giovedì 18 aprile 2019

TRIDUO PASQUALE

GIOVEDÌ SANTO: LA PROVA DEL NOVE 

 Ho voluto che leggessimo il Vangelo in questo modo (dialogato) non solo per rendere meno noiosa la lettura, ma perché ognuno di noi potesse identificarsi meglio nei vari personaggi. Io ho fatto Gesù non perché sia più bello di voi, ma solo per una ragione pratica. Perché dico questo? Perché penso che sia importante capire bene perché Giuda lo ha tradito, Pietro lo ha rinnegato, tutti lo hanno abbandonato,
il sinedrio decise di metterlo a morte, per arrivare a scoprire che noi, al loro posto, avremmo fatto la stessa cosa, perché di fatto, pur senza rendercene conto, è quello che rischiamo di continuare a fare. Gesù ci fa vedere che Dio non è quello che pensiamo noi. Per i capi del popolo Dio era quello che ha il potere su tutti, che si fa servire, ed essi si servivano di Dio per spadroneggiare sul popolo, mentre Gesù, con la lavanda dei piedi, rivela che Dio è colui che serve e che il potere va usato per servire gli altri: se la gente gli avesse creduto, sarebbero andati in cassa integrazione. Per la folla, e per i discepoli che lo avevano seguito, Dio era quello che premia e castiga, che custodisce e protegge i suoi fedeli e che avrebbe mandato il suo Messia che, nel suo nome, avrebbe spazzato via con la violenza gli usurpatori romani. Quante volte, anche per noi, Dio è come la macchinetta automatica, distributrice di miracoli, e infatti a Dio spesso ci si rivolge nel momento del bisogno perché faccia i nostri interessi, facendo vincere la propria squadra del cuore, poi la vita continua indipendentemente da Lui. Gesù, invece, rivela che Dio è presente in ciascuno di noi con il suo Spirito, che l’unico dono che Dio fa tutti è il suo Spirito d’amore che noi liberamente possiamo scegliere di seguire o meno, che i nemici vanno considerati fratelli da accogliere e perdonare. Quando tutti cominciarono finalmente a capire come stavano le cose, i capi cercarono di eliminarlo per paura che la folla non fosse più sottomessa a loro, mentre i discepoli e la folla lo abbandonarono perché delusi. Giuda lo tradì e Pietro lo rinnegò non perché fossero vigliacchi, ma perché Gesù li deluse. Quando Pietro disse: “io non lo conosco”, disse il vero: non l’aveva mai conosciuto, pensava di avere seguito un’altra persona. Pietro e Giuda impersonano bene le nostre “crisi di fede” che di solito avvengono quando Dio ci delude perché non ci ha ascoltato e non ha fatto le grazie che gli abbiamo chiesto. Allora Giuda lo tradì perché cercò almeno di guadagnarci qualcosa, dal momento che il suo vero dio erano i soldi, e quando Pietro si mise a piangere non era perché si fosse pentito per averlo rinnegato, ma perché si rese conto con amarezza di aver seguito per tre anni un uomo che non era quello che lui avrebbe voluto. Tutto questo spiega bene anche il motivo del pianto di angoscia di Gesù nell’orto degli Ulivi, che non era tanto per la morte pur tremenda a cui sarebbe andato incontro, e alle sofferenze che avrebbe patito, anche perché il tutto sarebbe durato poche ore, considerando poi quanta gente nella storia dell’umanità ha patito e patisce pene ben maggiori che durano non qualche ora, ma durano anni. L’angoscia di Gesù era perché egli stesso si rendeva conto di aver umanamente fallito, perché nessuno aveva creduto nelle cose che aveva detto, e quando chiese al Padre di non fare quella fine, era perché temeva che di fronte a una morte così ignominiosa sarebbe stato ancora più difficile credere che Dio è uno che perdona anche chi lo uccide, che piuttosto che uccidere si fa uccidere. Ma la sua preghiera