INTRODUZIONE ALLA MESSA
Il tempo dopo Pentecoste è diviso in tre parti: le
settimane dopo Pentecoste che abbiamo vissuto
finora, quelle dopo il Martirio di san Giovanni Battista che inizieremo domenica prossima e quelle
dopo la Dedicazione della Chiesa cattedrale, dalla
terza domenica di ottobre fino all’inizio
dell’Avvento. La festa del martirio del Battista cade giusto sabato prossimo 29 agosto, e così oggi
celebriamo quella che si chiama domenica che precede il martirio di san Giovanni. Perché questa
suddivisione con al centro la figura del Battista?
Perché, come disse Gesù, tutti i profeti e la Legge
hanno profetato fino a Giovanni. Cioè, col Battista
si chiude il tempo della promessa: tutte le
promesse di salvezza fatte da Dio al popolo di Israele si realizzano in Gesù, e Giovanni fu colui che
proclamò questa buona notizia fino al martirio, fino a dare la vita per Gesù, come Gesù poi darà la
vita per tutti per rivelare che Dio è amore che da
la vita, che perdona.
(Ma ora, com’è di consueto nella messa vigiliare vespertina, entriamo nella domenica, e cioè nella
memoria della Pasqua di Cristo, con la proclamazion
e di uno dei vangeli della risurrezione)
(Per questo iniziamo l’Eucaristia domandando perdono per la nostra spesso debole fede quando non
riesce a tradursi in autentica testimonianza)
PRIMA DELLE LETTURE
Non è colpa mia se le letture di oggi, come vedrete, sono così lunghe e io parlando allungo il tempo
di ascolto e magari la pazienza, ma ascoltare letture così lunghe e poco note senza capirle serve a
poco, e nell’omelia vorrei soffermarmi sul vangelo,
che pure è collegato a queste letture, dico allora
adesso due parole di spiegazione. Nelle scorse dodici domeniche dopo Pentecoste del nostro rito
ambrosiano, le prime letture ci hanno fatto ripercorrere i principali avvenimenti della storia di
Israele raccontati dall’AT, e oggi leggiamo gli ultimi, quelli che precedono la venuta di Gesù, e coi
quali si conclude l’AT. E il martirio dei Maccabei
è un preludio a quello di Giovanni Battista che fa
da ponte tra l’AT e il NT. Ora ascoltiamo un episodio che si svolge circa 150 anni prima di Gesù,
quando in Palestina, prima che arrivassero i romani
, dominavano i greci che cercavano di imporre
agli ebrei la loro cultura e la loro religione dei
greci. I libri dei Maccabei raccontano quest’epoca
in
cui la fede di Israele era di nuovo in pericolo. I
Maccabei erano dei fratelli, che guidarono la lotta
anche armata del popolo di Israele per difendere la
propria fede e la propria cultura, fino al martirio.
Tra poco leggiamo la testimonianza di una madre davanti al re greco Antioco che mette a morte i
suoi sette figli, e lei li incoraggia a non avere paura e fa una bellissima professione di fede. Ed è
interessante vedere che uno dei sette fratelli, un
ragazzo, sul punto di essere torturato e di dare la
sua vita, professa la fede nella risurrezione dei morti, caso raro nell’AT, e infatti, al tempo di Gesù,
c’era il dibattito tra chi ci credeva e chi no. Dopo questa lettura ascolteremo il finale della lettera ai
Corinti dove Paolo parla proprio della sua fede nella risurrezione, certezza che diede anche a lui la
forza di affrontare il martirio. Ecco, io credo che
l’ascolto di queste due letture ci sproni a riflettere
sia sulla reale consistenza della nostra fede nella
risurrezione davanti alla morte in generale, come
vedremo meglio dopo ascoltando il vangelo, sia se questa fede sarebbe capace o meno di farci agire
come i martiri, considerando invece la fede di tanti martiri cristiani che ancora oggi in molte parti
del mondo versano il loro sangue.
OMELIA
Ci sono due motori che muovono la nostra vita, la fede e la paura. La paura è importante perché
nasce dall’istinto di conservazione: se non abbiamo
paura di niente diventiamo temerari, sventati e
incoscienti. La paura serve per evitare tutto quell
o che ci fa male. La fede, invece, cioè la fiducia,
dovrebbe essere il primo motore del nostro agire. Senza fiducia e speranza siamo morti, non
faremmo più nulla, vivremmo nella disperazione, cioè senza speranza, e quindi bloccati in tutto il
nostro agire. Si dice che oggi è difficile aver fede e speranza di fronte al futuro: la paura è grande. Il
problema è che abbiamo mille paure che ci bloccano
e ci fanno star male che nascono dalla paura
più grande di tutte che è quella della morte, sebbene la morte sia l’evento più naturale che ci sia.
Tutti nasciamo con una malattia mortale, che è la vita. La morte, in sé, non è un male, è giusto non
cercarla, ma rifiutarla è assurdo, tanto è vero che
chi la rifiuta diventa patetico, penso a chi
diventando vecchio si fa rifare il corpo per sembra
re giovane. Perché questo accade? Appunto,
perché non vogliamo accettare che si invecchia e si
muore, e quindi viviamo male, non solo la
morte, ma anche la vita. A causa del peccato. Si, perché la morte ci fa capire che siamo limitati, ma
il peccato ci fa credere che la morte sia la fine di tutto, e così pensiamo di venire dal nulla e di
andare a finire nel nulla, e allora viviamo la vita
pieni di mille altre paure, quella di perdere le cose,
le persone, gli affetti, la salute, e per colpa di
queste paure diventiamo egoisti, lupi rapaci, facciamo
di tutto per essere accettati, quando invece dovremmo aver paura di non curare l’anima, che a
differenza del corpo non perisce. Per questo Gesù esordisce nel vangelo di oggi dicendo: Non
temete quelli che uccidono il corpo, perché il corpo non è la vita: viene dalla terra e torna ad essa.
