domenica 7 ottobre 2018

VI DOMENICA DOPO IL MARTIRIO

Anche questa domenica la liturgia ci presenta una parabola in cui Gesù parla di una vigna. Il Vangelo è pieno di vigne, forse perché fra tutti i campi, la vigna è il preferito di ogni contadino, quello che coltiva con più cura e intelligenza, in cui si reca più volentieri. E la vigna è la vita, la terra, il mondo in cui siamo chiamati a vivere. Questa parabola ci assicura che il mondo è vigna e passione di Dio;
che io, che ciascuno di noi è il campo preferito di Dio. Inizia con questo padrone che esce di casa all’alba per andare alla piazza del paese e ingaggiare operai. La paga era un denaro il giorno, e il padrone la assicura ai lavoratori. La grande disponibilità di mano d’opera faceva sì che con una sola chiamata di operai si potesse soddisfare il fabbisogno dell’intera giornata. Invece, a sorpresa, verso le nove del mattino, il padrone esce di nuovo, in cerca di altri operai. Non lo fa per necessità, bastavano i primi chiamati, ma ne assolda altri perché erano ancora disoccupati, e senza lavoro, e in quella società, non avere lavoro voleva dire come oggi non mangiare. Il padrone pensa dunque al loro bisogno promettendogli, dice, “quello che è giusto”. A metà giornata, torna di nuovo in piazza e ne assolda altri, e lo stesso fa alle tre del pomeriggio. Ma il padrone è talmente preoccupato del fatto che altre persone siano senza lavoro e quindi che la sera non mangeranno, che verso le cinque, quasi al tramonto, si reca in cerca di altre persone ancora disoccupate. A loro però non dice che riceveranno un compenso, infatti non lavoreranno neanche un’ora, per cui l’unica paga che essi si aspettavano sarebbe stata quella di un tozzo di pane da mangiare. A quel punto la piazza del paese è deserta: tutti lavorano nella vigna. Chiaramente quelli che avevano iniziato a lavorare all’alba saranno stati ben felici di vedere arrivare man mano altri operai ad aiutarli, e avranno accolto con entusiasmo il fatto che il padrone, alla fine del lavoro, si mette a pagare gli ultimi, che avevano lavorato pochissimo, vedendo che a loro aveva dato un denaro, che praticamente non è una paga, ma un regalo. Si saranno detti: a noi pagherà almeno tre volte tanto. Ma vedendo che sono retribuiti anche loro con un denaro, come era stato pattuito, sfogano la loro delusione e il loro malumore, perché erano certi “che avrebbero ricevuto di più” e ritengono il padrone ingiusto. In realtà, il signore della vigna non è stato ingiusto (quel che aveva pattuito è quel che è stato dato), ma generoso. Non toglie nulla a quelli che hanno lavorato dall’alba, ma vuole dare lo stesso salario anche agli ultimi. E per difendere il suo comportamento si definisce buono. Ecco, nell’atteggiamento del proprietario della vigna, Gesù raffigura quello del Padre, per indicare che Dio non è un padrone severo, ma un signore generoso che non retribuisce gli uomini secondo i loro meriti, ma secondo i loro bisogni, perché il suo amore non è concesso come un premio, ma come un regalo. E se a qualcuno questo comportamento può sembrare ingiusto, e non gli sta bene, è perché ha un occhio maligno, quello dell’avaro, dell’invidioso. Chi è avaro, maligno, invidioso, e fa tutto per la sua convenienza, per il suo interesse, non potrà mai capire l’agire di Dio. Non è un Dio ragioniere, ma un Dio buono, che trasgredisce le regole del mercato. Diceva il cardinal Martini: «Mentre l'uomo pensa secondo misura, Dio agisce secondo eccedenza». Io penso che solo di fronte a un Dio così noi possiamo convertirci. Gli operai che hanno lavorato fin dal mattino protestano, sono tristi, dicono «non è giusto». E scrive padre Ermes Ronchi: “È vero: non è giusto. Ma la bontà va oltre la giustizia. La giustizia non basta per essere uomini. Tanto meno basta per essere Dio. Neanche l'amore è giusto, è altra cosa, è di più. Perché gli operai della prima ora non sono contenti? Perché la felicità viene da uno sguardo buono e amabile sulla vita e sulle persone. Se l'operaio dell'ultima ora lo sento come mio fratello o mio amico, allora sono felice con lui, con i suoi bambini, per la paga eccedente. Se invece mi ritengo operaio della prima ora e misuro le fatiche, se mi ritengo un cristiano esemplare, che ha dato a Dio tanti sacrifici e tutta la fedeltà, che ora attende ricompensa adeguata, allora posso essere urtato dal fatto che Dio tratti allo stesso modo chi ha fatto meno di me. Se invece capisco che Dio agisce secondo i bisogni, allora non calcolo più i miei meriti, ma conto sulla sua bontà”. Ecco, se comprendiamo questa cosa, c’è speranza che anche noi impariamo ad avere sulla realtà e verso gli altri lo stesso sguardo di Dio, un Dio che siccome tiene proprio a tutti, desidera che tutti si sentano preziosi, e nessuno inutile. E allora sentiamo risuonare le parole del profeta Isaia che nella lettura di oggi diceva: “Volgetevi a me e sarete salvi, voi tutti confini della terra”. Che è un invito ad alzare gli occhi a Dio, a non rivolgerli agli idoli del denaro, del successo, dell’esibizione, della conquista del potere, che ci rubano l’anima, facendoci diventare bassi, piccoli, meschini. Dio invece ci restituisce l’anima perché ci restituisce il suo sguardo. Anche oggi ce lo ha restituito. Volgiamo gli occhi al Dio che fa una cosa giusta. E la cosa giusta è che tutti abbiano una vita. Una vita che sia vita.