lunedì 30 gennaio 2017

IL SACRAMENTO DELLA CONVERSIONE

“Attraverso i Sacramenti dell’iniziazione cristiana, il Battesimo, la Confermazione e l’Eucaristia, l’uomo riceve la vita nuova in Cristo. Ora, tutti lo sappiamo, noi portiamo questa vita «in vasi di creta» (2 Cor 4,7), siamo ancora sottomessi alla tentazione, alla sofferenza, alla morte e, a causa del peccato, possiamo persino perdere la nuova vita. Per questo il Signore Gesù ha voluto che la Chiesa
continui la sua opera di salvezza anche verso le proprie membra, in particolare con il Sacramento della Riconciliazione e quello dell’Unzione degli infermi, che possono essere uniti sotto il nome di «Sacramenti di guarigione». Il Sacramento della Riconciliazione è un Sacramento di guarigione. Quando io vado a confessarmi è per guarirmi, guarirmi l’anima, guarirmi il cuore e qualcosa che ho fatto che non va bene. L’icona biblica che li esprime al meglio, nel loro profondo legame, è l’episodio del perdono e della guarigione del paralitico, dove il Signore Gesù si rivela allo stesso tempo medico delle anime e dei corpi (cfr Mc 2,1-12 // Mt 9,1-8; Lc 5,17-26)”. Queste parole pronunciate da Papa Francesco il 14 febbraio 2014 nella catechesi dell’Udienza del mercoledì credo che esprimano al meglio il punto di partenza col quale comprendere il sacramento della Riconciliazione. È un sacramento di guarigione. Parliamo di guarigione dell’anima. Perché anche il battezzato si ammala: nell’anima e nel corpo, come ogni essere umano (quando si ammala anche nel corpo, la malattia ha influenza anche sull’anima, e spesso accade che le malattie dell’anima generino anche quelle del corpo, e di questa tematica ne parleremo trattando del sacramento dell’Unzione degli infermi).

E’ vero che, come dice il CCC, “la conversione a Cristo, la nuova nascita dal Battesimo, il dono dello Spirito Santo, il Corpo e il Sangue di Cristo ricevuti in nutrimento, ci hanno resi « santi e immacolati al suo cospetto» (Ef 1,4), tuttavia, la vita nuova ricevuta nell'iniziazione cristiana non ha soppresso la fragilità e la debolezza della natura umana, né l'inclinazione al peccato che la tradizione chiama concupiscenza, la quale rimane nei battezzati”. Ne deriva, prosegue il CCC, che tutta la vita è un continuo combattimento per convertirsi “in vista della santità e della vita eterna alla quale il Signore non cessa di chiamarci”. Per cui “l'appello di Cristo alla conversione continua a risuonare nella vita dei cristiani”. Scrive sant’Ambrogio: « La Chiesa ha l'acqua e le lacrime: l'acqua del Battesimo, le lacrime della Penitenza ».
 
La “confessione”, termine col quale viene normalmente chiamato questo sacramento, si riferisce ad una parte essenziale del sacramento della penitenza, cioè l’esternazione dei propri peccati. In molte religioni, e anche nella Chiesa primitiva, avveniva attraverso riti penitenziali pubblici per esprimere la volontà di convertirsi, attraverso atti penitenziali, così da ristabilire il rapporto con Dio e con i propri simili. La Bibbia però non usa il termine “penitenza”, bensì “conversione” (metanoia, in greco) perché la penitenza non sia un atto formale, ma esprima realmente la volontà di “cambiare modo di pensare e quindi di agire”. Siccome “penitenza” deriva dal latino “poena” (punizione), questo termine ha assunto il significato di punizione, qualcosa da dover scontare e pagare. Ma non è così. Dunque la “confessione” dei peccati vuole esprimere il desiderio di “convertirsi” (penitenza), in vista della “riconciliazione” con Dio e con i fratelli. “Reconciliatio” in latino vuol dire “reinserimento”: confesso i peccati che mi hanno alienato dalla relazione con Dio e con i fratelli per esprimere la mia volontà di convertirmi, al fine di reinserirmi in questa comunione ferita. E questa riconciliazione è prima di tutto e sempre una libera offerta che Dio fa all’uomo, a prescindere da tutto: “E’ stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo….vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5, 19).