si conclude con le parole: non la mia, ma la tua volontà si compia. Perché la volontà di Dio è che noi abbiamo a credere nel suo amore e che diventiamo come lui per realizzare la nostra esistenza. Un pianto, quello di Gesù, che continua anche oggi quando noi continuiamo a non comprendere queste cose, e la prova del nove è verificare il modo in cui partecipiamo all’eucaristia. Proviamo a farla questa verifica, stasera, adesso, nei momenti di adorazione dei prossimi giorni, ponendoci alcune domande. La prima domanda nasce dal fatto che, dopo aver ascoltato la sua Parola, tra poco porteremo all’altare il pane e il vino che simboleggiano la nostra vita intera che noi presentiamo al Signore. Perché lo facciamo? Perché desideriamo che la Parola che abbiamo ascoltato trasformi la nostra vita, ci faccia diventare quella Parola. Davvero lo desideriamo? Davvero quando presentiamo il pane e il vino all’altare abbiamo questa consapevolezza? La seconda domanda per una verifica nasce da quello che accade nel momento della consacrazione, quando Gesù diventa il pane che gli offriamo perché noi, mangiandolo, ci assimiliamo e diventiamo come lui, e diventa vino da bere perché quel vino è il suo sangue, cioè la sua vita, il suo Spirito, il suo amore, senza il quale questa trasformazione sarebbe impossibile. Ma cosa vuol dire diventare come Lui? Vuol dire diventare persone disposte a dare a nostra volta la vita per gli altri, a lavarci i piedi gli uni gli altri, cioè ad avere come unica legge di vita quella dell’amore, del servizio, del perdono, dell’accoglienza. Ecco allora la seconda domanda di verifica: davvero io voglio diventare come Gesù, cioè vivere così? E infine una terza domanda: mi rendo conto che fare la comunione significa questo o no? San Paolo è molto chiaro a riguardo, e usa parole molto severe verso i Corinti, come leggevamo prima: essi si radunavano per la cena, ma non vivevano la comunione con gli altri, con i poveri e gli stranieri, e Paolo dice: questa non è comunione, il corpo di Cristo sono tutti i fratelli, se escludi uno, escludi Dio, e quindi questo non è fare comunione, ma mangiare la tua condanna. Un po’ come Giona, il protagonista del racconto della prima lettura, che, badate bene, è un romanzo, non un fatto storico. Dio gli disse di andare verso i popoli stranieri che abitavano a Ninive invitandoli alla conversione, e Giona cosa fece? Fece esattamente il contrario, perché per gli ebrei era inconcepibile che Dio amasse anche gli stranieri (vedete come la storia si ripete?), e allora pensò: se io vado là, la gente si converte e Dio non la castiga. E infatti prese la nave e andò verso la Spagna, in direzione opposta, però poi, finalmente, dopo varie traversie, fu lui a convertirsi e ad andarci. Perché mi piace Giona? Perché in un passo del vangelo, siccome Pietro era quello che aveva sempre da contestare Gesù e faceva sempre il contrario, fino ad arrivare a rinnegarlo, come spiegavo prima, Gesù lo chiama “figlio di Giona”. E allora, se Giona è come Pietro, Pietro è come i Corinti, c’è speranza anche per noi che siamo come Pietro e come i Corinti. Perché, vedete, il problema non è scoprire che il nostro cuore è carico di insofferenza, di odio, di rancore, di razzismo, e di ogni altra sorta di male. Non è un problema, perché noi siamo fatti così, il Signore lo sa e ci ama comunque. Il problema è se ci sta bene essere così, perché se ci sta bene essere così, pensando oltretutto di essere nel giusto, allora vuol dire che non abbiamo nessuna intenzione che il Signore ci trasformi, e manco glielo chiediamo, ma allora tanto vale venire a messa. 


VENERDÌ SANTO: PERCHE’ GESU’ VENNE MESSO A MORTE? 

Ma alla fine, perché Gesù venne messo a morte? Perché Gesù, che per tre anni non aveva fatto altro che predicare l’amore di Dio facendo solo del bene a tutti, era così odiato a tal punto che tutti lo volevano eliminare? La risposta è semplice e drammatica: perché era un personaggio pericoloso, per tutti. Anzitutto per i capi religiosi del popolo. Gesù parlava di Dio in un modo completamente diverso da quello che loro avevano imposto, dicendo che Dio è un Padre che ai suoi figli non chiede nulla, ma dona sempre. Tenete presente che l’economia del tempio di Gerusalemme, che era una delle banche più sicure e più floride di tutto il Medio Oriente, si reggeva sulle imposte, sulle offerte, sui riti per ottenere, a pagamento, il perdono di Dio, per cui era tutto un commercio di animali, di pelli, di offerte di soldi, frutta, grano che, con la scusa di Dio, andavano nelle tasche dei capi del popolo. Gesù andò nel tempio e cacciò tutti quelli che vendevano e compravano, dichiarando che Dio lo si onora non facendo offerte nel tempio, ma amando i fratelli, mettendosi a loro servizio, e il perdono di Dio lo si ottiene non con dei rituali, ma se a nostra volta perdoniamo gli altri, ed egli per primo si arrogava il diritto di perdonare. Se la gente avesse creduto in lui, i capi del popolo sarebbero andati in cassa integrazione: la sua dottrina era troppo pericolosa, minava i loro interessi di potere ed economici. Non si contano nei vangeli le accese discussioni tra loro e Gesù e tutti i loro tentativi per fermarlo, però non ci riuscivano, sia perché avevano paura della reazione del popolo che credeva in lui, sia perché, essendo Israele dominato dai romani, non era in loro potere decretare la morte di un uomo. Motivi religiosi per metterlo a morte ne avevano, perché Gesù diceva di essere l’incarnazione stessa di Dio (“chi vede me vede il Padre”), e questa era considerata una bestemmia perseguibile con la morte, ma siccome ai romani non interessavano le beghe religiose dei giudei, per sperare nella sua condanna a morte occorrevano motivazioni politiche, che quell’uomo fosse considerato un sovversivo, come Barabba, perché ai romani interessava mantenere l’ordine e la pace nei paesi da loro occupati. E allora trovarono l’escamotage: cercare falsi testimoni che accusassero Gesù di essere un sobillatore. Tutti aspettavano l’arrivo del Messia, del Cristo, inviato da Dio per ristabilire il regno di Israele scacciando e uccidendo gli invasori. Gesù noi lo chiamiamo Cristo, ma Cristo non è il suo cognome, Cristo vuol dire Messia. La gente riconosceva che Gesù era il Cristo, e i suoi discepoli, apostoli compresi, lo avevano seguito pensando che Gesù fosse l’uomo mandato da Dio per ricostruire il regno di Israele cacciando con la violenza i romani: per questo, quando entrò in Gerusalemme, lo acclamarono Messia gridandogli “osanna”. Ma Gesù era riuscito a deludere anche loro, perché non faceva che predicare l’amore per i nemici e di essere venuto a inaugurare non il Regno di Israele, ma il Regno di Dio, una società dove vige la legge dell’amore e dell’accoglienza reciproca, perché Dio non ha nemici, ma solo figli da amare. E quindi i capi del popolo non sapevano che pesci pigliare: che Gesù avesse la pretesa di essere Dio e che il suo insegnamento mettesse a