domenica 19 gennaio 2020

II DOMENICA DOPO EPIFANIA

Quello di oggi è uno degli episodi del vangelo più difficili di tutti, dove ogni parola e ogni frase va capita bene, altrimenti diventa una barzelletta e a qualcuno potrebbe far perdere la fede, perché, se lo si legge in modo letterale, viene fuori che c’è un matrimonio, manca il vino e Gesù, dopo un dialogo un po’ strano e maleducato con sua mamma, si lascia convincere da lei a trasformare seicento litri
d’acqua in seicento litri di vino di grande qualità, per gente che già era ubriaca, per cui anche noi, se vogliamo ottenere qualcosa da Dio, dobbiamo rivolgerci alla Madonna se no il Signore non ci ascolta. Quel che è peggio è che al termine c’è scritto che così Gesù dimostrò la sua gloria, cioè di essere Dio. Al che sembrerebbe che Dio sia un prestigiatore, e uno si domanda perché Dio, di fronte ai drammi e alle tragedie dell’umanità, non dimostri la sua gloria facendo ben altri miracoli. Ora non possiamo spiegarlo nei minimi particolari, però possiamo provare a dare qualche indicazione che ci aiuti a comprenderlo bene. Anzitutto la scena si svolge durante un matrimonio ed è singolare che non si parli degli sposi, che infatti non vengono nemmeno nominati. Il motivo è che l’evangelista vuole descrivere il rapporto tra Dio e Israele perché, nell’Antico Testamento, l’alleanza tra Dio e il suo popolo era raffigurata come un matrimonio nel quale Israele era la sposa e Dio era lo sposo. L’unico personaggio che in tutto l’episodio viene chiamato col suo nome è Gesù, quindi vuol dire che tutti gli altri sono personaggi anonimi, e quindi simbolici, come gli sposi, appunto, e come Maria: anche lei non viene chiamata col suo nome, ma viene chiamata madre e donna. Madre di Gesù per indicare che Gesù proviene da Israele. Ma Gesù si rivolge a lei chiamandola “donna”, e non esiste che un figlio chiami così sua madre. La chiamerà donna anche dalla croce. “Donna” significa sposa, quindi Maria rappresenta il popolo di Israele, ma non tutto il popolo, bensì il popolo di Israele rimasto fedele all’alleanza d’amore col Signore. Vuol dire che c’è una parte di Israele che vive col Signore un rapporto d’amore come tra due sposi, e un'altra parte no. Infatti Maria non dice a Gesù “non abbiamo più vino”, ma “non hanno vino”, e il vino è il simbolo dell’amore tra gli sposi. Se ne accorge lei, non colui che dirigeva il banchetto, il maestro di tavola, anch’egli innominato, perché costui rappresenta le autorità di Israele, che per mantenere il potere avevano inculcato nel popolo l’idea non di un Dio sposo, un Dio d’amore, ma di un Dio tremendo che vuole che tutti obbediscano alle sue Leggi, se no punisce e castiga, per cui ogni cosa, anche la più piccola, è un peccato dal quale purificarsi, e infatti si stupisce, quando assaggia il vino dato da Gesù, che tutti abbiano ricevuto un vino così buono. Le anfore sono sei, un numero che nella Bibbia indica l’uomo, creato il sesto giorno, e chiamato a raggiungere la perfezione il settimo giorno, in una comunione d’amore con Dio, lo sposo. Le anfore sono di pietra, perché rappresentano i comandamenti, scritti su tavole di pietra, che avevano fatto diventare il rapporto con Dio non un rapporto d’amore come tra due sposi, ma qualcosa di angosciante, per cui c’era sempre bisogno di lavarsi con l’acqua che contenevano per purificarsi da tutte le trasgressioni. Infatti le anfore servivano per la purificazione. Ma erano vuote, perché? Perché sono inutili. Gesù fa vedere che Dio non guarda i meriti delle persone, ma i loro bisogni. L’amore di Dio non è qualcosa da meritare con i propri sforzi: non ci riuscirà mai nessuno, c’è sempre un peccato in agguato. Non siamo noi a doverci purificare per entrare in comunione con Dio, ma è Dio che col suo amore ci purifica. Ecco perché quando Maria dice a Gesù “non hanno più vino”, Gesù le risponde “che vuoi da me?”. Questa espressione ha due significati. Da un lato era una frase che faceva parte del linguaggio diplomatico dell’epoca, quando due alleati volevano ricordarsi a vicenda di essere fedeli agli impegni presi, quindi non è una frase scontrosa, come potrebbe apparire se non si conoscono questi particolari, ma è il contrario: Gesù vuol dire che sa bene che Dio si è impegnato ad essere sempre alleato fedele del suo popolo, è il popolo semmai a non essere fedele. Ma vuole anche dire “non mi interessa”, perché Gesù non è venuto per mettere pezze nuove su un vestito vecchio, ma a far nuove tutte le cose, a fare un’alleanza nuova, eterna, nella quale Dio non è un sovrano a cui obbedire osservando delle Leggi che nessuno riesce ad osservare, pena la morte, ma è uno sposo che dona il vino del suo amore, offerto a tutti, indipendentemente dai loro meriti. Un vino da accogliere, da bere, perché sia il suo amore a trasformare la nostra vita. Infatti Gesù aggiunge: “non è ancora giunta la mia ora”, perché nel vangelo di Giovanni, l’ora in cui Gesù darà il vino dell’amore di Dio è quella sulla croce, dove darà a tutti il suo Spirito, capace di trasformarci dal di dentro. Al che la madre dice ai servi: “Qualunque cosa vi dica, voi fatela!”. E lo ripete anche a noi oggi. I casi sono due: o impariamo a vivere il rapporto con Dio come ci ha insegnato Gesù, un rapporto d’amore, o altrimenti andiamo avanti tutta la vita a vivere la fede con angoscia o come un di più. Ecco perché la scena descritta da questo vangelo non è un miracolo. Giovanni lo chiama “segno”, il primo segno col quale Gesù manifestò la sua gloria. Dopo quella davanti ai Magi e durante il suo Battesimo al Giordano celebrato domenica scorsa, questa è la terza Epifania del Signore, perché con questo segno Gesù mostra fin dall’inizio della sua missione che la gloria di Dio è il suo amore smisurato verso ogni uomo, quale che sia la sua situazione o il suo comportamento, e sarà sulla croce che questo amore si manifesterà in pienezza. Un amore che in ogni Eucaristia ci viene continuamente donato.