Cosa significa, a cosa serve esserci oggi messi in pellegrinaggio, chi col pullman, chi con le macchine, venire qui a Tirano, in un santuario bello come questo, esserci ritrovati insieme per condividere il pranzo e poi, adesso, per celebrare la cena del Signore, in questo anno giubilare? Lasciamo che siano le
letture di oggi a suggerirci la risposta. La pagina del Deuteronomio parla di un momento cruciale e drammatico del viaggio del popolo di Israele dal paese d’Egitto verso la terra promessa, quando, nel deserto, la gente è assetata, non ha acqua da bere, entra in crisi, si chiede “ma il Signore è in mezzo a noi, si o no?” e poi, Dio fa sgorgare l’acqua dalla roccia, che richiama sia l’acqua che zampilla per la vita eterna che Gesù diede alla samaritana nel vangelo di domenica scorsa, sia l’acqua della piscina di Siloe nella quale il cieco nato si immerge e riacquista la vista. Il pellegrinaggio è simbolo della vita umana con tutte le sue fatiche, da quando ci svegliamo al mattino e andiamo a dormire la sera, da quando nasciamo a quando moriremo. Ma se il vagabondo non ha una mèta, il pellegrino ce l’ha, e se la mèta è bella, allora vien voglia di camminare e di superare tutte le fatiche. Se la mèta è brutta non vien voglia nemmeno di mettersi in viaggio. Ma se si dimentica la mèta, quando sorgono difficoltà, si continua a camminare mormorando e vien voglia di tornare indietro. Perché val la pena vivere se poi, alla fine, dobbiamo morire? Se, però, invece del cimitero, il traguardo che ci attende è l’incontro col Signore, le cose cambiano. Ma, soprattutto, se questo cammino è sostenuto dall’acqua che ci dà il Signore, allora possiamo vivere ogni momento della vita gustandolo, amando, facendo il bene, affrontando le difficoltà e la fatiche in un modo nuovo, sapendo che non siamo soli, ma tutti insieme, per sostenerci a vicenda, per aiutarci a fare una cosa stupenda: rendere più bella la vita, prima di tutto alle persone che ci sono accanto, facendo in modo che, però, non è che stiamo bene noi e allora stanno bene tutti, fosse vero, ma preoccupandoci anche di tutti gli altri. Il Giubileo ha questa forza incredibile: non è una cosa che faccio io da solo, ma la facciamo tutti insieme, come popolo di Dio. Per un anno, almeno per un anno, cerchiamo tutti insieme di rendere più bella la vita di chi cammina al nostro fianco, perchè questo ci aiuti a continuare per tanto tempo, finchè avremo esaurito le energie e avremo bisogno di un altro Giubileo, mentre, chi nel frattempo avrà raggiunto la mèta del Paradiso, continuerà a darci il suo amore che, unito a quello di Dio, della Madonna e dei Santi, sarà ancora più forte. Ma cosa vuol dire rendere più bella la vita degli altri? E poi, cos’è quest’acqua che il Signore ci dona? Quest’acqua è lo Spirito santo che ci è stato dato nel Battesimo e fa in modo che noi possiamo vedere, che non siamo più ciechi, perché vediamo chi è Dio e chi siamo noi. Che Dio è Padre, noi siamo figli e gli altri sono compagni di viaggio, fratelli a cui voler bene. Finchè non capiamo questo, restiamo ciechi. E, finché restiamo ciechi, invece di rendere più bella la vita degli altri, diventiamo bravissimi a metterci i bastoni tra le ruote, a fare il male. E le conseguenze, le ferite, le pene causati dai nostri peccati, rovinano tutto, ed è difficile rimarginare le cicatrici. Cos’è, allora, il dono dell’indulgenza che viene fatto a chi, oggi, è qui in questo santuario? È la medicina che il Signore dona a tutti per avere la forza di riparare con azioni concrete le ferite che i nostri peccati hanno provocato. Col sacramento della confessione, il Signore ci assicura che tutti i nostri peccati sono perdonati, prima ancora che noi ci pentiamo. Però, i miei peccati, hanno lasciato conseguenze negative, sia in me che li ho fatti, sia in quelli che hanno subito il male che ho fatto. L’indulgenza è come la medicina che si prende quando si è in convalescenza, è quel ricostituente che serve per trovare il modo in cui riparare il male che ho fatto ricevendo la forza di compiere opere di bene, che fanno bene, prima di tutto a me che le compio. Attenzione, questa medicina, il Signore la dona sempre, ma nell’anno del Giubileo diventa più efficace perché, come dicevo prima, siamo qui tutti con l’intenzione di prenderla e di usarla. Abbiamo oltrepassato tutti insieme la porta santa che è simbolo di Cristo, la porta che ci fa andare al Padre, per dire: voglio passare dall’essere cieco al vedere la vita con gli occhi di Gesù. E allora, come scriveva san Paolo, noi siamo qui per rivestirci con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza. Come un soldato che deve andare alla guerra. Certo, perché quello che stiamo facendo non è un rito magico, per cui, usciti di qui, come miracolo siamo diventati tutti persone nuove, no, è un cammino lungo, come dicevamo all’inizio, nel deserto, e abbiamo continuamente bisogno di quest’acqua che il Signore ci dona, perché dobbiamo continuamente combattere, attenti bene, non gli altri, ma tutte le forze del male che vogliono spingerci continuamente a tornare ad essere ciechi, cioè a vedere solo i miei bisogni e interessi, e chissenefrega degli altri, cioè a tornare a rendere brutta, anziché bella, la vita degli altri, e allora dobbiamo rivestirci delle armi che ci dona il Signore per vincere queste tentazioni, e usarle, con la benzina che ci viene dall’eucaristia che stiamo celebrando.