Piuttosto, dice, abbiate paura di chi può gettare nella Geenna, cioè Dio. La Geenna era la valle dove
si bruciavano le immondizie, la discarica. Gesù sta
dicendo: abbiate il timor di Dio, che non è aver
paura di Dio, ma capire che Dio è un Padre che ci ama. Se abbiamo questo timore, allora non
abbiamo più paura della morte, altrimenti finiamo nella Geenna, buttiamo nell’immondizia la nostra
vita. Dobbiamo avere paura non di morire, ma di non
amare, perché se non amiamo siamo già morti
e invece, se amiamo, viviamo e vivremo per sempre,
perché siamo animati dallo Spirito santo che
non muore mai. Chi avrà tenuto per se la vita la perde, chi la perde per causa mia la trova. Perché?
E’ una legge fisica, prima che teologica. La vita è
il respiro. Se il respiro lo trattengo muoio, se
butto fuori l’aria vivo. Lo Spirito santo è il resp ro di Dio, ed è il suo amore, l’amore che unisce i
l
Padre e il Figlio. Io vengo riempito di questo spirito, lo respiro, ma per vivere devo donarlo,
buttarlo fuori, e allora vivo. E siccome questo Spirito è quello di Gesù, quando esalo l’ultimo
respiro il mio spirito è unito al suo e io vivo in
eterno, entro in comunione totale con Dio.
Splendido, se ci pensate: il limite della morte che
mi spaventa, Dio lo fa diventare il momento in cui
si entra in totale comunione con Lui. Per cui Gesù
fa capire che il valore assoluto non è la vita, ma
dare la vita, amare, perché se no sono già morto ora. Il male non è essere uccisi, ma uccidere; non è
aver fame, ma affamare; non è soffrire, ma far soffrire. Un passero vale ben poco, e tante volte è
quello che ognuno pensa di sé. Ma se Dio si occupa
anche dei passeri, dice Gesù, volete che non si
occupi di voi che siete suoi figli? Pensate di valere meno di un uccello? A volte pensiamo così
davvero, perché anche noi moriamo come gli uccelli,
e ci sono uomini e donne che vivono in tali
stati di sofferenza che giustamente ci si chiede in
che modo Dio si prende cura di noi, se valiamo
più degli uccelli, dov’è la sua Provvidenza. Ma le
parole che seguono fanno capire cos’è questa
provvidenza, quando Gesù dice: non sono venuto a portare la pace, ma la spada, che taglia, separa,
anche i componenti di una stessa famiglia. E’ la spada della sua Parola e del suo amore che fa
piazza pulita del peccato e di tutte le mie false paure che mi portano a non credere nell’amore di
Dio e a fare il male. Ecco perché in altri passi del vangelo Gesù dice: vi lascio la pace, ma la pace
che vi do io non è quella del mondo. Per il mondo che non conosce Dio la pace è la serenità totale e
l’assenza dei problemi, ma questa pace non esiste.
La pace che porta Gesù non è che tutto ci va
bene, ma che bisogna ogni giorno lottare contro il
peccato, la menzogna che ci fa credere che Dio
non ci ama, e così possiamo portare ogni giorno la
croce che abbiamo perché Gesù l’ha portata per
tutti, e quindi, in mezzo ai problemi della vita, non ho più paura e non vengo schiacciato perché lo
Spirito di Cristo mi sostiene. Se la croce non la porto, la croce mi schiaccia. Ecco perché lui va
amato più del padre e della madre, perché solo lui
può darmi questa forza che mi fa vincere le
paure, e questa è la sua provvidenza, è così che Di
o provvede a me, è una cosa interiore, non è
legata ad avvenimenti esteriori, come quando uno dice, sommando tutto, “mi è andata bene, grazie
Signore”. Perché altrimenti non avrebbe senso che la provvidenza di Dio aiuta uno e non aiuta un
altro. La provvidenza è Dio che provvede a me perché io sento la sua presenza che dona la pace in
mezzo alle croci della vita che riesco a portare e
che così non mi schiacciano perché le porto col suo
aiuto. Ecco perché aggiunge: chi mi riconoscerà davanti agli uomini anch’io lo riconoscerò davanti
al Padre e chi mi rinnegherà anch’io lo rinnegherò.
Riconoscere Gesù vuol dire credere che lui è
Figlio e allora capisco di essere figlio anch’io di
questo Padre, e non ho paura. Se lo rinnego, vuol
dire che non riconosco di essere figlio, che Dio non è Padre e vivo nella paura, e sono fregato. Ma
davvero poi anche lui ci rinnegherà? Questa è un’affermazione di Gesù che poi Gesù stesso ha
contraddetto sulla croce dove ha perdonato tutti, e
infatti san Paolo in un passo scriverà che non può
rinnegarci, sennò rinnegherebbe se stesso. Lui è il
Figlio che ci dimostra che Dio è Padre amandoci
come fratelli: se ci rinnegasse come fratelli ammazzandoci, rinnegherebbe se stesso come Figlio. E
quindi c’è davvero speranza per tutti. Grazie a Dio, cioè a Gesù.