Pertanto, questo sacramento, come spiega il CCC: è chiamato sacramento della Conversione poiché realizza sacramentalmente l'appello di Gesù alla conversione, il cammino di ritorno al Padre da cui ci si è allontanati con il peccato; è chiamato sacramento della Penitenza poiché consacra un cammino personale ed ecclesiale di conversione, di pentimento e di soddisfazione del cristiano peccatore; è chiamato sacramento della Confessione poiché si accusano i peccati, riconoscendo e lodando la santità di Dio e la sua misericordia verso l’uomo peccatore; è chiamato sacramento del Perdono poiché, attraverso l'assoluzione sacramentale del sacerdote, Dio accorda al penitente « il perdono e la pace »; è chiamato sacramento della Riconciliazione perché dona al peccatore l'amore di Dio che riconcilia l’uomo con Dio e con l’intero corpo di Cristo che è la Chiesa. 
Diceva sempre papa Francesco nella catechesi citata all’inizio: “Questo Sacramento scaturisce direttamente dal mistero pasquale. Infatti, la sera di Pasqua il Signore apparve ai discepoli, chiusi nel cenacolo, e, dopo aver rivolto loro il saluto «Pace a voi!», soffiò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (Gv 20,21-23). Questo passo ci svela la dinamica più profonda che è contenuta in questo Sacramento. Anzitutto, il fatto che il perdono dei nostri peccati non è qualcosa che possiamo darci noi. Io non posso dire: mi perdono i peccati. Il perdono si chiede, si chiede a un altro e nella Confessione chiediamo il perdono a Gesù. Il perdono non è frutto dei nostri sforzi, ma è un regalo, è un dono dello Spirito Santo, che ci ricolma del lavacro di misericordia e di grazia che sgorga incessantemente dal cuore spalancato del Cristo crocifisso e risorto. In secondo luogo, ci ricorda che solo se ci lasciamo riconciliare nel Signore Gesù col Padre e con i fratelli possiamo essere veramente nella pace. E questo lo abbiamo sentito tutti nel cuore quando andiamo a confessarci, con un peso nell’anima, un po’ di tristezza; e quando riceviamo il perdono di Gesù siamo in pace, con quella pace dell’anima tanto bella che soltanto Gesù può dare, soltanto Lui”. 

La FORMA attraverso cui il perdono di Dio raggiunge il battezzato peccatore è la frase pronunciata dal confessore che si conclude con le parole: “Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito santo”.  Ciò significa che solo attraverso questo sacramento si ottiene il perdono dei peccati? Vale anche qui quanto si è detto nelle precedenti catechesi a proposito della “cascata” e dei canali. I sacramenti sono per i cristiani, sono il canale ordinario col quale la grazia di Cristo viene donata alla Chiesa. Non sono il canale esclusivo. Se sono pentito e domando perdono al Signore, il Signore mi perdona. Ma spiegando il significato dei sacramenti, si è detto come essi esprimono il mistero dell’incarnazione, del fatto cioè che Dio, in Gesù, facendosi uomo, ha assunto la nostra natura, le nostre dinamiche, la nostra materia come luogo della sua manifestazione. Per cui il rapporto con Dio, che avviene sempre mediante lo Spirito in noi, si attua attraverso segni (materia) e parole (forma) pronunciate da qualcuno
(ministro), come avviene per ogni relazione umana. Un esempio chiarificatore può essere questo: in qualunque relazione affettiva, non basta che io sappia che quella persona mi ama, ma è un’esigenza che essa me lo comunichi con gesti e parole. Per cui non è sufficiente che io sappia che Dio mi ama e mi perdona: occorre che ci sia qualcuno che me lo dica. Come non basta allo studente sapere di aver fatto bene o male il compito assegnato, ma occorre che qualcuno di fatto giudichi il suo operato. 

