venerdì 2 novembre 2018

COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI

SCHEMA A 

La pratica cristiana di celebrare messe per i defunti ha la sua origine nell’episodio che abbiamo ascoltato nei pochi versetti della lettura di prima. Giuda Maccabeo fece una colletta che inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio in espiazione dei peccati per i suoi fratelli che erano caduti in battaglia. Si dice poi che egli credeva che persone come loro, che si erano addormentati
nella morte con sentimenti di pietà, sarebbe stata magnifica. E qui ci sono altri due elementi importanti: la morte del corpo pensata come al riposo del sonno in vista della risurrezione, perché, c’è scritto, se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Gli ebrei credevano che la morte fosse un sonno, che i morti finissero agli inferi (che, badate bene, è il regno dei morti, non l’inferno), in attesa della risurrezione che sarebbe avvenuta non si sa quando, una risurrezione che però avrebbe riguardato solo i giusti, infatti si parla di “ricompensa destinata ai giusti”. Però, è interessante questa cosa, pur sapendo che questi caduti in battaglia erano uomini giusti, egli fece offrire lo stesso il sacrificio espiatorio perché fossero assolti dal peccato. Come per dire: non si sa mai, meglio offrire lo stesso un sacrificio per loro perché qualche peccato lo avranno pure fatto. Vedete, quindi, questi pochi versetti descrivono bene anche il nostro modo di rapportarci coi defunti. La stessa parola, defunto, significa letteralmente “colui che ha cessato un’attività e ne comincia un’altra”. E qual è quest’altra attività? Sembrerebbe quella di dormire, di riposare fino al giorno in cui si risorgerà. Non a caso i cristiani chiamarono cimitero il luogo in cui seppellire i morti, e cimitero vuol dire “dormitorio”: e se uno dorme, vuol dire che è ancora vivo, o no? Poi però noi preghiamo per i defunti dicendo: l’eterno riposo dona a loro Signore e risplenda ad essi la luce perpetua, cioè gli chiediamo che riposino in eterno avvolti dalla luce divina per sempre (perpetua). E qui le cose si complicano, perché dormire per un po’ va bene, ma se uno continua a vivere dormendo per sempre direi che è molto noioso, è come essere morti, e allora bisogna intenderci sul significato di questo riposo. Ripeto, defunti, non morti, vuol dire che hanno cessato un’attività e ne cominciano un’altra, cioè uno dorme per rinfrancarsi dalla stanchezza per poi riprendere la vita con maggiore energia. Allora, l’eterno riposo si riferisce certamente al riposo eterno dalle fatiche dell’esistenza, ma soprattutto al “riposarsi in Dio”. Riposarsi in Dio vuol dire essere permeati completamente dal suo amore diventando così come Lui. E Dio cosa fa? Dio è una presenza viva che continua ad essere presente in noi col suo spirito, che lavorare per noi infondendoci il suo amore. Allora, se i defunti sono in piena comunione col Signore, non sono inattivi. Ci riposeremo in paradiso, si è soliti dire: si, ci si riposa dalle fatiche terrene, ma si comincia un altro lavoro. Il lavoro dei defunti è quello di continuare insieme a Dio a collaborare con lui nel donare l’amore di Dio, che è vita, a tutti noi. Del resto, è quello che è accaduto a Gesù. Quando Gesù risorto si separò fisicamente dai suoi (che è la sua ascensione al cielo), fu un male o un bene? Fu un bene, lo disse egli stesso: è bene per voi che io me ne vada, perchè vi manderò il mio spirito che sarà con voi per sempre. Per questo la morte non allenta i rapporti umani, ma li potenzia. È cristianamente sbagliato dire che il defunto “viene a mancare all’affetto dei suoi cari”, perché con la morte il suo affetto si dilata e avvolge tutti. Si pensa sempre a quello che i vivi possono fare per i defunti, per cui offriamo per loro preghiere, suffragi, messe, come Giuda Maccabeo offriva sacrifici, e quasi mai a quel che i defunti fanno per i vivi: sono loro che, nella pienezza della sfera divina, trasmettono vita e amore. Disse san Domenico ai suoi frati prima di morire: non piangete, io vi sarò più utile dopo la mia morte e vi aiuterò più efficacemente di quando ero in vita. La buona notizia del vangelo è che con la morte la persona continua la sua esistenza in una diversa dimensione, in una continua crescita e trasformazione. Con la morte, dice san Paolo, la vita non è tolta, ma trasformata, lo abbiamo letto prima: “noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati”. Questa è la risurrezione, il passaggio da una vita mortale a una vita immortale, e non riguarda un futuro remoto, come pensava Giuda Maccabeo: con la morte, Dio non toglie le persone da questa vita, ma le accoglie nella sua, e queste entrano in una nuova e definitiva dimensione della propria esistenza. Con la morte del corpo, noi veniamo totalmente assorbiti in Dio. E se Dio è in noi, vuol dire che i nostri defunti sono dentro di noi. Dice sant’Agostino: “Coloro che ci hanno lasciati non sono degli assenti, sono solo degli invisibili: tengono i loro occhi pieni di gloria puntati nei nostri pieni di lacrime”. Allora che senso ha pregare per loro o far dire le messe per i defunti? Ha senso perché sono espressioni di amore nostro nei loro confronti, ma certamente non servono per convincere Dio ad accoglierli. Lo abbiamo ascoltato anche nel vangelo di oggi, dove Gesù dice che il Padre risuscita i morti e dà la vita, e così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole (un verbo che significa voler bene, e siccome Gesù ha gli stessi sentimenti del Padre, vuole bene a tutti). Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, e il Figlio ci giudica tutti come fratelli. Quindi le nostre messe non sono tanto per i defunti nel senso di convincere Dio ad accoglierli, ma con i defunti, perché essi sono qui con noi a celebrare l’eucaristia. Pregare per loro serve non a loro, ma a noi perché impariamo a convincerci di questa cosa, a considerarli vivi e non morti.


