domenica 3 marzo 2019

ULTIMA DOMENICA DOPO EPIFANIA

Avevamo lasciato Gesù, domenica scorsa, in casa, a tavola coi peccatori, tra i quali c’era Levi, il pubblicano, e oggi il vangelo ci presenta ancora Gesù in casa di un altro pubblicano, Zaccheo. I pubblicani erano gli esattori delle tasse, e siccome le tasse andavano ai romani, erano odiati dagli ebrei, considerati traditori, e anche ladri, perché facevano la cresta e si arricchivano impoverendo la
gente. Nessuno doveva entrare in casa loro, per non contaminarsi, ed erano talmente peccatori che gli era vietato entrare nel tempio e accostarsi a Dio. Insomma, Zaccheo e tutti quelli come lui, oggi potrebbero essere paragonati a tutte quelle persone che anche i “bravi” cristiani vorrebbero che marcissero in galera perché si sono macchiati di crimini orrendi. Ironia della sorte è che il nome Zaccheo, in ebraico, significa “puro”, mentre era l’impuro per eccellenza. Oltretutto Gesù stesso aveva dichiarato che per i ricchi non c’è alcuna speranza di poter entrare nel regno di Dio, perché “è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio”, e Zaccheo era molto ricco perché era un ladro, infatti cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, “perché era piccolo di statura”, non per la sua altezza fisica, ma per la sua bassezza morale: i ricchi non sono all’altezza di Gesù, vedono solo i loro interessi. Insomma, Zaccheo è un caso disperato. Ebbene, Gesù fa vedere che nulla è impossibile a Dio, che per Dio non c’è nessun caso disperato, perché Gesù non è “venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano, è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”. Infatti, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”, attirandosi le mormorazioni dei benpensanti: “E’ entrato in casa di un peccatore!”. Si, perché Dio non è schizzinoso come noi, solo che noi vorremmo che anche Dio si comportasse come noi, tanto è vero che quando un delinquente sfugge alla giustizia umana, il “bravo” cristiano dice: “ma non sfuggirà alla giustizia divina, non marcirà in galera, ma brucerà all’inferno”. Naturalmente a dover marcire in galera o bruciare all’inferno sono sempre gli altri, non io, perché io sono bravo. La strategia di Dio, di fronte al peccatore, è sempre una sola: distruggere il peccato, come? amando il peccatore! Lo abbiamo letto anche nel brano del Siracide: il Signore è paziente con gli uomini ed effonde su di loro la sua misericordia. E anche san Paolo, nel brano della lettera ai Corinti, dice che i credenti devono usare carità e perdono verso i peccatori. Gesù, sempre nel vangelo di Luca, dice: “siate misericordiosi come il Padre, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e fa splendere il sole sui malvagi e sui buoni”. Dio è giusto perché è fedele al suo amore. Questa è la sua perfezione: amare gratis chi non se lo merita, fare del bene senza attendere nulla in cambio, concedere il perdono prima che venga richiesto. Già, perché nei vangeli Gesù non invita mai i peccatori a chiedere perdono a Dio, ma dirà sempre di perdonare le colpe degli altri. Chiedere perdono a Dio è inutile, perché Dio ci ha già perdonato, o meglio, Dio non ci perdona mai, perché non si sente mai offeso, perché Dio è un’incessante cascata d’amore che vuole bagnare tutti. Meno male che adesso ai ragazzi non si insegnano più quelle filastrocche disastrose degli atti di dolore dove si diceva: mi pento dei miei peccati perché ho offeso te e ho meritato i tuoi castighi, o Gesù d’amore acceso, non ti avessi mai offeso. Se Dio è amore, l’amore non si offende. Il peccato, come insegna il concilio Vaticano II, alla luce del vangelo, non è un'offesa rivolta a Dio, ma è un limite che l'uomo mette alla sua crescita. I peccati, per Gesù, non sono non aver detto le preghiere o aver detto qualche bugia o qualche parolaccia, ma il male che facciamo agli altri e il bene che potremmo fare e che non facciamo. Dio ce li perdona perché noi possiamo crescere. Per questo insiste che anche noi perdoniamo gli altri, perché anche gli altri, che hanno fatto il male, possano crescere. Non aspetta che noi ci pentiamo e ci convertiamo per perdonarci, altrimenti potrebbe aspettare tutta la vita. Sarebbe come se un medico aspettasse che i pazienti guariscano prima di visitarli. Tutte le volte che noi, anche nella Messa, chiediamo perdono al Signore delle nostre colpe, non è per convincerlo a perdonarci, ma è perché noi impariamo a renderci conto della sua misericordia e impariamo a fare la stessa cosa verso gli altri. Perché se io sono perdonato da Dio, ma non perdono la colpa del fratello, questo perdono, che pure Dio mi ha dato, rimane lì, rimane sterile, rimane inefficace. Sono cose, queste, che ci sembrano superiori alle nostre forze, anche perché Gesù, sempre nel vangelo di Luca, dice anche: non basta che perdoni, ma devi voler bene a chi ti ha fatto del male, parlare bene di lui e fargli del bene. E a noi ci viene da dire: ma siamo pazzi? Gesù, in che mondo vivi? E dopo che lo ho fatto del bene, cosa succede? Ecco, possono succedere tre cose. La prima è che può succedere quello che accadde a Zaccheo: sentendosi per la prima volta così amato, si convertì, infatti si impegnò a restituire con gli interessi quanto aveva rubato e a condividere con gli altri le sue ricchezze. E questa è la salvezza: “oggi la salvezza è entrata in questa casa”. La seconda cosa che potrebbe accadere è che il Zaccheo di turno al quale ho perdonato, se ne freghi e vada avanti lo stesso a fare del male. Ma in entrambi i casi c’è una terza cosa che accade sicuramente, una cosa che cambia radicalmente la nostra esistenza. Innalzando la soglia del nostro amore facendola coincidere con quella di Dio, la nostra vita e quella di Dio sono intrecciate, il frutto dell’eucaristia possiamo davvero gustarlo, sentirci in pace, non più in guerra, scoprire che quello che ci chiede Gesù e che ci appare impossibile perché ci sembra sconveniente, da scemi, è in realtà l’unico modo per essere davvero felici.