Piuttosto, qui si apre un’altra domanda: se l’Eucaristia, come il papa ha detto in occasione del congresso eucaristico dell’India, “attualizza l’Alleanza che ci santifica, ci purifica e ci unisce in comunione mirabile con Dio” e dunque essa “non è un premio per i buoni, ma è la forza per i deboli, per i peccatori”, e dunque l’Eucaristia di fatto perdona i peccati, allora a che serve il sacramento della Confessione? Non è una ripetizione? No, perché se ricevere l’Eucaristia esprime il desiderio e la volontà di essere una cosa sola con Dio e con i fratelli, di ricevere dal Signore quell’amore che mi trasforma a sua immagine per diventare come Lui, occorre anche un gesto specifico nel quale io esprima di fatto il mio desiderio di conversione, e dunque occorrono l’uno e l’altro. In questo si comprende ancor la ragione profonda per cui esso va inteso come sacramento di GUARIGIONE. E’ vero che dal concilio di Trento la prassi della Chiesa vuole che se il battezzato è “in peccato mortale”, per poter fare la comunione eucaristica, prima deve confessarsi. Ma è anche vero, come si è detto, che l’Eucaristia non è un premio per i buoni. L’Eucaristia è Cristo stesso che mi dona se stesso e unendosi a me mi trasforma, e questa trasformazione cancella i peccati. Se io faccio la comunione è perché desidero tutto questo (è veramente così?). Ma se di fatto tutto questo non lo vivo nella mia vita perché molti atti della mia vita nelle loro intenzioni profonde (i cosiddetti peccati mortali) contraddicono questo desiderio, allora diventa necessario un luogo e un momento specifico nel quale io esprima di fatto il mio desiderio di conversione e nel quale Cristo mi raggiunga con la sua grazia che si traduce nel perdono. Per cui ne deriva che l’Eucaristia da un lato sviluppa le disposizioni di pentimento che fanno desiderare il ricorso alla Confessione, e dell’altro la Confessione esprime con verità il reale desiderio di vivere la piena comunione col Signore e con i fratelli (la Chiesa). E’ per questo che il confessarsi “prima” o “dopo” aver ricevuto l’Eucaristia, alla luce delle attuali riflessioni teologiche, è relativo alle circostanze e al grado di coscienza e consapevolezza personale di tutto questo discorso, altrimenti diventa solo una questione formale che di evangelico ha nulla. 

La parola “peccato” significa “sbagliare il bersaglio”. Il bersaglio, nella vita del discepolo di Cristo, è vivere come figlio amato dal Padre e che, in forza di questo amore, lo ricambia vivendo da figlio che ama i fratelli nel modo in cui Cristo ama noi. Il peccato è dunque uno solo che poi si traduce in mille modi: fallire il bersaglio del vivere come figlio amato che ama i fratelli. 

Ben diverso dal “senso di colpa”. A volte si confessano non i peccati, ma i sensi di colpa, chiamandoli peccati quando di fatto non lo sono. Ad esempio, se fin da bambino sono stato continuamente spinto da mio padre a lavorare, da buon brianzolo mi sento in colpa se mi riposo e se concedo riposo a me stesso, e vado a confessare questa cosa senza rendermi conto che, semmai, peccato è lavorare sempre e non concedere riposo a se stesso. Alcuni si sentono in colpa se non riescono a soddisfare le attese degli altri, alcuni si sentono in colpa quando sentono affiorare in loro sentimenti negativi e non riescono ad accettare di non essere come si vorrebbe o come gli altri vorrebbero che  fossimo. Molte volte, reprimendo e non affrontando queste ombre presenti dentro di noi, senza rendercene conto va a finire che le si scarica o contro se stessi con atteggiamenti autopunitivi o addirittura si scaricano contro gli altri, come chi, per esempio, trattato da piccolo senza amore e in modo ingiusto dai genitori, trasferisce da adulto la sua rabbia e il suo desiderio di vendetta su altre persone. Questi non sono peccati. Però sono tutte difficoltà e nodi da sciogliere che in questo sacramento si possono mettere davanti al Signore rimandando ad un colloquio successivo la loro analisi.  

