domenica 4 agosto 2019

VIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE

“Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista”. Queste parole le pronunciò un grande vescovo brasiliano, Hélder Câmara, come risposta a chi lo contestava per le sue denunce contro l’ingiustizia di una società profondamene egoista nella quale i poveri venivano sempre più oppressi ed emarginati.
Perché è sempre così: finché il vangelo viene annunciato, non causa alcun problema, ma quando si tratta di tradurlo in scelte sociali, politiche e civili concrete, ecco che subito c’è chi protesta, e la cosa più paradossale è che lo fa citando la frase di Cristo ascoltata nel vangelo di oggi (“Date a Cesare quel che è di Cesare!”), per dire che un conto sono le questioni civili, un altro quelle religiose, per cui il vangelo deve restare confinato nelle parrocchie e nelle sacrestie. Come ebbe a dire poco tempo un noto politico italiano: un vescovo fa il vescovo e non deve rompere le scatole ai sindaci e a chi amministra una città. Per cui in chiesa siamo cristiani, fuori di qui siamo un’altra cosa. In realtà questa frase di Gesù ha tutt’altro significato. Prima di tutto non è “date” a Cesare, ma “restituite” a Cesare. Siccome la domanda gli era stata fatta dai capi del popolo che odiavano i romani oppressori e che, come tutto il popolo, li volevano cacciare, però di fatto avevano in tasca i soldi romani, Gesù sta dicendo: se non vi piace essere oppressi, se non volete avere Cesare come re, restituitegli quel che gli appartiene, perché se lo tenete vuol dire che in fondo vi va bene. Piuttosto restituite a Dio ciò che è di Dio. A Dio appartiene ogni uomo, che è amato come suo figlio. I capi del popolo, invece, si servivano di Dio per i loro interessi, sfruttando il popolo, invece di servire il popolo. Per cui Gesù sta dicendo loro: usate il vostro potere per fare il bene al vostro popolo. Quindi, come vedete, questa frase è proprio un invito di Gesù a tutti noi, e in particolare a chi governa, a tradurre nel sociale la fede. Se io credo in un Dio che è Padre che ama ogni suo figlio, di conseguenza devo impegnarmi a trattare ogni uomo come fratello. Questo significa lasciarsi governare da Dio, avere Dio come unico Signore, come unico re. Per questo, lo abbiamo ascoltato nella prima lettura, Dio non voleva che il suo popolo avesse un re, perché Dio non tollera che qualcuno si metta al di sopra degli altri. Non lo fa neanche Lui: Dio non è uno che domina, ma è uno che potenzia l’uomo, infondendogli il suo Spirito d’amore. Nonostante questo, lo abbiamo letto, il popolo chiese un re come tutti gli altri popoli. Allora il Signore mandò il profeta Samuele che mise il popolo in guardia dai rischi della monarchia. Ma siete sicuri che volete un re? Sì. Ma guardate che il re prenderà i vostri figli e ne farà suoi guerrieri e suoi soldati. Siamo disposti. Ma guardate che il re prenderà le vostre figlie, ne farà le sue serve e le sue concubine. Siamo disposti. Ma siete matti? Guardate che il re, i vostri campi migliori, li prenderà per lui! Siamo disposti a tutto perché vogliamo un re come gli altri popoli. Allora Dio, che rispetta sempre la libertà degli individui, anche quando va contro la sua volontà, concesse la monarchia ad Israele, ma fu l’inizio delle tragedie. I primi tre (Saul, Davide e Salomone), nonostante la loro importanza e alcuni pregi, furono uno peggio dell’altro. Alla morte di Salomone, il regno venne preso dal figlio Roboamo che era un incapace e che infatti lo portò alla rovina causando lo scisma tra il regno del nord e quello del sud, e tra questi due regni poi cominciarono una serie di lotte fratricide che portarono all’indebolimento di Israele che così fu conquistato prima dai babilonesi, poi dai greci e infine dai romani. Per questo si cominciò a proiettare in Dio il re ideale di Israele. E chi è il re ideale? Quello che, come Dio, si sarebbe preso cura dei più deboli e bisognosi. Ebbene, Gesù, porta a compimento queste attese dimostrando che Dio governa gli uomini non emanando delle leggi che gli uomini devono osservare, ma comunicando agli uomini, nel loro intimo, la sua stessa capacità d’amore, per costruire il suo Regno, in questo mondo. E questo dovrebbe essere il compito certamente di ciascuno, ma in particolare di chi governa. Sono andato a rileggere un’omelia di Papa Francesco di due anni fa dove sottolineava due atteggiamenti fondamentali che dovrebbe avere un governante: amare il proprio popolo per servirlo meglio e l’umiltà di ascoltare le opinioni degli altri per scegliere la strada migliore. E poi ha commentato proprio la frase di san Paolo tratta dalla prima lettera a Timoteo che la liturgia ci ha fatto oggi ascoltare, dove Paolo dice: “Raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”. L’ha commentata dicendo: “Ognuno deve fare del suo meglio perché loro governino bene, partecipando alla vita politica che, come dice la dottrina sociale della Chiesa, è una delle più alte forme della carità, perché è servire il bene comune. Ciascuno di noi deve fare qualcosa. Ma ormai abbiamo l’abitudine di pensare che dei governanti si deve solo parlare male. A volte si sente dire: un buon cattolico non si interessa di politica. Ma non è vero: un buon cattolico si immischia in politica offrendo il meglio di sé perché il governante possa governare. Si dirà: quello è una cattiva persona, deve andare all’inferno. No, prega per lui, prega per lei, perché possa governare bene, perché ami il suo popolo, perché sia umile. Un cristiano che non prega per i governanti non è un buon cristiano. E questo non lo dico io. Lo dice san Paolo”. Come vedete, la Parola di Dio di oggi non ci fornisce soluzioni, però ci stimola a formare la nostra coscienza sociale e politica non ragionando con la pancia, come fanno molti politici, ma alla luce dei valori evangelici.