repentaglio il loro prestigio, a Pilato non interessava perché era una questione religiosa che dovevano sbrigare tra di loro, ma non potevano nemmeno portarlo da Pilato accusandolo di essere un terrorista, perché non era così. Allora fecero leva sulla delusione degli apostoli, servendosi di Giuda, per arrestarlo; cercarono falsi testimoni che lo accusassero di aver detto di voler distruggere il tempio di Gerusalemme, e così presentarlo a Pilato come un terrorista pericoloso, e per avere dalla loro parte tutto il popolo, lo accusarono di bestemmia perché si era fatto come Dio. Per questo chiesero come pena la crocifissione, perché così venivano puniti i bestemmiatori maledetti da Dio: in questo modo tutta la gente si sarebbe resa conto che un maledetto da Dio non poteva essere quello che diceva di essere. E così Pilato si ritrovò di fronte quest’uomo del quale tutti chiedevano la morte. Lo interrogò, ma quando si rese conto che Gesù non era un eversivo, voleva liberarlo, ma per paura anche lui di perdere il potere per non essere stato capace di mantenere l’ordine, dal momento che tutti erano inferociti, se ne lavò le mani accontentando tutti e mettendo a morte Gesù. Ebbene, tutti i vangeli sono scritti proprio per arrivare a dire che Dio, invece, è proprio questo qui, quest’uomo che muore sulla croce come maledetto. L’unica volta che nel vangelo uno professa che Dio è proprio quell’uomo che muore sulla croce è un pagano, il centurione. Diceva Bonhoeffer: “la croce è la distanza infinita che Dio ha posto tra sè stesso e ogni nostra immagine religiosa di Lui”. Cioè, guardando la croce, stoltezza per i greci e scandalo per i giudei, noi vediamo chi è veramente Dio, totalmente diverso da come noi lo intendiamo. Onnipotente, si, ma nell’amore, perché il suo amore è talmente grande da perdonare anche quelli che lo uccidono, un Dio che entra nei meandri più oscuri e turpi del male degli uomini prendendolo su di sé senza restituirlo, che insegna che il male lo si vince porgendo l’altra guancia. Per questo anche noi continuiamo a far fatica ad accettare un Dio così, esattamente come i suoi contemporanei, e preferiamo continuare a rivolgerci a Gesù considerandolo Dio a modo nostro, il dio a cui chiedere quelle grazie e quei favori che qualunque altro uomo, di qualunque altra religione, chiede al suo Dio, per continuare poi a pensare e a vivere secondo i propri valori e i propri interessi. Ed è proprio morendo sulla croce che Gesù redime il mondo, lo salva, lo libera da questa idea diabolica e falsa di Dio, mostrando che Dio è Padre, che è dentro di noi col suo Spirito che il Figlio Gesù dona a tutti perché possiamo diventare suoi figli come Gesù imparando ad amare come Gesù. Se viviamo così, accettando di rompere le regole dei giochi di un mondo e di una società dove vige la legge della forza, del potere, dell’interesse, dell’egoismo, e di pagarne le conseguenze, come è stato per Gesù, allora diventiamo uomini e donne autentici, la vita di Dio è dentro di noi, siamo risorti già adesso, e il nostro destino sarà lo stesso destino di Gesù, un destino di risurrezione. Perché i vangeli non sono stati scritti per dimostrare che Gesù, nonostante la sua morte in croce, siccome è risorto, allora è Dio, ma per dimostrare che ogni uomo che vive come Gesù è destinato a risorgere perché diventa come Dio. 