SCHEMA B


 “Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti”. Queste parole molto eloquenti di san Paolo ci chiamano quest’oggi a verificare la consistenza della nostra fede, se davvero ci crediamo o no nella Pasqua, che Gesù è morto e risorto, e al fatto che la risurrezione di Gesù non è qualcosa che riguarda solo Lui, ma che ci riguarda tutti. Perché, dice Paolo, se di fronte alla morte noi siamo tristi come gli altri che non hanno speranza, cioè come coloro che non credono in questo, allora la nostra fede è inutile. Già nel libro di Giobbe, scritto prima della venuta di Cristo, veniva espressa la fede in una vita che supera la morte del corpo e che ha come traguardo la visione di Dio: “dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno”. A maggior ragione, noi che siamo stati raggiunti dalla gioiosa notizia della Pasqua, dobbiamo nutrire questa speranza: che i morti sono vivi, che i nostri morti non sono qui al cimitero, ma sono qui con noi a celebrare l’eucaristia, a rendere grazie al Signore della vita, che non ci abbandona nel momento della morte. Perciò penso che dobbiamo smetterla di usare frasi del tipo “vado al cimitero a trovare i miei morti”: questa non è una frase cristiana. Per tanti motivi. Prima di tutto non dimentichiamo le parole che le donne, il mattino di Pasqua, quando andarono nel luogo in cui Gesù era stato sepolto, si sentirono dire: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto!”. Esse erano andate a cercare un morto: chi va al cimitero a trovare un morto, vuol dire che pensa che sia morto, e allora non riuscirà mai ad avvertirlo come vivo. Noi cristiani chiamiamo defunti coloro che sono morti. La parola “defunto” significa letteralmente “colui che ha cessato un’attività e ne comincia un’altra”. E qual è quest’altra attività? Sembrerebbe quella di dormire, di riposare fino al giorno in cui si risorgerà. Non a caso i cristiani chiamarono cimitero il luogo in cui seppellire i morti, e cimitero vuol dire “dormitorio”: e se uno dorme, vuol dire che è ancora vivo, o no? Poi però noi preghiamo per i defunti dicendo: l’eterno riposo dona a loro Signore e risplenda ad essi la luce perpetua, cioè gli chiediamo che riposino in eterno avvolti dalla luce divina per sempre (perpetua). E qui le cose si complicano, perché dormire per un po’ va bene, ma se uno continua a vivere dormendo per sempre direi che è molto noioso, è come essere morti, e allora bisogna intenderci sul significato di questo riposo. Ripeto, defunti, non morti, vuol dire che hanno cessato un’attività e ne cominciano un’altra, cioè uno dorme per rinfrancarsi dalla stanchezza per poi riprendere la vita con maggiore energia. Allora, l’eterno riposo si riferisce certamente al riposo eterno dalle fatiche dell’esistenza, ma soprattutto al “riposarsi in Dio”. Riposarsi in Dio vuol dire essere permeati completamente dal suo amore diventando così come Lui. E Dio cosa fa? Dio è una presenza viva che continua ad essere presente in noi col suo spirito, che lavorare per noi infondendoci il suo amore. Allora, se i defunti sono in piena comunione col Signore, non sono inattivi. Ci riposeremo in paradiso, si è soliti dire: si, ci si riposa dalle fatiche terrene, ma si comincia un altro lavoro. Il lavoro dei defunti è quello di continuare insieme a Dio a collaborare con lui nel donare l’amore di Dio, che è vita, a tutti noi. Del resto, è quello che è accaduto a Gesù. Quando Gesù risorto si separò fisicamente dai suoi (che è la sua ascensione al cielo), fu un male o un bene? Fu un bene, lo disse egli stesso: è bene per voi che io me ne vada, perchè vi manderò il mio spirito che sarà con voi per sempre. Per questo la morte non allenta i rapporti umani, ma li potenzia. È cristianamente sbagliato dire che il defunto “viene a mancare all’affetto dei suoi cari”, perché con la morte il suo affetto si dilata e avvolge tutti. Disse san Domenico ai suoi frati prima di morire: non piangete, io vi sarò più utile dopo la mia morte e vi aiuterò più efficacemente di quando ero in vita. La buona notizia del vangelo è che con la morte la persona continua la sua esistenza in una diversa dimensione, in una continua crescita e trasformazione. Con la morte, dice san Paolo, la vita non è tolta, ma trasformata. Per cui, vedete, noi cristiani non veniamo al cimitero per piangere dei morti, ma per ringraziare il Signore della vita, per renderci conto che in queste tombe ci sono solo i resti biologici dei nostri cari, e che davvero il seme messo per terra deve morire per fiorire e portare frutto, che dunque questo luogo non è la meta del nostro pellegrinaggio terreno, ma il luogo del passaggio, della Pasqua, appunto. E chi crede in questo, dice Gesù nel vangelo, ha la vita eterna. Non dice “avrà”, al futuro, ma “ha”, al presente. Cioè, la risurrezione non riguarda solo i morti, ma noi che siamo vivi. Siamo noi vivi che se crediamo a Gesù abbiamo la vita eterna, la vita di Dio dentro di noi, che ci apre ad orizzonti sconfinati, che ci fa essere vivi adesso, perché animati dalla certezza che la vita non muore, che i nostri cari sono vivi, che non dobbiamo aspettare un giorno lontano per incontrarli, ma possiamo continuare a sentirli presenti in mezzo a noi.