venerdì 4 dicembre 2020

IV DOMENICA DI AVVENTO ANNO B

Sono molto brevi, ma non di facile comprensione, le letture che oggi ci propone la liturgia. