Vorrei proporvi tre brevi pensieri a partire dalle tre letture che la liturgia oggi ci propone in occasione della Festa della Famiglia.
Partiamo dalla prima lettura, presa dal libro del Siracide. Qui si dice che da Giacobbe, l’ultimo patriarca di Israele, figlio di Isacco e nipote di Abramo, Dio fece sorgere un uomo mite, amato da tutti, che fu scelto per udire la voce di Dio e ricevere da Lui i comandamenti per
poterli poi insegnare a Giacobbe stesso. E’ chiaro che si sta parlando di Mosè, solo che Mosè visse secoli dopo Giacobbe: come avrebbe potuto insegnare a Giacobbe i comandamenti? Sarebbe come se io adesso potessi insegnare qualcosa ai miei antenati che sono morti. E invece è molto interessante questa cosa. Indica il fatto che non è vero che sono solo i padri a insegnare qualcosa ai figli, ma anche i figli ai loro padri. Applicato alla vita familiare significa che la famiglia deve imparare ad essere il luogo della comunicazione, nel quale ognuno ha da imparare dall’altro. E perché questo accada, occorre che ogni componente della famiglia si senta amato, stimato e ascoltato. Non è forse vero che ogni crisi familiare di qualunque tipo nasce proprio quando qualcuno mette al primo posto solo le proprie esigenze, quando non ci si ascolta e non ci si stima reciprocamente?
Secondo pensiero, che attingo dal brano della lettera agli Efesini di san Paolo che ripropone il quarto comandamento, “onora il padre e la madre”. Di solito viene spiegato ai bambini traducendolo così: obbedisci ai genitori e rispettali. E se un genitore diventa un orco o si comporta in modo indegno coi figli rovinandogli la vita, oppure schiavizza i figli e pretende di decidere sulle scelte della loro vita va forse obbedito? Certamente no, anche se questo a volte accade, forse proprio perché questo comandamento è inteso molto male. Come tutti i comandamenti, non è rivolto ai bambini, ma agli adulti, ed è davvero rivolto a tutti, perché non tutti nella vita diventiamo padri o madri, ma tutti siamo figli di qualcuno. In quell’epoca, dove non esistevano le pensioni, i genitori erano a carico del figlio primogenito, che doveva mantenerli, e mantenere economicamente era un impegno. Per cui, “onora il padre e la madre” significa prendersi cura dei genitori quando a una certa età ritornano bambini, anche economicamente se ne avessero bisogno. Oggi spesso è il contrario: la precarietà del lavoro fa si che siano i genitori a dover mantenere i figli fino a tarda età, anche se spesso accade che vi siano figli che, pur potendo essere indipendenti e fare la loro vita, restano sempre in casa, o per loro comodo o perché hanno genitori egoisti che non li lasciano andare. Dunque, l’onore ai genitori è un segno di riconoscenza, è rendere il bene per il bene ricevuto. Onorare vuol dire “dare peso”, tenere in considerazione: è un verbo che viene usato verso Dio e, nella formula matrimoniale, verso il coniuge. Ed è bellissimo che questo comandamento, a differenza degli altri, sia accompagnato da una promessa, quella della gioia e di una lunga vita. Che non vuol dire vivere fino a 120 anni, ma che c’è più vita nella nostra vita: si vive meglio perché si scopre che tutto è un dono per cui dire grazie, e saper dire grazie è proprio il senso dell’eucaristia che stiamo celebrando, perché “eucaristia” significa “rendere grazie” al Signore perché, col suo Spirito, mai ci abbandona e sempre ci accompagna.
Il terzo pensiero lo prendo dal brano di vangelo che potremmo intitolarlo con lo slogan di questa Festa della Famiglia 2019 e che è anche il titolo della lettera pastorale del nostro Arcivescovo: Cresce lungo il cammino il suo vigore. Sono le parole del salmo 84 che è la preghiera dei pellegrini che percorrevano chilometri per andare in pellegrinaggio a Gerusalemme. Un conto è vivere la vita da vagabondi, un altro viverla da pellegrini, perché si ha uno scopo. E se si ha uno scopo, lungo il cammino cosa succede? Che le energie e le forze, invece di affievolirsi, si rafforzano, cresce appunto il vigore lungo il cammino. Ebbene, i pochi episodi evangelici che raccontano di Maria e Giuseppe con Gesù bambino, sono sempre racconti di pellegrinaggio: da Nazaret a Betlemme per il censimento, da Betlemme in Egitto per fuggire alla persecuzione di Erode e dall’Egitto di nuovo a Nazaret, che è il racconto di oggi. Cosa ne ricaviamo per la vita delle nostre famiglie? Penso almeno tre cose. La prima: come sia indispensabile non perdere mai di vista la meta: perché ci siamo sposati, perché abbiamo voluto dei figli? Solo la risposta positiva a queste domande consente di superare ogni tipo di avversità, altrimenti il vigore del cammino non si accresce, ma si affievolisce fino addirittura a scomparire. La seconda cosa. Gesù e i suoi genitori furono anch’essi migranti e profughi come milioni di uomini e donne di oggi, e se l’Egitto non li avesse accolti sarebbero morti. Ebbene, nelle nostre famiglie cosiddette cristiane, di questi drammi con quale spirito se ne parla? Con lo spirito del vangelo o con quella del “prima noi”? Terza cosa, collegata a questa. Si stabiliscono a Nazaret, in Galilea, una regione di Israele lontana da Gerusalemme, piena di gente non ebrea proveniente da popoli pagani, una regione già a quei tempi multietnica, malvista dai giudei ortodossi che vivevano a Gerusalemme e che verso gli stranieri nutrivano sentimenti di odio. Ebbene, Gesù vivrà per trent’anni in un posto così, con gente che aveva religioni e culture diverse dalla sua e della propria famiglia. Non sarà
anche questo tipo di formazione alla base del suo insegnamento sull’amore universale di Dio che dobbiamo fare
nostro?