venerdì 9 aprile 2021

TRIDUO PASQUALE 2021

INTRODUZIONE AL PRIMO GIORNO DEL TRIDUO

Da stasera fino a domenica riviviamo la passione, morte e risurrezione di Gesù, con un’unica celebrazione divisa in tre tempi. Il primo tempo è stasera e dura fino a domani pomeriggio. Gesù istituisce l’eucaristia, e infatti stasera celebriamo la messa. Nel segno dell’eucaristia Gesù anticipa la

sua morte in croce che celebriamo domani pomeriggio: è per questo che domani non si celebra la messa, ma annunciamo la sua morte adorando la croce. Quella di stasera e di domani pomeriggio sono un’unica celebrazione, un unico giorno, il primo giorno del triduo. Poi, dopo l’annuncio della morte del Signore inizia il secondo giorno erò, quando domani tutto tacerà e ogni luce verrà spenta, presso il sepolcro, dove al termine di questa Messa riporremo l’Eucarestia, la lampada continuerà a restare accesa, perché noi domani celebriamo la morte di colui che è per sempre vivo in mezzo a noi nel sacramento del suo corpo e del suo sangue.  E infatti, sabato sera torniamo a celebrare l’eucaristia dopo aver proclamato la risurrezione di Gesù.

MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE

Il triduo pasquale che iniziamo stasera si apre, come tutti gli anni, facendoci riascoltare la storia di Giona perché, fin dall’antichità, i primi cristiani la interpretarono come prefigurazione della passione, morte e risurrezione di Gesù che celebriamo da stasera fino a domenica. Giona fu un profeta di Israele, ma il libro di Giona è una favola, che però trova posto nella Bibbia perché vuole insegnare delle verità di fede fondamentali, un po’ come quella di Pinocchio che ha tratto ispirazione da questo racconto. Questo racconto fu scritto quando gli ebrei, 600/500 anni prima di Cristo, furono massacrati e portati in esilio non da Hitler, ma dagli assiri e poi dai babilonesi, e loro desiderio, tornati dall’esilio, era che Dio li vendicasse sterminando questi popoli. Non solo, sentendosi il popolo eletto, erano diventati fondamentalisti e nazionalisti: Dio ama solo noi, ci siamo prima noi, abbasso gli stranieri (non sono frasi nuove, come vedete). La stessa mentalità che c’era ai tempi di Gesù durante l’occupazione romana. Per fortuna qualcuno scrisse questo racconto controcorrente. Giona viene chiamato da Dio ad andare proprio nella tana del leone, a Ninive, la città assira nemica, per annunciare che se i suoi abitanti non si fossero convertiti smettendo di compiere il male, Dio li avrebbe uccisi tutti. E Giona si rifiuta: non vuole che i nemici del suo popolo abbiano questa chance, gli dà fastidio, preferisce morire piuttosto che fare questa cosa, fugge lontano da Ninive, lontano da Dio, è accecato dal risentimento, si mette nella parte più bassa della barca su cui era salito, preferisce dormire anche se si era scatenata una tempesta, non prega nemmeno Dio di salvarlo, a differenza dei marinai che erano pagàni e invocavano i loro dei, e alla fine giunge nel posto più lontano da Dio che si potesse immaginare, nella pancia di una balena, che rappresenta il regno dei morti. Chi scrisse questo racconto voleva annunciare la misericordia di Dio verso tutti e denunciare la mentalità razzista di quel tempo dicendo che chi ragiona e vive così è lontano da Dio che è sommo amore, perché Dio non ha nemici, ma solo figli da amare. Che è quello che insegnò Gesù. E infatti i suoi discepoli, lo abbiamo visto, si comportarono esattamente come Giona: si addormentarono nell’orto, lo tradirono, lo rinnegarono, lo abbandonarono non perché avessero paura, ma perché non accettavano che egli andasse a Gerusalemme per essere ucciso invece di cacciare i romani. Che Dio sia solo amore e non possa far altro che amare è qualcosa di così sconvolgente che non è ancora chiaro a troppi cristiani, quelli che dicono, si, Dio è buono, ma, c’è sempre un però, invece non c’è nessun però. Ma Giona non rappresenta solo i discepoli di Gesù e quindi anche noi: è anche segno di Gesù crocifisso e risorto. Fu lui stesso a dirlo: “Come Giona rimase tre giorni nel ventre del pesce, così il FdU resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra”. Giona rappresenta contemporaneamente sia noi con le nostre resistenze, sia Gesù capace di vincerle. Gesù non ha paura a identificarsi anche in Giona quando si trova nel ventre del pesce, che rappresenta la morte, il punto più lontano da Dio, per mostrare che l’amore di Dio è più forte anche della morte, è capace di raggiungerci anche lì, per tirarci fuori, per farci risorgere. Non solo quando sarà morto il nostro corpo, ma adesso, perché se non capiamo queste cose, se pensiamo che l’amore sia un merito, e non un dono, l’unico dono davvero necessario per vivere la nostra umanità, siamo morti già adesso. Per questo celebriamo l’eucaristia: noi siamo qui per nutrirci di questo amore così grande che ci faccia risorgere e diventare veri uomini e donne a immagine di Gesù capaci di affrontare gli eventi belli e brutti della vita e le relazioni con gli altri in un modo nuovo, con lo stesso sguardo d’amore di Dio. Vedete perché dicevo che nel racconto di Giona c’è dentro tutto quello che celebriamo nel triduo pasquale? E noi dobbiamo identificarci oggi e domani in tutti i Giona di cui parla il vangelo, poi sabato sera e domenica con le donne al sepolcro per chiederci non cosa avremmo fatto o come avremmo reagito noi al loro posto, ma come reagiamo noi oggi, adesso, di fronte al mistero della Pasqua, cioè di fronte alla rivelazione dell’amore smisurato di Dio che Gesù ci ha rivelato, di un amore così grande amore capace di vincere non solo le nostre resistenze e il nostro peccato, ma addirittura la morte. Se questa cosa ci illumina e ci fa risorgere o, in fondo in fondo, continua a darci un po’ fastidio.