OMELIE DI PASQUA 

Come a Natale la questione è capire che Gesù bambino non è Babbo Natale da giovane, così a Pasqua si tratta di capire che il sepolcro non è un uovo di cioccolato e Gesù non è il pulcino Pio o la sorpresa che si trova scartando l’uovo. Al di là delle battute, la posta in gioco è importante perché ne va di tutta la nostra fede cristiana che rischiamo di ridurre a una bella favoletta per bambini. Ho visto recentemente un film, peraltro molto divertente, una commedia italiana, che comincia con una battuta irriverente sul Natale dove il marito rimprovera sua moglie perché non ha rispettato la tradizione e ha messo il bambinello nella mangiatoia prima del tempo. Siccome purtroppo non riescono ad avere figli, ecco che lei gli risponde dicendo: “Ma a che serve rispettare queste tradizioni? Da noi il Natale non viene mai, forse perché nessuno gli scrive la letterina. Del resto, il Natale senza bambini a cosa cavolo serve?”. Di fronte a questa domanda avrei voluto smettere di vedere il film, invece poi ho proseguito e mi sono anche divertito, meno male. Il punto è che questa domanda rivela impietosamente una drammatica verità, e cioè la non incidenza delle verità della nostra fede nella vita delle persone, un cristianesimo ridotto ad una bella favola per bambini, come se Dio si fosse fatto uomo per farci festeggiare Babbo Natale e Gesù fosse risorto per farci scartare uova di cioccolato. Quindi oggi si tratta di capire cosa vuol dire risurrezione, come facciamo a credere che Gesù è risorto e, soprattutto, cosa cambia nella mia vita di tutti i giorni credere che Gesù è risorto. Perché le questioni sono due. La prima è questa: se la risurrezione è qualcosa che riguarda la mia vita futura, il fatto che un giorno, non si sa quando, il mio corpo morto e sepolto sottoterra o cremato tornerà a vivere, la cosa non è particolarmente affascinante e consolante, soprattutto quando muore un proprio caro: sapere che in un giorno indefinito risorgerà non riesce a consolare quelli che lo stanno piangendo come morto (lo abbiamo letto due domeniche fa quando Gesù dice a Marta che suo fratello sarebbe risorto e Marta non si mostra molto consolata a riguardo). La seconda questione riguarda direttamente Gesù: cosa vuol dire che Gesù è risorto e come posso incontrarlo adesso, perché se adesso non ho modo di incontrare Gesù risorto, di sentirlo come vivo, che sia risorto o meno non mi cambia niente, per cui è ovvio che è meglio consolarsi mangiando uova di cioccolato. Ora, quando diciamo risurrezione, normalmente molti pensano alla rianimazione di un cadavere: il corpo morto di Gesù crocifisso viene messo nel sepolcro e dopo tre giorni si rianima. Per noi invece c’è da aspettare altro che tre giorni... Invece bisogna capire che il numero tre, nella Bibbia, non è un’indicazione cronologica, ma indica ciò che è completo, quindi dire che Gesù è risorto il terzo giorno vuol dire che Gesù è vivo completamente, che la morte è solo del suo corpo biologico. Quindi la risurrezione di Gesù il terzo giorno vuol dire che Gesù non muore, ma è sempre vivo, però in una forma diversa, in un modo diverso. Infatti i vangeli non raccontano mai il momento della risurrezione, ma descrivono il modo in cui Gesù è stato incontrato e riconosciuto, ma non per dire che fu un privilegio concesso duemila anni fa a qualche decina di persone, ma per spiegare in che modo anche noi possiamo sperimentare oggi che è risorto, e leggendo i vangeli della risurrezione nei prossimi giorni del tempo pasquale lo andremo a scoprire. 


NELLA VEGLIA PASQUALE

 Adesso limitiamoci a quanto ci dice Matteo nel vangelo che abbiamo ascoltato al termine della liturgia della Parola di questa lunga Veglia. Anzitutto Matteo, come anche gli altri evangelisti, afferma che il risorto non si trova al cimitero (“non è qui”), e questa è una prima indicazione importante, che riguarda anche i nostri defunti e ciascuno di noi, e cioè che finché i nostri cari vengono pianti come morti, non è possibile sperimentarli come vivi. Perché la morte non interrompe il ciclo vitale, la morte è solo del corpo, mentre la persona, nella sua interezza, continua a vivere. Il destino di Gesù è lo stesso destino di coloro che hanno vissuto come lui. Infatti alle donne viene detto di dire ai discepoli che lo avrebbero visto risorto in Galilea, e più avanti verrà precisato anche il luogo, ovvero sul monte delle beatitudini. Vuol dire che possiamo sperimentare e sentire Gesù vivo nella nostra vita quando, praticando gli insegnamenti di Gesù, viviamo un amore simile al suo. Vivendo così siamo beati adesso, risorgiamo anche noi, sentiamo che Gesù è risorto perché la pratica dell’amore dona gioia e pace. Perciò anche i nostri defunti che hanno vissuto almeno una briciola dell’amore del Signore, non sono al cimitero, ma sono qui con noi a celebrare l’eucaristia, è qui che li incontriamo, non andando al cimitero. E questa risurrezione, questo passaggio da una vita mortale a una vita immortale (questo significa Pasqua) è iniziata il giorno del nostro Battesimo di cui, non a caso, parlavano le altre letture di questa veglia, e del Battesimo tra poco faremo memoria in questa solenne Veglia pasquale. Siccome il Battesimo viene dato ai vivi, non ai morti, vuol dire che Gesù fa risorgere noi che siamo vivi, ma che possiamo vivere come morti se non ci rendiamo conto del dono del Battesimo, se non permettiamo allo Spirito santo che abbiamo ricevuto di farci sentire, come Gesù, figli amati dal Padre e di amare i fratelli, e dunque già risorti, perché partecipi della vita divina. E per fare questo dobbiamo fare almeno due cose. La prima, riconoscere che Gesù è vivo nella sua Parola, che stanotte abbiamo ascoltato con abbondanza, Parola che va accolta sempre come nuova e che, quando viene compresa, suscita in noi i pensieri di Dio che danno vita, gioia, pace, a differenza delle altre parole che normalmente ascoltiamo e a cui diamo purtroppo maggiore adesione e che, invece, producono pensieri che deprimono e decisioni che conducono alla morte. E, infine, riconoscendo che Gesù è vivo e presente nel pane e nel vino di cui ci nutriamo per diventare come lui, pane che si spezza per gli altri, e quindi a nostra volta segno visibile dell’amore di Dio, affinchè tutti quelli che ci incontrano possano sperimentare che davvero Cristo è risorto perché vedono che noi siamo risorti. 


