domenica 10 marzo 2019

PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

Ogni anno, in Quaresima, la liturgia ci ripresenta sempre gli stessi splendidi brani di vangelo che non finiremo mai di comprendere, come quello di oggi: cosa rappresenta il deserto, che significato ha il numero 40, cos’è il digiuno di Gesù, chi è il diavolo che tenta Gesù, tutte cose che spiego da anni nelle omelie, negli incontri di catechesi per gli adulti, in particolare quelli di quest’anno dove
abbiamo parlato proprio del diavolo. Allora oggi non voglio parlare di queste cose, ma mi lascio ispirare dal fatto che, nelle messe principali di (domani, questa) mattina, i bambini di terza elementare (celebrano, hanno celebrato) una tappa del cammino di iniziazione cristiana che è il rito della “consegna del Padre nostro”. Il Padre nostro è la preghiera che ci ha consegnato Gesù, per insegnarci cosa dobbiamo chiedere a Dio. Qual è la cosa tragica? Che il Padre nostro lo recitiamo con nonchalance e senza magari comprendere il significato di quello che stiamo chiedendo, e così succede che le uniche cose che Gesù ci ha insegnato a domandare nella preghiera assicurandoci che Dio, se gliele chiediamo con fede, ce le concede, non le otteniamo, e al contrario andiamo avanti a chiedere al Signore tutte le cose che Gesù non ha detto di chiedere, e infatti non otteniamo neanche quelle. Il bello è che poi ci arrabbiamo col Signore. Come se mi arrabbiassi col macellaio perché non mi vende il pane. E qual è il collegamento tra quanto sto dicendo e questo brano di vangelo? Che noi normalmente chiediamo al Signore le stesse cose che gli chiede il diavolo, e che Gesù per primo ha rifiutato. Badate bene che il diavolo che tenta Gesù non è un essere strano e spaventoso, ma rappresenta tutte le persone che Gesù incontrerà nel corso della sua vita pubblica e che lo metteranno alla prova, e tra queste ci siamo anche noi. Perché anche noi, in fondo, quando ci rivolgiamo a Dio e lo preghiamo, gli chiediamo tutti le stesse cose che gli chiede il tentatore. La prima: trasforma le pietre in pane, cioè pensaci tu a risolvere tutti i problemi che ci sono nella mia vita e nel mondo. La seconda: gettati giù dal tempio che verranno gli angeli a salvarti, cioè mandacela buona, aiutaci, proteggici, non farci ammalare, facci guarire, non farci morire (e queste, per carità, sono tutte cose belle e buone). La terza: ti darò in possesso tutti i regni del mondo, che è la richiesta del potere, dei soldi, del successo, il desiderio di autoaffermazione, il “prima noi”, anzi, no, “prima io”, poi tutti gli altri. Ebbene, nel Padre nostro Gesù ha insegnato a chiedere al Padre tutt’altro: non di trasformare miracolosamente le cose che non funzionano, ma di trasformare noi dal di dentro. Solo che quando diciamo il Padre nostro, non ci rendiamo conto di questo, molti non sanno neanche il significato delle frasi che si dicono, e infatti lo si recita alla svelta come se fosse una filastrocca. Proviamo allora brevemente a ripercorrere questa preghiera. Già l’inizio dice tutto: Padre nostro, non mio, ma di tutti, per cui già dire Padre nostro significa chiedergli di imparare a considerare gli altri come fratelli. Sia santificato il tuo nome, cioè mi voglio impegnare col mio comportamento a far conoscere il tuo nome di Padre. Come? trattando tutti come miei fratelli. Venga il tuo Regno, regno di pace, di giustizia, di amore, di gioia. E come fa a venire? Sia fatta la tua volontà, facendo cioè che il suo progetto d’amore si compia in ogni uomo. E qual è questo progetto d’amore? Che gli uomini siano felici, su questa terra e dopo la morte, e la strada è quella che Gesù ha indicato nelle beatitudini (per cui se non conosciamo le beatitudini non possiamo nemmeno dire il Padre nostro): accogliere tutti e non escludere nessuno, perdonare e mai vendicarsi, pensare al bene degli altri e non solo al proprio, servire tutti e non dominare nessuno, diventare più povero io per rendere gli altri meno poveri, e così via. Questa è la sua volontà. Come in cielo così in terra vuol dire: fa che l’amore che unisce in cielo il Padre e il Figlio Gesù si realizzi in terra, tra di noi, grazie allo Spirito santo che ci hai dato. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, cioè la presenza di Gesù, il pane di vita, che si dona nell’eucaristia e nella parola, perché “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Rimetti a noi, condona i nostri debiti come noi li rimettiamo, li condoniamo ai nostri debitori. Tutti sappiamo come è facile diventare usurai, creditori che chiedono agli altri di restituire i loro debiti con gli interessi. Con questa richiesta, invece, noi chiediamo al Padre di avere verso gli altri come debito da restituire solo quello dell’amore che si manifesta nel perdono: trattare dunque gli altri nello stesso modo in cui Dio tratta ciascuno di noi. E non ci indurre in tentazione. Sapete che il Papa, giustamente, ha detto che questa espressione, detta così, è sbagliata, perché Dio non tenta nessuno, per cui, fra un po’ di tempo tutti impareremo a ripetere questa frase in modo più giusto: “non abbandonarci nella tentazione” (comunque, per inciso, non è cambiando questa frase che finalmente diremo bene il Padre nostro, ma è comprendendo bene anche tutte le frasi del Padre nostro che sto spiegando pur velocemente). Comunque, qual è questa tentazione, questa prova, nella quale chiediamo che il Signore non ci abbandoni? Quella di andare avanti a chiedergli di esaudire i nostri interessi e non le cose che lui ha insegnato a domandare. Per questo il Padre nostro termina dicendo: ma liberaci dal male, anzi, dal Maligno, dallo spirito del male che ci porta a compiere il male. Vedete allora? Basterebbe come impegno della Quaresima imparare ogni giorno e durante la messa a dire il Padre nostro con maggiore consapevolezza, e allora state sicuri che tante cose che non funzionano nella nostra vita e in quella delle persone che incontriamo cominceranno a cambiare in meglio. ALLA PRESENTAZIONE DEI DONI Prima dicevamo che la volontà di Dio è la nostra gioia. Gesù infatti non ha mai invitato a fare penitenza, a mortificarsi, a fare sacrifici e digiuni. Anzi, ha detto il contrario: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Non capire questa cosa è il motivo per cui la Quaresima purtroppo ha assunto toni lugubri, come il colore delle vesti liturgiche, tanto è vero che è nato il detto “hai una faccia da quaresima” rivolto alle persone che sono particolarmente depresse. Solo che la via che conduce alla gioia si ottiene facendo le cose che noi chiediamo al Signore nella preghiera del Padre nostro, e cioè orientando la nostra vita al bene dell’altro. Allora se c’è una rinuncia da fare è quella al proprio egoismo, e se c’è un digiuno da fare è quello di rinunciare io a un pasto per dare il corrispettivo a chi non ha da mangiare, ma soprattutto diventare io uno che si fa mangiare dagli altri, non uno che mangia gli altri. Quello che ora stiamo per fare non è salutare i vicini di posto dandogli la mano, ma impegnarci a vivere così, perché il pane e il vino che offriamo all’altare siano il segno della nostra vita che vuole essere trasformata dall’amore di Dio, altrimenti è inutile continuare la Messa. Con questo spirito, dunque, scambiamoci ora un segno di pace. PRIMA DELL’IMPOSIZIONE DELLE CENERI L’imposizione delle ceneri è accompagnata dall’invito di Gesù “Convertitevi e credete al vangelo”, e credere al vangelo, come ho detto nell’omelia e prima della presentazione dei doni, significa non fare penitenza o mortificarsi, ma orientare la propria esistenza al bene dell’altro. Il Signore non abbatte l’albero che non porta frutto, ma lo concima per dargli nuovo vigore. Voi sapete che i contadini, sul finire dell’inverno, distribuivano sul terreno le ceneri accumulate nel tempo freddo per dare nuovo vigore alla terra. Allo stesso modo, la cenere che riceviamo sul capo è il simbolo di questo concime che è la Parola di Dio e l’eucaristia di cui ci siamo nutriti che vuole infonderci le energie per convertirci, cioè per diventare capaci di amare come Gesù.