CELEBRAZIONE DELLA PASSIONE E MORTE DEL SIGNORE

Sono tante le suggestioni, i sentimenti, le risonanze che, dopo l’ascolto della conclusione secondo Matteo che abbiamo iniziato nella Messa di ieri sera, risuonano nella mente e nel cuore. Impossibile raccoglierle tutte, almeno per me. Ogni versetto di questo racconto, e anche delle pagine del profeta Isaia, andrebbe commentato, e l’ho fatto già l’anno scorso, in alcuni video ancora visibili, quando non potevamo uscire di casa, e in quelli dove in questa Quaresima ho spiegato invece la Passione secondo Marco. Vorrei allora quest’anno, adesso, soffermarmi anzitutto sul grido di Gesù crocifisso: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Un grido che nel corso della storia dell’umanità è stato lanciato da milioni e milioni di esseri umani in tante circostanze drammatiche e tremende della vita, e che in quest’anno di pandemia hanno certamente rivolto al Signore migliaia e migliaia di uomini e donne colpite dal virus. Ma è un grido che, sulla bocca di Gesù, appare sconcertante, perché se da un lato fa sentire Gesù solidale con tutto il dolore del mondo, dall’altro lato lascia esterrefatti proprio perché in bocca a Gesù, il Figlio stesso di Dio che si sente abbandonato da Dio: com’è possibile? Proprio Gesù che non aveva fatto altro che predicare una piena fiducia nel Padre, dicendo: non preoccupatevi per quelli che possono ammazzare il corpo; e poi Gesù che si era sempre rivolto a Dio chiamandolo Padre, qui non lo chiama Padre, ma Dio. Tenete presente che gli evangelisti raccontano tutti la medesima scena della crocifissione, ciascuno però a modo suo, mettendo in bocca a Gesù parole e frasi che compaiono in un vangelo e non compaiono in un altro, in totale 7 parole. Il vangelo di Marco, il primo, il più antico, la fonte da cui tutti gli altri evangelisti hanno antico, riporta solo una di queste parole, che compare anche e solo nel vangelo di Matteo che la liturgia ambrosiana ci fa leggere ogni anno. Ebbene, Dio mio perché mi hai abbandonato?, sono le parole con le quali inizia il salmo 22, quindi Gesù sta pregando il salmo 22 e, secondo la tradizione giudaica, quando si citava l’inizio di un salmo, l’orante intendeva abbracciare tutto il testo. Ed è su questo salmo che è costruito il racconto della Passione, tanto è vero che, prima, nel salmello tra le due pagine di Isaia, ne abbiamo letto alcuni versetti e, tra poco, quando faremo l’adorazione della croce, ne leggeremo degli altri, a partire proprio dal primo versetto. Un salmo molto lungo che è una grande lamentazione di un uomo giusto condannato ingiustamente e che si sente disperato, abbandonato da Dio nel momento supremo della prova, quando Dio appare lontano e assente, come un imperatore seduto pacifico sul suo trono indifferente alle nostre lacrime, e allora l’orante cerca di provocare questo Dio muto di fronte alle terribili sofferenze del suo fedele che non si sente più un uomo, ma un verme, calpestato nella sua dignità a causa dei suoi nemici, definiti come tori, leoni, cani, bufali. E quando dopo andremo a cantarlo per intero, noterete quanti versetti di questo salmo scritto tanti anni prima sono la descrizione di quello che accadde a Gesù nel momento della sua Passione e della sua morte. Ma verso la fine, questa preghiera di disperazione diventa piena di luce: l’orante