domenica 9 dicembre 2018

IV DOMENICA DI AVVENTO

Sono molto difficili le letture di questa domenica. Impossibile spiegarle nei dettagli, cerchiamo allora di cogliere qualche spunto di riflessione, cominciando dalla pagina di Isaia, dal salmo e dalla lettera agli Ebrei. Isaia si rivolge agli ebrei che erano in esilio a Babilonia, lontani da Gerusalemme. Israele era convinto che tutte le sciagure che gli erano capitate, non ultima quella dell’esilio, fossero un
castigo mandato da Dio per i propri peccati, per cui Isaia dice: ci sarà un “germoglio del Signore” che crescerà in gloria e onore, grazie al quale la città di Dio tornerà al suo antico splendore. Chi è questo germoglio? Per Isaia era quella piccola parte di Israele rimasta fedele all’alleanza, come testimoniano le parole del salmo con cui abbiamo pregato: “Chi salirà il monte del Signore, cioè chi potrà tornare a Gerusalemme? Chi starà nel suo luogo santo, cioè nel tempio di Dio? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli, chi non giura con inganno: egli otterrà benedizione dal Signore”. Se ci pensiamo bene, è proprio vera questa cosa. Nonostante tutte le brutture che noi umani siamo capaci di fare perché viviamo seguendo non la legge di Dio, che è quella dell’amore, ma quella dell’egoismo, il mondo continua lo stesso ad andare avanti, e se va avanti è perché c’è sempre un “germoglio”, c’è qualcuno che vive accogliendo dentro di sé la legge di Dio, che è una legge di vita, di amore. A questa legge “è sottomessa ogni cosa”, dice col suo linguaggio difficile l’autore della lettera agli Ebrei. Cosa vuol dire? Non vuol dire che se non seguiamo la sua legge d’amore Dio ci punisce, altrimenti non sarebbe un Dio d’amore, ma vuol che se viviamo fuori da questa legge, andiamo solo incontro a disastri. E se “al momento presente non vediamo ancora che ogni cosa sia sottomessa al Signore”, dice sempre la lettera agli Ebrei, è perché, come diceva Isaia, non accogliamo la potenza di vita che Dio col suo Spirito immette in ogni uomo e che è capace di lavare le nostre “brutture “ e di pulire “Gerusalemme dal sangue versato”. Certo. Dio continua a venire (ecco a cosa ci richiama l’Avvento) con il suo amore che ci purifica, che ci salva, che non vuole distruggere noi, ma redimere il nostro male. C’è solo una cosa che dobbiamo fare, e ce la dicono le parole conclusive del salmo: “alzatevi soglie antiche (riferendosi alle porte del tempio di Gerusalemme) ed entri il re della gloria, il Signore”. Dobbiamo aprire a Dio le porte, non del tempio di Gerusalemme, ma del nostro cuore, per accogliere il suo amore che ci salva. Ma non dai babilonesi, non dai romani, come pensavano al tempo di Gesù, non dai nostri problemi e dalle cose che non vanno, pensiamo noi, ma da cosa? Gesù rivela che Dio ci “slega” da un altro tipo di “sottomissione”. Perché sottolineo queste due parole, “slegare” e “sottomissione”? Perché sono due parole che ricorrono, la prima nel vangelo, e la seconda, lo abbiamo visto, nel brano della lettera agli Ebrei. Notate bene come l’evangelista Luca si sofferma su questo particolare, ripetendo in poche righe e per ben 4 volte il verbo “slegare”. Dice che Gesù, prima di entrare in città, ordinò ai discepoli di andare nel villaggio di fronte a Gerusalemme a slegare un puledro legato, a portarglielo, e aggiunge: se qualcuno vi chiede perché lo slegate ditegli che il Signore ne ha bisogno, e poi aggiunge che i proprietari del puledro, mentre i discepoli lo slegavano, chiesero loro perché lo stessero slegando. Luca si riferisce alla profezia di un altro profeta, Zaccaria, che diceva: “Esulta, Gerusalemme, perché viene il tuo re (e i re salivano sulla mula o sul cavallo), giusto e vittorioso, che (attenzione) è umile e cavalca (non una mula o un cavallo, ma) un asino, un puledro figlio d’asina che farà sparire i carri da guerra e annuncerà la pace”. Quindi Zaccaria non aveva annunciato un Messia che sarebbe venuto con la forza e la violenza a restaurare il regno di Israele, ma un Messia molto diverso. Che non ci “slega” dai problemi della vita e rimettendo a posto le cose che non vanno, ma che è capace di “sottomettere” a lui il nostro male, il nostro egoismo, le nostre brutture, senza farcele pagare, le paga lui sulla croce, come un asino. E dunque a Dio dobbiamo rivolgerci per chiedergli la forza di affrontare le brutture della vita con la sua forza, col suo Spirito, diventando asini anche noi, come Dio. Ebbene, questa profezia era stata dimenticata, legata, perché a nessuno interessava un Messia così. Per questo che quando Gesù entra a Gerusalemme la folla lo acclama Messia e poco tempo dopo chiede la sua morte. Per questo anche noi quando viene Natale tutto diventa magico per un giorno, e dal giorno dopo tutto ritorna triste come prima. Non è colpa di Dio. E’ colpa nostra. Dio, dice sempre la lettera agli Ebrei, facendosi uomo in Gesù, ha assunto la nostra carne, quindi ci ha reso fratelli di Gesù, partecipi della sua vita, del suo Spirito, della sua forza vitale, capace di trasformarci dal di dentro. Noi, invece, nonostante il Natale, andiamo avanti a pensare a Dio come a un essere superiore lontano da noi, da temere o a cui rivolgerci per ottenere protezione e per salvarci dai romani o dai babilonesi, cioè dai problemi che di volta in volta accadono nella vita, arrabbiandoci e perdendo la fede quando non interviene come vorremmo. Gesù ci ha rivelato che Dio non è questo. Che Dio compie il suo ingresso nel mondo in un altro modo. E tra poco lo farà ancora una volta attraverso un pezzo di pane e un poco di vino, per fondersi con noi e diventare con Lui una cosa sola. Il problema, e la domanda, rimangono: a noi piace un Dio così? Accogliamo un Dio che viene così?