NEL GIORNO DI PASQUA

 Adesso limitiamoci a quanto ci dice Giovanni nel vangelo che abbiamo appena ascoltato, nel quale presenta la Maddalena che va al cimitero a piangere un morto, ma dopo aver ascoltato la parola dello sconosciuto che la chiama per nome, smette di guardare il sepolcro e si gira verso di lui, ecco che riconosce in quell’uomo il suo Signore. E questa è già una prima indicazione importante, che riguarda anche i nostri defunti e ciascuno di noi: che finchè andiamo al cimitero a piangere come morti i nostri cari, non possiamo sperimentarli come vivi. Perché la morte non interrompe il ciclo vitale, la morte è solo del corpo, mentre la persona, nella sua interezza, continua a vivere, come Gesù, se però in questa vita ha vissuto almeno una briciola dell’amore del Signore. Perché Dio è amore, Dio è eterno, e quindi solo chi ama può vivere in eterno. Chi ama è già vivo adesso, è già risorto adesso, altrimenti, vivendo da morto la propria vita terrena, quando il suo corpo muore, non può risorgere, perché la nostra vita terrena è paragonabile ai mesi di gestazione nel grembo materno, e la morte è come il momento del parto: se un bimbo nel grembo materno è morto, al momento del parto viene partorito morto. Gesù non risorge perché è Dio, altrimenti, noi che non siamo Dio non potremmo risorgere. Per questo Dio si è fatto uomo, per mostrarci che chi vive da uomo amando come Gesù, è già vivo, risorto adesso, in questa vita terrena, ed è destinato a vivere per sempre. Infatti a risorgere è Gesù crocifisso, colui che ci ha amato in modo supremo. Vuol dire che possiamo sperimentare e sentire Gesù vivo nella nostra vita quando, praticando gli insegnamenti di Gesù, viviamo un amore simile al suo. Vivendo così siamo beati adesso, risorgiamo anche noi, siamo vivi ora, sentiamo che Gesù è risorto perché la pratica dell’amore dona gioia e pace. E questa risurrezione, questo passaggio da una vita mortale a una vita immortale (questo significa Pasqua) è iniziata il giorno del nostro Battesimo di cui parlava la prima lettura. Siccome il Battesimo viene dato ai vivi, non ai morti, vuol dire appunto che Gesù fa risorgere noi che siamo vivi, ma che possiamo vivere come morti se non ci rendiamo conto del dono del Battesimo, se non permettiamo allo Spirito santo che abbiamo ricevuto di farci sentire, come Gesù, figli amati dal Padre e di amare i fratelli. È quello che scopre con animo grato san Paolo, come leggevamo nelle sue parole del brano ai Corinti. Paolo viveva da morto perché perseguitava in nome di Dio coloro che non credevano nel suo Dio. Quando Gesù gli appare e gli chiede “perché mi perseguiti?”, Paolo capisce che nel nome di Dio non si possono fare guerre perché Dio è amore, e solo amando si risorge, ora e per sempre. E questo è ciò che celebriamo sempre, in ogni eucaristia: riconoscendo che Gesù è vivo e presente nel pane e nel vino, ci nutriamo di lui per diventare, come lui, pane che si spezza per gli altri, e quindi a nostra volta segno visibile dell’amore di Dio, affinchè tutti quelli che ci incontrano possano sperimentare che davvero Cristo è risorto perché vedono che noi siamo risorti.