ringrazia e loda Dio che si schiera sempre dalla parte delle vittime: ma tu Signore, non stare lontano, affrettati in mio aiuto; Tu mi hai risposto!; annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, perché non hai disprezzato né disdegnato l'afflizione del povero, non gli ha nascosto il tuo volto, ma hai ascoltato il suo grido di aiuto. Quindi, vedete, per capire questo grido di Gesù, dobbiamo leggere per intero tutto il salmo, perché Gesù, citando l’inizio (Dio mio perché mi hai abbandonato), Gesù lo vuole comprendere tutto, e quindi sono parole di fiducia, non di disperazione, fiducia in Dio nel momento massimo in cui si potrebbe perdere ogni speranza, essere appunto disperati. Il punto è che Gesù è l’uomo-Dio: come è possibile dunque che proprio lui possa pregare con un salmo che comincia col grido di chi si sente abbandonato da Dio? Vedete, nella vita c’è sempre chi fa il male e chi lo subisce (e tutti, a seconda dei casi, siamo a volte vittime a volte carnefici), ma il male lo sente sempre e solo chi lo subisce, non chi lo fa. Se io ti schiaccio un piede, il male lo senti tu, non io. E il male verso gli altri uomini lo fanno quelli che abbandonano Dio, perché Dio è amore, e chi lo abbandona non ha più amore dentro di sè. E chi subisce il male, a sua volta si sente abbandonato da Dio. Ma se Dio è Gesù, Gesù in quel momento prova su di sé tutto il male del mondo, delle vittime e dei carnefici, di chi si sente abbandonato da Dio e di chi abbandona Dio. Per questo diciamo che Cristo è morto per tutti. E come risponde? Non risponde restituendo il male, ma spirando, cioè donando il suo Spirito di vita, quindi di amore, per tutti. Sulla croce Gesù rivela in modo definitivo chi è Dio. E’ onnipotente, si, ma nell’amore, perché il suo amore può vincere la disperazione di chi si sente abbandonato perché subisce il male e donare amore a chi fa il male perché ha abbandonato Dio. Non ci ama togliendo il male o la libertà della creazione, ma standoci dentro lui, fino alla fine. Dalla croce, che è il suo trono, Dio emette il suo tremendo giudizio, giudicando tutti come suoi figli amati. E così ci libera dal peccato del mondo, cioè da quel modo sbagliato di pensare Dio come mago tappabuchi a cui rivolgerci perché ci risolva i problemi, col quale arrabbiarsi quando non lo fa, che premia chi è bravo e castiga chi è cattivo. No, la croce rivela che questo Dio non esiste. Questo è lo spettacolo della croce che siamo chiamati a contemplare quest’oggi. Ma perché avere fiducia in un Dio così apparentemente impotente, dal momento che, pur confidando in lui, i nostri problemi restano, ammalarci continuiamo ad ammalarci e morire continuiamo a morire? Per due motivi. Primo perché questo Dio ci permette di affrontare tutta la vita con uno sguardo e una forza nuova, che anche in mezzo al male che uno subisce o ai dolori che deve sopportare, ci riempie del suo amore perché impariamo sempre a compiere il bene. Secondo, perché imparando a compiere il bene, sempre, in ogni circostanza, preoccupandoci non di noi stessi, ma degli altri, come ha fatto Gesù, veniamo riempiti della sua stessa vita divina, e diventiamo come Dio, siamo destinati non a finire nel sepolcro, ma a risorgere, a vivere per sempre, già da adesso e dopo la morte del nostro corpo, come è accaduto a Gesù, e come proclameremo domani sera.


