domenica 6 ottobre 2019

VI DOMENICA DOPO IL MARTIRIO

Le letture di oggi sono accomunate da un tema molto importante e attuale, quello dell’ospitalità. Il brano del libro dei Re racconta l’episodio in cui il profeta Elia fu ospitato in casa di una vedova che non apparteneva al popolo ebraico. Il brano della lettera agli Ebrei è stato scelto perché all’inizio si dice: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”, e
il riferimento è al celebre episodio raccontato dal libro della Genesi quando Abramo, alle Querce di Mamre, aveva accolto generosamente tre viandanti del deserto, che poi scopre essere Dio stesso. Secondo la Bibbia, Dio premiava chi era ospitale, e infatti quegli uomini annunciarono ad Abramo la nascita del figlio Isacco che egli attendeva. Anche la vedova che accolse il profeta Elia fu premiata. Noi abbiamo letto l’inizio dell’episodio, dove a beneficiare dell’accoglienza fu Elia che era affamato, ma il seguito del racconto è che Elia risusciterà il figlio di questa donna. E infatti, nel vangelo, Gesù dice: chi accoglie un profeta come profeta avrà la ricompensa del profeta. Vedete, per gli ebrei ospitalità era qualcosa di sacro. Al Tempo di Abramo le popolazioni erano nomadi, erano pastori e vivevano nelle tende nel deserto facendo degli accampamenti. Accogliere o non accogliere qualcuno che arrivava era questione di vita o di morte. L’ospite poteva rimanere fino a un massimo di tre giorni gratuitamente, e in tutto questo tempo aveva la piena protezione di tutta la tribù. Al massimo tre giorni perché dopo, come dice il detto, l’ospite puzza, perché vuol dire che se ne sta approfittando. Era comunque un dono prezioso l’ospitalità perché permetteva a persone diverse e sconosciute di incontrarsi, di confrontarsi, di aprirsi alla novità. Ma questo accadeva ai tempi di Abramo. A mano a mano che la società da nomade si trasformò in sedentaria, che la pastorizia veniva rimpiazzata dall’agricoltura e l’accampamento provvisorio diventava una stabile città protetta da mura, l’accoglienza veniva gradualmente perdendo la sua sacralità. O meglio, l’ospite era sempre sacro, ma solo quello che apparteneva alla propria razza, alla propria religione, alla propria cultura. Così era al tempo di Gesù. Gli stranieri non erano certo graditi ospiti. Ma Gesù non è d’accordo, non sarà mai d’accordo con questa cosa perché Dio non fa distinzioni tra le persone: per Dio tutti gli uomini sono suoi figli e chi accoglie un uomo nel bisogno accoglie Dio: ero straniero e mi avete ospitato. Sono parole decisive: per Gesù la salvezza non si ottiene attraverso riti o pratiche religiose, ma con l’esercizio concreto della carità verso gli altri, e l’ospitalità è una delle diverse forme di carità. Ricordate le parole di Gesù del vangelo di domenica scorsa? “Amate i vostri nemici”, cioè: non considerate nessuno come nemico, non considerate nessuno cosi  distante, cosi  estraneo, cosi  ostile da esser vostro nemico. In latino, nemico si dice “hostis” e ospite si dice “hostes”. Due parole assonanti che però hanno un significato opposto. La civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo per eccellenza, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis), è divenuto ospite (hospes). Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo. Pensate all’attualità di queste parole. Ma le parole di Gesù nel vangelo di oggi, e che, tra l’altro, sono le parole finali del discorso missionario che occupa tutto il capito decimo di Matteo e che abbiamo commentato nell’incontro di catechesi per gli adulti che abbiamo fatto giovedì scorso, ci fanno compiere un passo in avanti ancora più interessante. Si rivolge ai suoi discepoli che egli aveva mandato in missione e dice: chi accoglie voi accoglie me, chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato e non perderà la sua ricompensa. La missione dei discepoli è la stessa missione che Gesù ha ricevuto dal Padre, quella di annunciare il Regno di Dio, e il Regno di Dio è quando io sento di essere figlio amato dal Padre come ogni altro uomo, e quindi imparo a considerare l’altro come mio fratello, capace di ospitarlo nella mia vita, e lo faccio con i fatti, prima che con le parole. Solo vivendo la fraternità che si traduce in ospitalità io annuncio la paternità di Dio. Così ha fatto Gesù, e così Gesù chiama i suoi discepoli a fare. Ma il Regno di Dio si costruisce quando l’accoglienza è reciproca, non solo quando io accolgo qualcuno, ma quando l’altro accoglie me. Non a caso, Gesù aveva mandato i suoi discepoli in missione da poveri, senza che portassero nulla con sé, perché altrimenti gli altri li avrebbero accolti non come fratelli, ma per avere le loro cose, anche a rischio di venire per questo rifiutati. Del resto, è più facile dare un euro in elemosina a chi troviamo fuori di chiesa oppure perdere del tempo con quella persona per conoscerla e farsi accogliere come fratello anziché come distributore di denaro? Naturalmente è più facile limitarsi a dare qualcosa. Il rischio è che quella persona poi di dica: guarda che a me interessa solo che tu mi dia qualche euro. Ebbene, dice Gesù in modo perentorio, se non venite accolti, andate da un’altra parte. Perché il regno di Dio si costruisce quando l’accoglienza è reciproca. Perché anche qui, guardate come è interessante andare all’origine delle parole: sia in latino, sia italiano (andate a vedere sul dizionario), “ospite” non è solo chi dà ospitalità, ma anche chi la riceve, e non è dare agli altri qualcosa, ma sé stessi. E questi altri, non dimentichiamolo, sono anche i componenti di una famiglia, i vicini di casa, i membri di una comunità cristiana come la parrocchia, i compagni di scuola o i colleghi di lavoro. Ma perché mai dovremmo vivere così, chi ce lo fa fare, qual è la ricompensa che ne abbiamo? A questa domanda che tutti ci facciamo è Gesù stesso a rispondere. Se noi siamo figli, la ricompensa è che solo vivendo come fratelli realizziamo la nostra umanità. Figli di Dio siamo tutti, ma figli non si nasce, ma si diventa, e lo si diventa se si vivono relazioni di fraternità. Questa è la salvezza. Dio, del resto, il “diverso” da noi per eccellenza, come ci ha salvato? Facendosi come noi e chiedendo a sua volta di essere ospitato: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3, 22).