giovedì 29 marzo 2018

GIOVEDI SANTO 2018

Vorrei questa sera comunicarvi alcune suggestioni che nascono in me dall’ascolto di queste lunghe letture all’interno di una celebrazione così suggestiva come questa e che apre i riti del triduo pasquale. Resto colpito dalla figura di Giona che non riesce ad accettare che Dio possa voler bene anche agli abitanti di Ninive, e infatti non vuole andare a dire loro di convertirsi e di fare penitenza
perché sa che, se lo avessero fatto, Dio li avrebbe perdonati. A parte il fatto che quello di Giona è una favola, non una storia reale, chissà come avrebbe reagito se, conoscendo Gesù, avesse scoperto che Dio non aspetta nemmeno che noi ci pentiamo per perdonarci, ma ci perdona ancora prima. Avrebbe reagito esattamente come Giuda, come Pietro e come tutti gli altri discepoli. Gesù fece l’eucaristia per rispondere al loro tradimento: loro lo tradiscono e lui cosa fa? Li ama ancora di più. È vero che dice, riferendosi a Giuda: “Guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato”. Ma questa frase significa il contrario di quello che sembra. Significa: “poveretto quell’uomo che mi tradisce, perché vuol dire che non riesce ad accogliere il mio amore, e uno che vive senza rendersi conto di quanto Dio lo ama, sarebbe meglio per lui non essere mai nato”. E questo vale anche per Pietro. Quando ripete per tre volte “io non lo conosco” stava dicendo la verità: davvero non aveva conosciuto Gesù, pensava che Gesù, e quindi Dio, fosse un’altra cosa. Un Dio che premia chi se lo merita e punisce chi fa il male. Tanto è vero che quando vede Gesù che gli vuole lavare i piedi si rifiuta. Per Pietro, Dio è uno che va servito così poi è lui a premiare i miei sforzi, invece Gesù gli fa vedere che è il contrario. Dio non vuole che noi lo serviamo, ma che noi impariamo a diventare servi gli uni degli altri. Ma come si fa? C’è solo un modo: accogliendo il suo amore. Se io accolgo l’amore di Dio per me, allora divento capace di amare gli altri nel modo in cui Dio ama me. A questo serve l’eucaristia. Gesù si dona come pane perché noi lo mangiamo, lo mastichiamo, lo assimiliamo, per diventare come lui, perché noi diventiamo quello che mangiamo. Fare la comunione non vuol dire mettersi in fila e rispondere “Amen” davanti all’ostia consacrata riconoscendo che in quel pane c’è Gesù. È il contrario: non è il pane ad essere diventato Gesù, ma è Gesù ad essere diventato quel pane, e io mangio quel pane per diventare come Gesù, per spezzarmi anch’io per gli altri come ha fatto Gesù. È quello che non capivano gli abitanti di Corinto a cui san Paolo scrive le dure parole che abbiamo letto prima. Paolo si lamenta coi cristiani di Corinto quando si radunano insieme, cioè in assemblea (da questo termine deriva la parola chiesa, che vuol dire assemblea) per celebrare la cena del Signore. Nei primi tempi delle comunità cristiane, l’eucarestia non aveva l’aspetto rituale che poi prenderà nel tempo, ma era una cena dove tutti condividevano il proprio cibo e la propria vita. Ebbene, a Corinto cosa succedeva? Era una cena dove le persone facoltose mangiavano e bevevano, e i poveri stavano a guardare perché non avevano niente da mangiare e da condividere. Quindi era l’eucarestia dove quelli che avevano non condividevano, non facevano comunione con chi non aveva. E allora Paolo si arrabbia e dice: che razza di comunione è questa, se voi mangiate e vi ubriacate e altre persone rimangono affamate? Perciò, chi mangia il pane e beve il calice del Signore in modo indegno sarà colpevole presso il corpo e il sangue del Signore, perché mangia pane e non diventa pane per gli altri. Gesù si fa alimento per noi, ma io poi devo essere capace di farmi alimento per gli altri. Questa per Paolo è la condizione per ricevere l’eucaristia, e guardate che è valida anche oggi. Quante persone ancora partecipano all’eucarestia per i propri bisogni spirituali, per le proprie necessità, per la propria famiglia. L’eucaristia serve non per centrarsi su sé stessi, ma per aprirsi agli altri. Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore… cos’è questo corpo? E’ la comunità. E abbiamo bisogno non solo di assimilare Gesù, il suo modo di pensare, di agire, di fare (questo vuol dire mangiare il suo corpo), ma anche di una trasfusione di sangue, perché il sangue è la vita, e quindi abbiamo bisogno di bere il suo sangue, cioè di ricevere il suo spirito, lo spirito del figlio, che ci rende come lui figli capaci di amare i fratelli. Dunque, vedete?, questo è il punto, questa è la cosa meravigliosa che né Giona, né Giuda, né Pietro, né tutti gli altri riuscivano ad accettare e, se non stiamo attenti, nemmeno noi. Gesù in tutta la vita fu sempre criticato perché sceglieva sempre le persone peggiori e stava con loro. E Gesù faceva un ragionamento talmente logico e chiaro che solo degli ottusi non capivano, e ottusi continuiamo ad essere noi se pensiamo Dio in modo sbagliato, opposto a quello che Gesù ci ha fatto vedere. Gesù dice: io sono il medico. Venuto per chi? Per gli ammalati, non per i sani! Immaginate una persona che conoscete, malata, e dite: hai chiamato il medico? Ah no, sto male, e quand’è che lo chiami quando stai bene? Hai preso la medicina? No perché ho la febbre, quand’è che la prendi? Quando sto bene. Invece è il contrario. Ci pensate quando all’inizio della messa il prete dice: per celebrare degnamente l’eucaristia, riconosciamo i nostri peccati. Cosa vuol dire sta frase? Che io posso celebrare degnamente l’eucaristia non perché sono puro, bello e santo, ma proprio perché sono peccatore. Molti dicono: quelli che vanno a Messa sono poi peggio degli altri. A parte il fatto che siamo tutti sulla stessa barca, è proprio così: io vado a messa proprio non perché sono meglio, ma perché mi riconosco peggio, un malato che ha bisogno della medicina. Se poi questa medicina non la mastico, allora non va bene. Ma l’eucaristia non è come l’Aulin che guarisci immediatamente, ce l’hai bisogno per tutta la vita. Importante è desiderarla, volerla. Quindi non dobbiamo pensare che sia un controsenso essere qui indegni, infatti lo ripetiamo: Signore non sono degno, ed è per questo che tu mi vieni incontro, dimostrandomi che l’amore non è un merito, ma un regalo.