INTRODUZIONE AL SECONDO GIORNO DEL TRIDUO

Da questo momento termina il primo giorno del Triduo pasquale iniziato ieri sera, e comincia il secondo giorno che continua domani fino al momento in cui ci sarà la Veglia. Con la Veglia pasquale inizia il terzo giorno, che dura per otto giorni, il numero che è simbolo di risurrezione, l’ottava di Pasqua, per indicare che Cristo è vivo per sempre. In questo secondo giorno la Chiesa contempla Gesù nel sepolcro e dunque la sua discesa agli inferi. Gli inferi non sono l’inferno, ma indicano il regno dei morti, dove gli ebrei credevano che finissero le anime dei morti in attesa della risurrezione. La sepoltura di Gesù è forse ancora più importante della sua morte, perché in quel modo è morto solo Gesù, ma nel sepolcro ci finiamo tutti, quindi nel sepolcro Gesù diventa come tutti noi diventeremo e nessuno vuole diventare. Se tutta la Bibbia racconta la passione di Dio per l’uomo, di questo Dio che va in cerca dell’uomo, è proprio nel sepolcro che incontra tutti gli uomini, perché tutta l’umanità è fatta di mortali già morti o non ancora morti, perché siamo tutti mortali. Il sepolcro è il luogo del convegno di tutta la storia: Gesù incontra Adamo che era arrivato per primo, incontra Giuda che è arrivato da poco, incontra tutta l’umanità. Se non entrasse nel sepolcro, nessuno potrebbe salvarsi, perché entrando nel sepolcro egli, risorgendo, dona la vita a tutti, a coloro che sono venuti prima di lui o dopo di lui, che lo abbiano conosciuto o no, che abbiano creduto in lui o no: basta che abbiano vissuto nella loro vita anche solo una briciola dell’amore che Dio da sempre ha infuso e continua a infondere in ogni uomo. Chi vive così la propria vita terrena è già risorto ora, ha già dentro di sé la stessa vita di Dio che non muore mai, e fa si che a morire sia solo il corpo. La risurrezione non è una promessa per il futuro, ma una realtà presente, di cui fanno esperienza quelli che aderiscono a Cristo in questa vita terrena e di cui godranno pienamente dopo la morte del loro corpo. Così dobbiamo vedere la morte. Così dobbiamo guardare i nostri defunti, non come morti, ma come viventi; non come “assenti”, che “non ci sono più”, ma come presenze vive che, insieme a Cristo, ci accompagnano. A questo il Dio di Gesù chiama ciascuno di noi. E’ questo il suo volere. E’ questa la gioiosa notizia del Vangelo. A noi spetta solo rispondere accogliendo il suo Spirito di vita e lasciandoci da esso guidare per poter un giorno godere anche noi la pienezza della risurrezione. Questo è ciò che il secondo giorno del Triduo pasquale ci invita a contemplare.