Dunque, il senso di colpa nasce dal mio super IO che non è soddisfatto di sé. Il peccato, invece è la relazione d’amore con l’altro che io ho rotto con le mie azioni. Se una donna annaffia un vaso di fiori e lo muove sul davanzale e cade in testa a un passante la donna direbbe “Cosa ho fatto!” perché si sente in colpa. Se per caso c’era sotto suo figlio cosa direbbe? “Cosa ho fatto” oppure “cosa SI E’ FATTO LUI?” Dirà “cosa si è fatto LUI”, perché le interessa il figlio. La differenza tra il senso di colpa e il senso del peccato è che il senso di colpa è per te, per il tuo super IO, e non ne esci mai, mentre il peccato è la relazione con l’altro: l’altro mi vuol bene ed io gli ho fatto del male. Bene, Dio mi perdona e questo mi redime. Oppure: “Non vado a Messa la domenica, quindi mi sento in colpa”; “ci vado, quindi mi sento bravo e Dio deve premiarmi”. Se mi identifico almeno in una di queste due frasi, sto sbagliando tutto. Non andare a Messa è un peccato, perché è presumere di avere qualcosa di più importante da fare che andare a ricevere l’amore di Dio che mi fa vivere con la sua Parola e con l’Eucaristia. E’ non amare l’Amore. Quindi a Messa devo andare non per non sentirmi in colpa e sentirmi bravo e ricevere un bene, ma perché capisco che non ne posso fare a meno, perché non posso fare a meno di amare l’Amore che mi da la forza di amare. Oppure “non rubare”. Finchè mi sento solo in colpa perché scopro di non essere onesto come vorrei e potrei andare in galera, non ne esco. Ne esco se capisco di aver fatto del male a chi ho rubato, perché non ho amato. Perché il perdono dei peccati possa avere le conseguenze auspicate, cioè il rinnovamento della mia vita, il tornare ad essere nuova creatura che di fatto desidera la Comunione con Cristo e con la Chiesa che si da nell’Eucaristia e che deve tradursi nella vita, è necessario che vi sia un “processo penitenziale o di conversione” che accompagni la celebrazione del Sacramento. Il centro del perdono è l’Eucaristia, perché è nella ripetizione settimanale della celebrazione eucaristica che faccio esperienza storica della misericordia di Dio in Cristo, e questa celebrazione mi accompagna e mi nutre, mi rafforza e mi plasma, domenica dopo domenica, fino alla fine dei miei giorni. Allo stesso modo, il procedimento di recupero della comunione perduta (Penitenza) non può limitarsi al sentirmi dire “io ti assolvo”, ma deve prevedere un cammino di conversione, altrimenti è solo un atto formale. Questa è la “penitenza”. Come si fa a considerare cammino di penitenza atto a convertire la mia mente, il mio cuore e le mie azioni a Cristo recitando un Pater, Ave e Gloria al termine della confessione? La “penitenza” non è il prezzo da pagare per avere ricevuto il perdono. Il perdono è gratis ed è finalizzato a ristabilire la comunione col Signore. Se questa comunione è desiderata e non è un gesto formale, allora il perdono ricevuto diventa motivo perché si attui un cammino di conversione nel quale trovare quelle medicine in grado di guarire la mia anima. 

Ebbene, ricevendo il perdono di Dio cosa scopro? Scopro che LA MATERIA di questo sacramento è il peccato stesso dell’uomo che, come scrive il Papa, diventa “ricettacolo di misericordia”, il luogo cioè nel quale Dio manifesta in modo supremo la sua misericordia. Dio fa diventare il mio limite luogo di riscatto; la mia lontananza da Lui il motivo per il quale venirmi incontro ed amarmi. 

Un precisazione sui cosiddetti peccati mortali, anche perché, sotto il profilo teologico, è “obbligatorio” confessare solo i peccati mortali. Non è semplice definirli e non va bene farne una casistica, anche perché non bisogna dare ad ogni cosa il nome di peccato vedendo così peccati dovunque, perché molti di quelli che chiamiamo peccati in realtà non derivano da una decisione consapevole di ribellarsi a Dio, ma hanno origine nella nostra debolezza e necessitano non tanto di una assoluzione, quanto di un lavoro di purificazione finalizzato a conoscere gli abissi del proprio cuore e a sviluppare delle capacità per poter cambiare certi comportamenti e sbloccare quei meccanismi che portano a commettere sempre le stesse mancanze, anche quelle gravi. Per cui diciamo che i peccati cosiddetti mortali sono quando, in modo totalmente consapevole e libero, ci ribelliamo a Dio in presenza di materia grave. Sono quando io vivo in netta contraddizione col mio essere figlio del Padre e discepolo di Gesù, per cui vivo di fatto, liberamente e consapevolmente come figlio e schiavo del Demonio (solo un esempio per aiutare a capire come sia difficile e non opportuno fare una casistica: un battezzato che una domenica non partecipa alla messa, è necessariamente in netta contraddizione col suo essere figlio del Padre e discepolo di Gesù, e quindi venduto al Demonio? Evidentemente è una domanda retorica). Dunque, per giudicare mortale un peccato oggettivamente grave (come il non andare a messa una domenica), si deve considerare la profondità dell’opposizione personale. Per non parlare dei peccati contro la carità (il non essere disposti a perdonare, l’indifferenza, l’odio verso qualcuno, atteggiamenti razzisti, rubare) spesso non confessati: sono meno gravi del non essere andato a messa una domenica? 

