La prima lettura, che ci propone la liturgia in questa festa della sacra famiglia, parla di Mosè, definendolo un uomo fedele e mansueto a cui Dio fece udire la sua voce. Subito dopo, nel salmo, si dice che l’uomo che teme il Signore è beato, misericordioso, pietoso e giusto; e poi, vista la scelta del
vangelo, vediamo come queste caratteristiche si possono applicare a Giuseppe, lo sposo di Maria. È molto bella questa cosa: vuol dire che la presenza di Dio, la sua voce, come accade a Giuseppe, la percepisce chi ha il cuore sgombro dal male, e questa presenza, a sua volta, potenzia la capacità di fare il bene e genera pace in mezzo alle avversità e la forza di agire. Quando invece siamo su tutte le furie, agitati, animati da sentimenti di rabbia o di angoscia che ci portano a fare il male, è molto difficile avvertire la presenza di Dio, un po’ come quando il mare è in tempesta e non si riesce a vedere il fondo, un po’ come le nuvole quando nascondono il sole: il sole c’è, solo che non lo vediamo. A fronte delle avversità, siamo soliti dire: passeranno! Intanto però, mentre aspettiamo che passino, viviamo male, perché dimentichiamo che il sole c’è, che Dio non smette di essere presente. Ci può essere un’altra soluzione, e la pagina di vangelo, se la leggiamo in chiave simbolica, ci dà alcuni suggerimenti interessanti. Giuseppe era molto agitato, pieno di paura, perché c’era Erode che voleva uccidere Gesù. Ma, da uomo mansueto qual era, misericordioso, pietoso e giusto, sente la presenza di Dio che gli suggerisce cosa fare: prima gli aveva detto di scappare in Egitto, e poi, morto Erode, di tornare in Israele e di andare a Nazaret, portando con sé Maria e Gesù. L’Egitto era il paese dove gli ebrei erano stati schiavi, e Nazaret era un paesino insignificante, non era certo la Costa Smeralda. Potremmo dire, perciò, che l’Egitto è simbolo delle nostre paure, e Nazaret la nostra vita quotidiana, fatta di alti e bassi. Vuol dire che per vincere Erode e il nostro Egitto, cioè tutte quelle paure e angosce che caratterizzano spesso la vita familiare, occorre prima di tutto accoglierle con molto realismo, senza rifugiarsi in paradisi che non esistono, cioè sognando la famiglia del Mulino Bianco, per scoprire che, proprio lì, si, proprio nel turbinio dell’angoscia, se si continua, come Giuseppe, a mantenere il cuore sgombro dal male, è possibile comunque udire la voce del Signore che ripete a ciascuno: “àlzati”, che è il verbo della risurrezione. Scoprire, cioè, che non esiste situazione della vita, anche la peggiore, in cui Dio non sia presente e capace di infondere quella speranza che è capace di superare ogni ostacolo. Questa dimensione della speranza ci viene richiamata in modo forte proprio in questo anno del Giubileo. La speranza cristiana è una virtù teologale, cioè che viene direttamente da Dio. Non è il semplice ottimismo di chi cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno, anziché mezzo vuoto: anche questo è importante, ma non è questa la speranza cristiana. La speranza cristiana si fonda sulla promessa di Dio di essere sempre con noi in ogni circostanza, per ripeterci: alzati, risorgi. La vita è tutta un saliscendi: fu così anche per la sacra famiglia. Che è sacra non perché perfetta. Come non esiste la famiglia del Mulino Bianco, così non esiste nemmeno la sacra famiglia delle immaginette. La famiglia di Gesù è sacra perché, in essa, non viene mai a mancare il senso della presenza di Dio che pervade e illumina ogni situazione. Pertanto, sacra diventa ogni famiglia man mano che impara a percepire questa presenza nella vita di ogni giorno. Certo, non è facile distinguere la voce di Dio dalle tante interferenze nefaste che vengono dal mondo. È un lavoro faticoso, ma indispensabile. Ma è ancora più faticoso quando viene svolto in solitaria, isolandosi dagli altri. Per questo ritengo che sia indispensabile, nella pur difficile organizzazione della vita quotidiana, che almeno le nostre famiglie cristiane cerchino, in tutti i modi, di sfruttare ogni occasione di incontro che la parrocchia offre, a partire dal ritrovarsi ogni domenica a celebrare l’eucaristia, vivendo e organizzando poi altri momenti conviviali e di formazione, come sto cercando di proporre alle tante famiglie dei nostri bambini. Purtroppo le resistenze a vivere questi momenti sono tante, però non mi arrendo nel proporle, perché non ci si salva da soli: infatti, l’esperienza cristiana è sempre comunitaria, è un’esperienza di Chiesa, di un corpo, fatto di membra vive unite al Capo, che è Gesù.