INIZIO DEL TERZO GIORNO DEL TRIDUO

VEGLIA PASQUALE

La risurrezione di Gesù è il punto fondamentale della nostra fede dei credenti perché, come dice san Paolo, se Cristo non è stato risuscitato, la nostra fede è inutile. Fede vuol dire fiducia, fidarsi. È come per i vaccini. Chi si fida di quello che dice la comunità scientifica si vaccina, chi non si fida non si vaccina. Tutta la vita è un atto di fede. Senza fede non si vive. Per capire se la fede è ben riposta, occorre vedere i risultati, se sono buoni o no. Lo stesso vale per la risurrezione di Gesù. E’ davvero risorto o no? La risposta non la danno né la scienza né le prove scientifiche che non ci sono. La risposta definitiva l’avremo solo quando saremo morti. Ma per adesso la risposta può essere data solo da ciascuno di noi, in base a che cosa? Ai risultati, come il vaccino. E cioè: se credere che Gesù è risorto mi cambia la vita, allora vuol dire che Gesù è risorto, altrimenti credere che Gesù è risorto è uguale a credere che Giulio Cesare è morto alle idi di marzo. A me, sapere questa verità storica, non cambia niente nella mia vita, non so a voi, la mia vita va avanti uguale anche se fosse morto a maggio. Se la mia vita va avanti uguale pur dicendo di credere che Gesù è risorto, è la stessa cosa. La riprova è che nessun evangelista ha raccontato il fatto della risurrezione di Gesù, ma ha cercato di spiegare in che modo noi possiamo sperimentare nella nostra vita che Gesù è risorto. Per gli evangelisti le apparizioni del Risorto non sono un privilegio concesso duemila anni fa a qualche decina di persone, ma una possibilità per i credenti di tutti i tempi. Nell’ottava di Pasqua, che comincia oggi e finisce non il lunedì dell’angelo, ma domenica prossima, come se fosse un unico grande giorno, la liturgia ci fa leggere i vangeli della risurrezione per scoprire quali sono le indicazioni di ogni evangelista. Domani mattina vedremo cosa racconta l’evangelista Giovanni, e così via nei prossimi giorni dell’ottava. Stasera abbiamo ascoltato la versione di Matteo che conclude il racconto della Passione ascoltato ieri e l’altro ieri. Stasera abbiamo ascoltato però solo l’inizio del  suo racconto, quando le donne vanno al sepolcro e lo trovano vuoto. Ma la prova che Gesù è risorto non è questa. Alle donne viene detto che Gesù risorto i suoi discepoli lo avrebbero visto in Galilea. E se andassimo avanti a leggere cosa racconta Matteo, scopriremmo che essi lo incontrarono in Galilea su un monte. Questo monte è quello dove Matteo ha raccontato gli insegnamenti di Gesù, il monte delle beatitudini. Cosa vuol dirci allora Matteo? Che la prova che Gesù è risorto è quando noi, accogliendo il messaggio di Gesù, fidandoci di quello che ha detto e mettendolo in pratica, siamo beati, siamo cioè risorti noi. Cosa vuol dire siamo risorti noi? Vuol dire che il nostro modo di vedere le cose e di vivere la vita, e anche la morte, sono cambiati in meglio: siamo morti al nostro egoismo, viviamo per il bene degli altri e, in tutto questo, siamo riempiti di gioia, di pace, di fiducia anche in mezzo a tutte le avversità della vita. Non dobbiamo uscire di chiesa e andare a convincere gli altri Gesù è risorto. La prova che Gesù è risorto è se noi, tutte le volte che partecipiamo all’eucaristia, usciamo diversi da come siamo entrati. Vedete dunque come la risurrezione non è qualcosa che riguarda Gesù e basta, altrimenti non avrebbe senso. E non è nemmeno qualcosa che riguarda solo la vita dopo la morte, ma ci riguarda adesso. Se siamo risorti adesso, lo saremo anche dopo la morte del nostro corpo: questo il grande annuncio della Chiesa che continua a risuonare ancora dopo oltre 2000 anni. Noi crediamo non solo che Gesù è risorto, ma crediamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Anzi, crediamo la risurrezione della carne. Cosa vogliono dire queste espressioni? Che noi risorgeremo col corpo che viene cremato o messo sotto terra? San Paolo parla di un corpo spirituale, che è una cosa strana, un po’ come se dicessimo una curva diritta, un fuoco freddo o un sasso di legno. Del resto sta cercando di dire una cosa per la quale non ci sono parole. In questa vita, senza la carne, senza un corpo, la nostra persona non esisterebbe, come qualunque altra cosa. Allora, per corpo di carne spirituale Paolo intende che con la morte del nostro corpo, la nostra persona, la nostra identità, continuerà a sussistere, non moriremo mai, ma saremo come Dio, se fin da adesso, però, avremo vissuto come Gesù, col profumo del suo amore.


