lunedì 15 agosto 2022

14/08/22 X DOMENICA DOPO PENTECOSTE (ANNO C)

Nel rito ambrosiano, ogni domenica la lettura ci fa incontrare un personaggio dell’Antico Testamento. Domenica scorsa si parlava del re Davide, e oggi è la volta del re Salomone, suo figlio, e abbiamo letto il momento in cui, diventando re d’Israele, prega il Signore chiedendogli non ricchezze, ma il dono 

della sapienza. E Gesù, nel vangelo, dà ragione a Salomone, spiegando che sapiente è chi vive non cercando di accumulare e di possedere, ma nella logica del donare. Si dice che i soldi non danno la felicità, però tutti sappiamo quanto siano importanti, nessuno vuol essere povero, i proventi dello stato per i gratta e vinci sono decisamente superiori a quelli che fanno le chiese con le offerte dei fedeli, le guerre si fanno sempre per i soldi e guai a chi mette le mani nel nostro portafoglio, fosse anche Dio. Peccato che Gesù lo faccia, come nel vangelo di oggi, e noi, che pur siamo suoi discepoli, magari preferiamo soprassedere su queste scomode parole. Dimenticando, però, che se Gesù le pronuncia è per il nostro bene, cioè per indicarci qual è la causa del nostro star male e cosa dobbiamo fare per vivere felici, solo che noi non ci crediamo perché, come dice san Paolo nel brano della prima lettera ai Corinti, ciò che per per gli uomini è sapienza, per Dio è stoltezza. La logica di Dio è che la felicità non consiste nel possedere, ma nel donare. Chi è ricco non si salva, perché, se è ricco, vuol dire che trattiene tutto per sé. E’ una legge fisica, prima che teologica. Cosa succede se quando respiro, l’aria, invece di buttarla fuori, la trattengo? Che scoppio. Quando accumulo le ricchezze come Zio Paperone per nuotarci, con la paura di perderle, finisco per passare tutta la vita preoccupato solo di difenderle dalla Banda Bassotti, mentre vivrei meglio se pensassi a come spenderli bene perché tutti possano stare bene. I beni sono un bene se si usano bene. E per usarli bene occorre, appunto (ecco la sapienza di Dio), vivere nella logica del dono, non in quella del possesso, dell’avere, dell’accumulare. Come Dio che non ha trattenuto per sé la sua vita, ma si è svuotato per donarla a noi. Il possesso, però, non riguarda solo il denaro, ma anche le cose e le persone. Infatti, quando Gesù dice di lasciare i beni per il Regno di Dio, parla di case, ma anche di moglie, genitori, fratelli e figli. E questa cosa va capita bene. Vi faccio notare che Gesù li chiama beni: cioè, non sta dicendo che dobbiamo vivere sotto i ponti o abbandonare i propri familiari. Il rischio qual è? Considerare gli altri come beni di proprietà, impedendo loro il bene prezioso della libertà. Vi confesso che resto basito incontrando ancora tanti genitori, non solo anziani, così egoisti e meschini da far venire sensi di colpa ai figli, quando i figli vorrebbero uscire di casa e fare la propria vita lontani da loro, non dico andando in America, ma anche solo a qualche chilometro di distanza. L’invito di Gesù a lasciare non è per i preti e le suore, ma per tutti: lasciare è il contrario del possedere, è non impedire che ognuno sia sé stesso, che sia come me (che noia), che faccia quello che voglio io. Questo senso del possesso si esprime, di fatto, anche nella preghiera. Di solito si prega per chiedere che Dio esaudisca i nostri desideri, anche belli e buoni, per carità: la salute, la serenità, il lavoro, se si è poveri la ricchezza. Come se Dio fosse uno che, dall’alto, a seconda di come preghiamo o di come gli gira, distribuisse a pioggia questi doni. Vorremmo possedere anche Dio. Continuiamo a ripetergli “ascoltaci, Signore”, come se Dio fosse smemorato, quando invece siamo noi che dobbiamo imparare ad ascoltare lui. Quando i suoi discepoli gli chiedono di insegnargli a pregare, Gesù insegna il Padre nostro che è il compendio di tutto il vangelo. Se facciamo passare tutte le invocazioni del Padre nostro, potremmo riassumerle con una sola frase: Padre, vogliamo vivere come tuoi figli amando i fratelli, costruttori del tuo Regno, liberi dalla tentazione del male, questa è la tua volontà. La preghiera serve per metterci in sintonia col volere di Dio che è questo, e per entrare in contatto col suo Spirito, perché, come dirà Gesù, l’unico dono che Dio fa non è far piovere le cose che gli chiediamo, ma è sé stesso, il suo Spirito, la sua vita, il suo sangue, per trasformarci, per farci diventare come lui e vivere ogni circostanza della vita, bella o brutta che sia, guidati dalla sua Parola e sostenuti dalla sua forza. Ma noi, che invece di essere sapienti siamo stolti, cosa facciamo? Chiediamo a Dio altre cose, non le otteniamo, perché non è questo il lavoro di Dio e lo scopo della preghiera, e poi ci arrabbiamo con lui, invece di prendersela con sé stessi perché non ascoltiamo quello che ha insegnato Gesù. Il dramma è che non otteniamo nemmeno quello che Dio ci può donare perché di fatto, anche se magari ripetiamo tante volte al giorno il Padre nostro, lo diciamo a macchinetta, come una filastrocca, senza renderci conto di quanto stiamo dicendo.