Molte persone hanno difficoltà ad accostarsi a questo sacramento perché “non sanno cosa dire”. Ciò deriva fondamentalmente dal fatto che non sono ancora abituati a fare una cosa essenziale, e cioè confrontarsi con la Parola di Dio. Se io, nell’esercizio quotidiano o settimanale della Lectio divina imparo a leggere, comprendere, meditare e pregare a partire dalla Parola di Dio, se cerco cioè di vedere in che modo questa Parola si incarna nella mia vita, dove mi raggiunge, quali ombre mette in evidenza, quali prospettive mi apre, ecco che mi accorgo quali sono tutti gli aspetti nei quali devo ancora imparare a convertirmi per diventare discepolo di Gesù, e quindi diventa facile scorgere quando non mi sono lasciato guidare dallo Spirito ricevuto nella Cresima, in che modo non ho esercitato il dono di essere diventato (col crisma) re, sacerdote e profeta. Quindi il “rimedio” per uscire dal “non so cosa dire” è quello di imparare finalmente a vivere la familiarità con la Parola di Dio, e quando “non so cosa dire” forse è il caso di chiedere perdono del fatto che non ho meditato e pregato sulla Parola di Dio. 

Altre persone hanno difficoltà ad accostarsi a questo sacramento perché sono consapevoli di non aver commesso peccati mortali. E, grazie a Dio, può essere vero. Abbiamo cercato di spiegare cosa sono i peccati mortali, cosa si intende per essi, senza aver specificato di fatto quali sono. Però, giusto per fare un esempio. E’ vero che peccato mortale è un’opzione deliberata di vivere in opposizione alla mia identità battesimale. E’ vero che dunque peccato mortale è, ad esempio, se deliberatamente decido di uccidere qualcuno. Ma è anche vero che, alla luce del Vangelo, non è sufficiente limitarsi a non uccidere nessuno. Infatti Gesù dice: avete inteso che fu detto non uccidere, ma io vi dico…. amate i vostri nemici! Per cui la scelta di continuare ad esempio ad odiare un mio fratello senza essere disposto ad un cammino in vista della riconciliazione non può mettere al riparo la mia coscienza facendomi credere di essere sulla via di Cristo perché di fatto non ho ucciso nessuno. 

Molti affermano di non avere molte cose da confessare e di non avere nulla di cui doversi pentire. Il problema è capire se uno riflette o meno sulla propria vita. Spesso non è facile decidere se si tratta di colpa o soltanto di debolezza, di disattenzione o di mancanze quotidiane. Piuttosto si tratta di rivolgere l’attenzione a ciò che ci rende inquieti. Se vivo ad esempio una relazione conflittuale con qualcuno, non necessariamente è un peccato: si tratta piuttosto di capire quali sono i sentimenti che prova per vedere dove sta la propria parte di colpa e capire cosa si potrebbe modificare per quanto è in proprio potere. 

La Riconciliazione è infine il sacramento nel quale rivivo coscientemente quello che mi è accaduto incoscientemente quando da piccolo ho ricevuto il Battesimo: mi viene ridetto che sono figlio amato dal Padre nonostante quello che ho fatto, ed è proprio perché Dio ha da perdonarmi che mi può amare e dare la forza di cambiare. Ma finchè non capisco tutte queste cose e non passo dal senso di colpa (non sentirmi a posto con me stesso) ad avere il senso del peccato (non aver vissuto secondo la legge dell’amore che non mi fa vivere da figlio e fratello e mi porta al fallimento della mia vita), sarà molto difficile sentire l’esigenza di andare a confessarsi.  

A livello educativo, provate a pensare quanto sia liberante ed efficace educare i figli non a farsi mille sensi di colpa perché hanno trasgredito delle leggi, ma aiutarli a coltivare il senso del peccato. Se mi sento in colpa, devo espiare il danno che ho fatto, così torno a meritarmi l’amore dei miei genitori. Se ci riesco sono meritevole, se non ci riesco sono una schifezza. Conclusione: l’amore si compra. Risultato: depressione e perdita di autostima. Se invece vengo coltivato al senso del peccato, capisco che il male che ho fatto ferisce me e le persone che lo hanno subito, ma che io sono amato lo stesso, che l’amore è dono e non frutto di conquista, e che non vivere nell’amore è sconveniente. Crescere in questa consapevolezza è l’unica possibilità perché possa avvenire qualche miglioramento.