DOMENICA DI PASQUA

La risurrezione di Gesù è il punto fondamentale della nostra fede dei credenti perché, come dice san Paolo, se Cristo non è stato risuscitato, la nostra fede è inutile. Fede vuol dire fiducia, fidarsi. È come per i vaccini. Chi si fida di quello che dice la comunità scientifica si vaccina, chi non si fida non si vaccina. Tutta la vita è un atto di fede. Senza fede non si vive. Per capire se la fede è ben riposta, occorre vedere i risultati, se sono buoni o no. Lo stesso vale per la risurrezione di Gesù. E’ davvero risorto o no? La risposta non la danno né la scienza né le prove scientifiche che non ci sono. La risposta definitiva l’avremo solo quando saremo morti. Ma per adesso la risposta può essere data solo da ciascuno di noi, in base a che cosa? Ai risultati, come il vaccino. E cioè: se credere che Gesù è risorto mi cambia la vita, allora vuol dire che Gesù è risorto, altrimenti credere che Gesù è risorto è uguale a credere che Giulio Cesare è morto alle idi di marzo. A me, sapere questa verità storica, non cambia niente nella mia vita, non so a voi, la mia vita va avanti uguale anche se fosse morto a maggio. Se la mia vita va avanti uguale pur dicendo di credere che Gesù è risorto, è la stessa cosa. La riprova è che nessun evangelista ha raccontato il fatto della risurrezione di Gesù, ma ha cercato di spiegare in che modo noi possiamo sperimentare nella nostra vita che Gesù è risorto. Per gli evangelisti le apparizioni del Risorto non sono un privilegio concesso duemila anni fa a qualche decina di persone, ma una possibilità per i credenti di tutti i tempi. Nell’ottava di Pasqua, che comincia oggi e finisce non il lunedì dell’angelo, ma domenica prossima, come se fosse un unico grande giorno, la liturgia ci fa leggere i vangeli della risurrezione per scoprire quali sono le indicazioni di ogni evangelista. Oggi abbiamo ascoltato uno dei racconti di Giovanni, perché Giovanni, come Luca, non racconta solo questo episodio. Non entro nei particolari perché è un brano molto complesso. Mi limito da dire queste cose. È tutto un racconto giocato sugli sguardi e sulle parole. La Maddalena è chiamata donna, che vuol dire sposa, e rappresenta la comunità cristiana, la Chiesa sposa di Cristo che ha creduto in Gesù. Lei guarda il sepolcro e piange. Sente la voce di un uomo che le chiede perché piange, allora si volta, ma non riconosce che è Gesù, perché per lei Gesù è morto stecchito. Non si era fidata di quello che Gesù aveva detto quando era vivo. Poi torna a guardare il sepolcro, e quando Gesù la chiama per nome, si volta di nuovo verso quell’uomo, lo riconosce e smette di piangere. Vorrebbe trattenerlo, ma Gesù le dice di no, ma di andare a dire ai fratelli che lui è risorto. Sono tutte indicazioni per dire: se smettiamo di guardare il sepolcro, cioè le nostre paure, pensando che la morte sia la fine di tutto, e impariamo a fidarci della sua voce, cioè della sua Parola, ci accorgeremo che la vita non finisce nel sepolcro, e smetteremo di piangere. Sta a noi scegliere, ecco la fede di cui parlavo all’inizio: o scegliamo di credere nelle nostre paure, o crediamo in quello che ha detto lui, e allora smetteremo di piangere. Dipende da noi. Ieri sera, invece, nella Veglia, abbiamo letto il racconto di Matteo. Quando le donne vanno al sepolcro, quindi non solo la Maddalena, lo trovano vuoto, e questa è una costante in tutti i vangeli. Ma la prova che Gesù è risorto non è questa. Alle donne viene detto che Gesù risorto i suoi discepoli lo avrebbero visto in Galilea, ed essi lo vedranno su un monte. Questo monte è quello dove Matteo ha raccontato gli insegnamenti di Gesù, il monte delle beatitudini. Cosa vuol dirci allora Matteo? Che la prova che Gesù è risorto è quando noi, accogliendo il messaggio di Gesù, fidandoci di quello che ha detto e mettendolo in pratica, siamo beati, siamo cioè risorti noi. Cosa vuol dire siamo risorti noi? Vuol dire che il nostro modo di vedere le cose e di vivere la vita, e anche la morte, sono cambiati in meglio: siamo morti al nostro egoismo, viviamo per il bene degli altri e, in tutto questo, siamo riempiti di gioia, di pace, di fiducia anche in mezzo a tutte le avversità della vita. Non dobbiamo uscire di chiesa e andare a convincere gli altri Gesù è risorto. La prova che Gesù è risorto è se noi, tutte le volte che partecipiamo all’eucaristia, usciamo diversi da come siamo entrati. Vedete dunque come la risurrezione non è qualcosa che riguarda Gesù e basta, altrimenti non avrebbe senso. E non è nemmeno qualcosa che riguarda solo la vita dopo la morte, ma ci riguarda adesso. Se siamo risorti adesso, lo saremo anche dopo la morte del nostro corpo: questo il grande annuncio della Chiesa che continua a risuonare ancora dopo oltre 2000 anni. Noi crediamo non solo che Gesù è risorto, ma crediamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Anzi, crediamo la risurrezione della carne. Cosa vogliono dire queste espressioni? Che noi risorgeremo col corpo che viene cremato o messo sotto terra? San Paolo parla di un corpo spirituale, che è una cosa strana, un po’ come se dicessimo una curva diritta, un fuoco freddo o un sasso di legno. Del resto sta cercando di dire una cosa per la quale non ci sono parole. In questa vita, senza la carne, senza un corpo, la nostra persona non esisterebbe, come qualunque altra cosa. Allora, per corpo di carne spirituale Paolo intende che con la morte del nostro corpo, la nostra persona, la nostra identità, continuerà a sussistere, non moriremo mai, ma saremo come Dio, se fin da adesso, però, avremo vissuto come Gesù, col profumo del suo amore.