domenica 4 ottobre 2020

VI DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI

La scena descritta dal primo capitolo del libro di Giobbe, un uomo giusto al quale però ne capitano di tutti i colori, rispecchia molto i sentimenti di tanta gente innocente che vive situazioni tragiche e drammatiche, ma anche quella che facciamo un po’ tutti quando la vita picchia duro, le cose vanno 

storte, ci si imbatte nell’ingiustizia, capitano malattie o morti improvvise, e chi più ne ha più ne metta. Ebbene, in questi momenti, c’è chi reagisce come Giobbe, dicendo: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore! Ma c’è anche chi invece si mette a bestemmiare Dio, oppure perde la fede, perché si chiede: ma se Dio è buono e onnipotente perché non agisce? Magari c’è chi dice: me lo merito, è un castigo che Dio mi sta dando per punirmi o per correggermi. Però, quando te ne capitano di tutti i colori e, onestamente, non ti sembra di essere una persona che si merita certe prove, allora viene da dire: ma perché proprio a me e non a quelli che invece fanno davvero del male e ai quali, invece, va tutto bene? Se noi andassimo avanti a leggere il libro di Giobbe senza fermarci al primo capitolo, ci accorgeremmo che se all’inizio Giobbe sembra paziente e rassegnato, poi invece diventa impaziente, si arrabbia col Signore e gli chiede il perché di tutto quello che gli è capitato. Ebbene, Gesù, con la brevissima parabola che abbiamo ascoltato nel vangelo di questa domenica, ci fa capire perché è sbagliata la prospettiva con la quale guardiamo le cose. E’ una parabola irritante perché Gesù paragona Dio a un signore che, quando il suo servo, dopo una giornata di lavoro nei campi, torna a casa, anziché ringraziarlo e farlo sedere a tavola a mangiare, si mostra non solo ingrato, ma gli dice: “prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu”. Qui Gesù sta descrivendo esattamente il modo col quale noi ci rapportiamo con Dio. Noi pensiamo che Dio sia come un sovrano onnipotente e noi i suoi sudditi o, se volete, che Dio sia come un datore di lavoro e noi i servi che lavorano per lui e che, se lavorano bene, hanno diritto a ricevere la giusta paga per le loro fatiche. Pertanto, se dopo aver lavorato tutto il giorno, invece di sentirsi dire “grazie” e ricevere lo stipendio, si sentono dire certe cose, giustamente, come minimo, si arrabbiano. Oggi ci sono i sindacati che tutelano i diritti dei lavoratori, a quei tempi non c’erano, e comunque, se il datore di lavoro è Dio in persona, non c’è sindacato da cui andare a protestare. E’ per questo che, quando sembra che Dio sia ingrato e ingiusto, ci si rivolge alla Madonna o ai Santi, perché ci sembrano gli unici sindacalisti in grado di poter far qualcosa. Uno dice: vengo a messa, prego, cerco di fare il bene, faccio tutte queste cose per te, Signore, adesso mi aspetto una ricompensa per i miei sforzi e sacrifici, e non che esca di chiesa e mi cada una tegola sulla testa. Questo perché, ripeto, si vive il rapporto con Dio come un contratto di lavoro, un “do ut des”, prestazione per prestazione: io ti obbedisco e ti servo, quindi mi merito il giusto stipendio, e giustamente mi arrabbio se non lo ricevo. Ebbene questo è l’errore che facciamo, il peccato originale, il peccato del mondo da cui Gesù viene a liberarci, quello che porta molti ad andare in crisi di fede: pensare Dio in questo modo. Gesù farà vedere che Dio non è niente di tutto ciò. Anzi. Nell’ultima cena Gesù dirà: “Ecco io sono in mezzo a voi come colui che serve”. E poco prima ne aveva raccontata un’altra la parabola di quel signore che tornava di notte nella sua casa e, trovando i servi ancora in piedi, invece di farsi servire da loro si mette lui a servirli. Cioè, la novità portata da Gesù è che Dio non chiede di essere servito dagli uomini, ma è Dio che si mette lui a servizio degli uomini, a servizio della nostra gioia. In che modo? Facendoci un unico dono: lo Spirito santo, lo Spirito del Figlio che ci fa sentire amati dal Padre e ci rende capaci, come Gesù, di amare i fratelli, e di avere in noi la stessa vita di Dio che non finirà mai. Dio è come una cascata che continua a fornire acqua limpida e pura al fiume che sgorga da essa. Tutto quello che io devo fare è continuare ad abbeverarmi a questa fonte, altrimenti muoio. Che poi intorno al fiume della vita ne possano capitare di tutti i colori, questa è la vita, che è fatta così, non è colpa della cascata. Anzi, meno male che c’è questa cascata. Quindi Gesù, con questa breve parabola, sta dicendo una cosa che, se riusciamo a capirla, riesce a cambiare totalmente il nostro modo di vedere le cose. Che Dio non è appunto un sovrano a cui obbedire e noi i suoi servi, ma un Padre dal quale accogliere l’amore che ci dona; non è un datore di lavoro, che premia o che castiga a seconda di come ci comportiamo, perché Dio è solo amore, e l’amore si riversa su tutti, buoni o cattivi, indipendentemente dai loro meriti: sta a noi accogliere o meno il suo amore e usarlo. Per cui, se io sono andato a Messa, se ho pregato, se ho fatto del bene, non è per far piacere a Dio e ottenere da lui una ricompensa, come se Dio fosse in debito con me e sia lui a dovermi ringraziare. Queste cose vanno fatte perché fanno bene a me, sono il modo col quale bere l’acqua di Dio, sono il suo dono per avere poi la forza di affrontare in un modo nuovo la vita con tutto quello che la vita mi offrirà, nel bene e nel male. Dio posso sempre e solo ringraziarlo per l’acqua che continua a fornirmi anche in mezzo ai disastri della vita. Ecco perché Gesù conclude la parabola dicendo che, dopo aver fatto quello che devo fare, non solo non devo arrogare pretese o arrabbiarmi col Signore se poi le cose vanno male. Sarebbe come arrabbiarsi con la Croce Rossa che viene in mio soccorso come se fosse colpa della Croce Rossa se io sto male. Piuttosto devo dire: “sono un servo inutile”. Anzi, no, perché “inutile” è una traduzione sbagliata: se ho fatto quello che dovevo fare non sono inutile. La traduzione corretta è: “sono semplicemente un servo, ho fatto quel che dovevo”. Attenzione, non servo di Dio, perché Gesù dirà appunto che non siamo servi di Dio, è Dio che serve noi. Sono servo degli altri: lo scopo della mia vita è farmi volontariamente, come Gesù, servo degli altri, cioè imparare a non pensare a me stesso, ma ai bisogni degli altri, ma non per far piacere a Dio e ottenere la sua ricompensa, bensì perché questo è l’unico modo per vivere bene la vita. Così come se bevo l’acqua della cascata non è per far piacere alla cascata, ma perché senz’acqua muoio.