venerdì 1 novembre 2019

TUTTI I SANTI

Il testo dell’Apocalisse che la liturgia ci offre nella solennità di tutti i santi descrive una scena meravigliosa che vale la pena rileggere e spiegare, tenendo sempre presente che la parola “apocalisse” non vuol dire “catastrofe”, ma “rivelazione”. Il libro dell’Apocalisse non parla della fine del mondo e di catastrofi, ma rivela il senso della storia alla luce della Pasqua di Gesù. Gesù è venuto,
è morto e risorto? E allora? Cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che la sua Pasqua ha tolto il velo, ci fa vedere qual è il senso della storia vita, verso cosa siamo incamminati, come dobbiamo vivere la vita, qual è il nostro destino. Coloro che pensano, vivono, gioiscono, soffrono, muoiono come Gesù, risorgono come Gesù, vivono già adesso, in questa vita terrena, una vita immortale, che non avrà mai fine. Costoro, abbiamo letto nel brano di oggi, sono anzitutto i 144.000 che provengono dalle tribù di Israele e che vengono segnati con un sigillo. Perché 144.000? L’Apocalisse è costellato di simboli che vanno decifrati. Se moltiplichiamo 12x12x1000, il risultato è 144.000. 12 sono le tribù di Israele, 1000 è il numero che indica la storia, il sigillo è il segno di chi appartiene a Dio. Quindi, i 144.000 indica tutti gli israeliti, il popolo eletto, che nel corso della storia aderiscono a Gesù. Ma ad essi si aggiunge, dice il testo, “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”: il che significa che la possibilità della salvezza è offerta a tutti. Infatti tutti costoro “sono in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tengono rami di palma nelle loro mani”. Il trono simboleggia il governo, e su questo trono c’è un Agnello, dove l’agnello è Gesù che dà la sua vita: vuol dire che Dio non governa il mondo con la forza, con la potenza, decidendo lui tutte le cose, ma lo governa consegnandosi come agnello nelle mani di tutti, e ci chiama ad essere suoi collaboratori. Quindi la salvezza, la vita immortale, la risurrezione è data a chi? A tutti quelli che si lasciano governare dallo Spirito del Signore, disposti come agnelli a vivere non come lupi che mangiano gli altri, ma nella logica dell’amore e del servizio. Chi vive così la sua vita ha come destino lo stesso destino di Gesù: di essere avvolti di vesti candide e tenere nelle mani i rami di palma, cioè diventare come Dio. Ed è paradossale l’immagine che viene usata per dire questo: le vesti sono rese candide col sangue. Paradossale perché una veste viene resa candida no di certo lavandola nel sangue. La veste è un’immagine che indica la persona. Con questo simbolo si sta dicendo che una persona risorge, ottiene una veste candida, cioè diventa come Dio, non togliendo agli altri la vita, ma donandola. Ecco, potremmo dire che, attraverso questo quadro grandioso, l’autore del libro dell’Apocalisse ha ridetto con altre parole le stesse cose pronunciate da Gesù nelle beatitudini che abbiamo riascoltato nel vangelo. Le beatitudini sono la declinazione del comandamento nuovo dato da Gesù: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”. Gesù afferma: se il tuo programma di vita diventa questo, se vivi come un agnello, allora sei felice, non solo nell’aldilà, ma adesso, qui, scoprirai che c’è più gioia nel dare che nel ricevere, perché dare lo puoi sempre, ricevere non è detto, quindi se basi la tua felicità su quello che vorresti avere o ricevere non sarai mai felice, beato. La felicità non è in ciò che si ha, ma in ciò che si dà. Vanno comprese bene le beatitudini, a partire dalle prime due, altrimenti si rischia di prendere fischi per fiaschi e pensare che Gesù proclami felici coloro che vivono nell’indigenza o nella sofferenza. No, al contrario. I “poveri in spirito” sono coloro che, guidati dallo Spirito di Gesù, si sentono amati da un Dio che è Padre e accolti così come sono, e dunque si sentono responsabili del benessere e della felicità degli altri, per cui decidono di abbassare il loro livello di vita per permettere a quelli che hanno un livello di vita troppo basso di innalzarlo. Sono beati non un giorno, ma ora, “perché di essi è il regno dei cieli” già adesso, perché su di loro “regna” il Signore, si fanno guidare da Lui e diventano come Lui. Saranno beati anche quando sono “afflitti” per non avere corrisposto a questo amore, perché vengono consolati dal Signore che li ama così come sono, diventando a loro volta capaci di consolare chi è afflitto. Lo stesso vale per i “miti”, che sono quelli che non rispondono al male facendo altro male: beati perché, se vivono così, riceveranno la terra, cioè la vita stessa di Dio. Così è per “gli affamati e assetati” della giustizia di Dio, coloro che hanno cioè il desiderio profondo di vivere secondo la logica d’amore di Dio. E vale per i “misericordiosi” che trattano gli altri con la stessa misericordia che Dio usa verso ciascuno. Vale per i “puri di cuore”, cioè per coloro che non hanno doppi fini, che sono trasparenti nel loro agire, che amano non per interesse, ma per la felicità dell’altro: sono beati perché possono vedere Dio, sperimentare la comunione con lui, già ora, perché Dio è così: ci ama senza secondi fini. Anche i costruttori di pace sono beati, perché la pace, in ebraico shalom, è tutto ciò che concorre alla felicità degli uomini: sono beati perché Dio li riconosce come suoi figli, che assomigliano a lui. Qual è il punto? Che coloro che vivono così, come Gesù, vengono perseguitati, perché si attirano addosso l’odio di chi vive con una mentalità diversa. Allora val la pena fare il bene? Si, perché per questo siamo creati, perché è solo la logica eucaristica che vince il mondo, perché sul trono c’è seduto l’Agnello. Per questo Gesù li proclama beati. Questa è la santità. A questo siamo chiamati. Tutti noi che siamo qui anche oggi, nel giorno del Signore (diceva sempre l’Apocalisse), riferendosi alla domenica, il giorno in cui già i primi cristiani si radunavano per celebrare l’eucaristia. Perché la parola santità non significa essere bravi al quadrato, ma santità vuol dire diventare come Dio, realizzare la nostra umanità in questa vita ed essere destinati a vivere per sempre. Noi siamo qui a celebrare l’eucaristia per ricevere come alimento quell’agnello che ci dia la forza ogni giorno di diventare come Lui per partecipare con lui alla sua vittoria sulla morte.