione di fede, ma occorre praticarla. A noi oggi direbbe: non basta che dici di credere in Dio, non basta che reciti il credo, ma che fai quello che il Signore ha detto. E se lo fai, non è che avrai un giorno la vita eterna, ma “vivrai”, avrai la vita, cioè la tua vita sarà piena già nel presente, altrimenti davvero, come diceva qualcuno, la religione è l’oppio dei popoli: “stai male adesso, poi però un giorno avrai la ricompensa”. Gesù non ha mai detto una cosa del genere. Cioè, amare Dio in modo totale e assoluto e il tuo prossimo come te stesso non serve per essere ricompensato da Dio dopo la morte, ma per essere felice già adesso, per realizzare la tua vita adesso, perché vivere senza amare non è vita, ma è morte, e se vivi così adesso, allora questa tua vita diventa eterna, indistruttibile. Però stiamo bene attenti. Molti cristiani pensano che amare Dio in modo assoluto e il prossimo come se stessi sia il comandamento dell’amore dato da Gesù, invece no. Questo è il vertice della spiritualità di Israele. Che non è poco, ma è molto relativo, limitante e difficile da praticare, come si capirà nella parabola. Relativo perché siccome se io non amo me stesso poi non sono capace di amare il mio prossimo, succede appunto che se non amo me, e tante volte succede, poi non amo il prossimo. Limitante perché vuol dire che il prossimo comunque va amato meno di Dio, e quindi può succedere (adesso lo vediamo) che se devo scegliere tra l’amore di Dio e l’amore verso il prossimo, dovrei scegliere l’amore verso Dio. E poi è difficile, perché è un continuo sforzo a cercare di amare tutti, Dio e il prossimo, senza però averne la forza. Infatti la domanda successiva che il dottore della Legge pone a Gesù “e chi è il mio prossimo?” vuole dire due cose, e la prima cosa che vuol dire è questa: e chi è prossimo a me? Cioè: e a me chi mi ama? Perché anch’io per vivere non posso solo amare, ma devo a mia volta essere amato. La seconda cosa che questa domanda significa è capire di fatto chi sia questo prossimo. Prossimo vuol dire “vicino a me”. Vicino a me ogni momento, ogni giorno, anche adesso, ovunque mi trovi, ci possono essere le persone più diverse, familiari, amici, parenti, colleghi di lavoro, sconosciuti, gente simpatica o antipatica, italiani, stranieri. Era così anche ai tempi di Gesù. C’era molto dibattito politico anche allora. Per alcuni il prossimo era anche lo straniero che abitava in Israele, per altri il prossimo era solo quello che apparteneva alla propria tribù o al solo clan familiare. Ebbene, la risposta di Gesù a questa domanda è già nelle parole con le quali inizia la parabola: è un uomo (generico), cioè qualunque uomo bisognoso tu possa incontrare lungo la strada, e di lui devi prenderti cura. In questo modo Gesù ribalta il concetto di prossimo, come ebbe a dire benissimo il cardinal Martini tanti anni fa a commento di questa parabola: non devi chiederti chi è il tuo prossimo, ma sei tu che devi “farti prossimo” a qualunque uomo. Dio lo si ama così. Ecco qual è il comandamento dell’amore di Gesù, l’unico comandamento che ci ha dato: non amare Dio in modo assoluto e il prossimo in modo più limitato, come se stessi, ma: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”. La misura dell’amore non è l’amore per me stesso, ma l’amore che Cristo ha per me. Sembrerebbe ancora più difficile, e invece no, perché quello che io devo fare è solo accogliere il suo amore, sentirmi amato da Dio, perché Dio per primo si è fatto prossimo a me (ecco a me chi mi ama) e poi riversare il suo amore sugli altri. Per Gesù, amare Dio e amare il prossimo è la stessa cosa. Non ci sono peccati contro Dio e peccati contro il prossimo, in quanto Dio si è fatto uomo e quindi Dio lo si ama prendendosi cura di chi mi è accanto. Come dicevo all’inizio, non entro nella spiegazione della parabola (lo farò nell’incontro di lunedì sera, perché se no faccio un’altra predica), ma il motivo per il quale il sacerdote e poi il levita (e qui sarebbe importante capire chi sono), vedendo quell’uomo mezzo morto lungo la strada non si fermano per aiutarlo, non è perché erano cattivi e insensibili, a differenza del samaritano, ma perché secondo la Legge di Mosé chi veniva a contatto col sangue o addirittura con un morto, diventava impuro, indegno di accostarsi a Dio, e allora, siccome Dio va amato in modo assoluto, dovendo scegliere tra l’amore verso Dio e quello verso il prossimo, scelgono l’amore verso Dio. Con Gesù le cose cambiano, cambia il rapporto con Dio e il rapporto con gli altri. Il credente non è chi obbedisce a Dio osservando le sue leggi, e ogni legge che va contro il bene, i bisogni e le necessità degli altri, non può essere volere o legge di Dio. Il credente è invece colui che accoglie l’amore del Padre e lo riversa sugli altri, cioè colui che pratica un amore simile al suo, come Gesù, il figlio, che sentendosi amato dal Padre, ama ciascuno di noi come suoi fratelli.