martedì 8 ottobre 2024

6/10/24 VI DOMENICA DOPO IL MARTIRIO (ANNO B)

Nei Vangeli, ci sono alcuni detti del vangelo che sono entrati a far parte del linguaggio comune, anche di chi non è credente, e uno di questi è quello che abbiamo appena ascoltato: gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi. Che non vuol dire assolutamente che nell’aldilà, per chi ha fede, il Signore 

ricompenserà chi ha patito in questa vita, e chi invece ha goduto verrà ridimensionato, per cui resisti e sopporta tutte le sofferenze e le ingiustizie perché poi, un giorno verrai ricompensato in Paradiso. Se questa interpretazione fosse giusta, avrebbero ragione i denigratori del cristianesimo a dire che la religione è l’oppio dei popoli. Gesù pronuncia questa frase al termine della parabola dei lavoratori nella vigna, perché i lavoratori arrivati per ultimi vengono pagati per primi, e quelli che hanno lavorato tutto il giorno vengono pagati per ultimi. Ovviamente non è tanto una questione temporale (che uno venga pagato per primo o per ultimo), ma molto più profonda. Questa è una delle tante parabole di Gesù per parlare del Regno di Dio. Il Regno di Dio, per Gesù, è una società alternativa governata da Dio attraverso gli uomini che, sentendosi figli amati dal Padre, vivono, come Gesù, da fratelli, praticando le beatitudini, quindi prendendosi cura dei bisogni dei fratelli, facendosi ultimi per consentire agli ultimi di innalzarsi ed essere primi. In questo senso, e solo in questo senso, diventa lecito modificare questo detto di Gesù, come spesso si fa, con il detto: beati gli ultimi se i primi sono onesti. Del resto, questo dovrebbe essere lo stile di una comunità cristiana che invoca il Padre perché venga il suo Regno. Ma, alla luce di questa parabola, i primi e gli ultimi di cui si parla si riferiscono ad altre due categorie di persone. I primi sono gli israeliti, gli ebrei, che per primi, nella storia dell’umanità, credono nell’unico Dio salvatore, come scrive il profeta Isaia, ma corrono il pericolo di pensare di essere gli unici destinatari della salvezza. Per questo, il profeta li ammonisce spiegando che il progetto di Dio è quello di salvare tutte le genti di tutti i confini della terra che abbandoneranno i loro idoli e piegheranno i loro ginocchi davanti all’unico Dio. Gesù, nella parabola, riprende questo concetto spiegando che dall’alba dei tempi e in ogni epoca della storia Dio chiama gli uomini a lavorare nella sua vigna, e lavorare nella sua vigna significa, però, imparare a portare i frutti dell’amore, cioè a costruire il suo Regno. San Paolo, nel brano della lettera agli Efesini, approfondisce questo concetto dicendo che, con Gesù, questo progetto di Dio si è reso manifesto, per cui, quelli che erano considerati lontani da Dio, perché non circoncisi, non appartenenti al popolo di Israele, e quindi ultimi, ora capiscono di essere anche loro vicini, cioè primi: nessun uomo è escluso dalla salvezza. Ecco perché il padrone della vigna paga in modo uguale i lavoratori della prima ora e dell’ultima ora. Gli ultimi diventano primi perché scoprono che la salvezza è anche per loro, che anche loro sono primi. Ma perché i primi diventano ultimi? Qui, il ragionamento è sottile, ma è il cuore della parabola. Perché i primi pensano di essere tali in quanto hanno meritato l’amore di Dio per i loro meriti, come se Dio fosse un datore di lavoro che paga i suoi operai in base al tempo in cui hanno lavorato e quanto hanno prodotto, e quindi vivono con Dio un rapporto di obbedienza, soggezione e fatica, solo per avere il salario. Si sentono primi, vicini a Dio, per i loro meriti. È un atteggiamento perverso ancora presente in molti credenti, ma che Gesù continua a denunciare come profondamente sbagliato. Io mi sento primo rispetto a tutti gli altri che, invece, vivono lontani dal vangelo, perché cerco di fare il bravo, di comportarmi bene, di pregare, venire a Messa, impegnarmi per la Chiesa, vivere il vangelo, non perché, vivendo così, capisco che la ricompensa è la gioia, ma perché, così, Dio è contento di me e poi mi premia esaudendo i miei desiderata. Non capisco che la mia fortuna è proprio quella di lavorare nella vigna del Signore. Chi vive così il rapporto con Dio inteso non come Padre, ma come datore di lavoro, vive una religiosità cupa, triste, angosciata, perché si basa sulla logica del dovere: non prova gioia a lavorare nella vigna del Signore, a costruire il suo Regno, ma lo fa per dovere e per avere un’altra ricompensa. Tanto è vero che, quando le cose vanno male e vede che a quelli che vivono lontani dal vangelo, gli ultimi, le cose vanno bene, si arrabbia, prova invidia, dice tanto valeva che anch’io facessi come loro, figuriamoci se scopre che il Signore vuole pagare anche gli altri con la stessa moneta. Non capisce che questa moneta con la quale il Padre vuole pagare tutti, è il suo amore, la sua stessa vita, la gioia di sapersi amati da lui. Commette lo stesso errore del figlio maggiore dell’altra parabola che si arrabbia col padre quando il figlio minore che si era allontanato da casa ritorna e viene accolto con una grande festa, è invidioso, non aveva capito che era una fortuna, per lui, non essersi allontanato, ma aveva vissuto nella casa del padre come servo, e non come figlio. Da primo che pensava di essere, diventa ultimo. Ma meno male. Perché solo diventano ultimo, quindi riconoscendo che Dio non è un datore di lavoro che mi paga per i miei meriti, ma un padre, posso convertirmi anch’io e quindi tornare ad essere primo, cioè a sperimentare la bellezza dell’essere in comunione col Signore che mi accoglie così come sono per farmi diventare come lui.