sabato 18 gennaio 2025

19/1/25 II DOMENICA DOPO EPIFANIA (ANNO C)

La liturgia di oggi offre molti spunti di riflessione, il primo dei quali riguarda la scelta di farci ascoltare, come ogni seconda domenica dopo l’Epifania, il famoso racconto delle nozze di Cana. L’Epifania non è finita il 6 gennaio, ma comprende anche le altre due prime manifestazioni della divinità di Gesù 

accadute, la prima nel momento del suo Battesimo al Giordano, festa che abbiamo celebrato domenica scorsa, e la seconda nel momento delle nozze di Cana: la trasformazione dell’acqua in vino manifesta la missione di Gesù, venuto a trasformare il rapporto con Dio vissuto nel timore e nella paura in un rapporto capace di sprigionare amore e vita. Occorrerebbe allora soffermarci a spiegare bene, parola per parola, questo racconto. Così come altri spunti di riflessione nascerebbero dalla spiegazione del libro di Ester, di cui abbiamo letto solo un piccolo frammento. Per non parlare della pagina di san Paolo, molto complessa. Perciò, ho pensato, invece, di concentrarmi sul tema che giustifica l’accostamento tra il racconto di Ester e il vangelo delle nozze di Cana. La regina Ester aveva scoperto che un generale dell’esercito del re voleva uccidere tutti gli ebrei, e lei era un’ebrea, ma suo marito, il re, non lo sapeva. E allora chiede aiuto al Signore per darle la forza di comparire davanti al re, e convincerlo a partecipare, lui e il generale, a un banchetto che lei aveva organizzato. Siccome, però, anche per la regina era pericoloso presentarsi al re senza preavviso, Ester ha paura, e allora si fa furba: mette gli abiti più belli per farlo innamorare, e quando arriva davanti al re inizia a fargli i complimenti e fa anche finta di svenire. E infatti, il re, che come tutti i maschi, davanti alle moine delle femmine non capisce più niente, le dice: dimmi quello che vuoi e te lo darò, fosse anche la metà del mio regno. Ma Ester era solo una cosa che voleva: voleva che il marito partecipasse a quel banchetto insieme al generale per dire davanti a tutti quello che stava succedendo, e avrebbe pregato il re di punire il generale e di salvare tutti gli ebrei. Ester intercede per il suo popolo, come si ripeteva nel ritornello del salmo: intercede la regina, adorna di bellezza. Intercedere, cosa vuol dire? Inter vuol dire mettersi in mezzo, cedere vuol dire avanzare. Intercedere vuol dire mettersi in mezzo tra due o più persone per ottenere qualcosa. Da una parte ci sono gli ebrei che rischiano di venire ammazzati, dall’altra c’è il generale del re che vuole ammazzarli, ed Ester si mette nel mezzo, intercede presso il re perché impedisca al generale di ammazzare gli ebrei. Nel vangelo, invece, al posto di Ester c’è Maria. Durante il banchetto di nozze era finito il vino, e quindi era finita la festa, e allora Maria si mette nel mezzo, intercede presso Gesù e gli dice: non hanno più vino, sicura che Gesù sarebbe intervenuto. Quando noi diciamo la seconda parte dell’Ave Maria, ripetiamo sempre: santa Maria, prega per noi peccatori, cioè, intercedi per noi peccatori, mettiti tu in mezzo tra noi e Dio per ottenere le grazie di cui abbiamo bisogno. Se non ascolta noi, magari ascolta te, sua madre, che lo preghi per noi. Ma questa, se ci pensate, è una cosa brutta: vuol dire pensare, come la regina Ester verso suo marito, che Dio sia indifferente alle nostre necessità, oppure non le conosca, che sia uno smemorato, che abbia bisogno di qualcuno che si metta in mezzo a intercedere. Ma allora, che senso ha pregare Dio per qualcuno, pregare per chi ha bisogno? A cosa serve? Perché mai Dio dovrebbe volere che noi lo preghiamo per qualcun altro? Primo: per imparare a non essere indifferenti ai bisogni degli altri, per esercitarci ad amare e a fare qualcosa (Ester, per esempio, non si mette solo a pregare, ma agisce). Secondo: per unire il nostro amore all’amore ancora più grande che Dio ha per tutti e dona a tutti. Non è aggiungendo il nostro amore a quello di Dio che il suo amore diventa più grande, ma il contrario: è il nostro amore ad avere maggiore efficacia. Purtroppo, spesso accade che le nostre preghiere sembra che non abbiano effetto. In realtà non è così. Provo a spiegarlo con un’immagine, quella di una piscina. Dio è come l’acqua in cui ci muoviamo. Un’acqua ferma, limpida, calda, come quella delle terme, tanto che uno si dimentica quasi di essere nella piscina. La preghiera di intercessione per gli altri si può paragonare a quello che succede quando i vari nuotatori cominciano a muovere le gambe: l’acqua si smuove e, pian piano, tutti cominciano a sentirla sul loro corpo e ad avvertirne i benefici. In conclusione, la preghiera di intercessione non serve per convincere Dio a fare qualcosa per qualcuno. Anche quando chiediamo a Maria o a qualche santo di pregare Dio per noi peccatori, non è perché Dio ascolterebbe di più sua madre o qualche santo, ma serve per farci capire che non siamo soli, che non ci salviamo da soli, che siamo tutti in relazione, anche coi santi. Quali saranno, poi, gli effetti di questa preghiera, non lo sappiamo. Dio non è uno che dall’alto decide come andranno le cose a seconda delle nostre richieste. Al contrario, Dio è come l’acqua di una piscina in cui ci muoviamo ed esistiamo; è come l’aria che respiriamo: è fuori di noi e dentro ciascuno di noi; Dio è pane e vino che nutre tutti per metterci tutti in relazione tra di noi e con lui, per farci diventare come lui. Perciò, ogni preghiera di intercessione serve a noi, non a Dio: serve a noi per trasformarci, per farci sentire parte di un unico corpo, per non essere indifferenti ai bisogni degli altri, per scoprire la forza di Dio che si manifesta in modi spesso inaspettati. Serve per metterci in gioco e chiederci non cosa può fare Dio al nostro posto, ma cosa possiamo fare noi e cosa possono fare gli altri con la forza che viene da Dio.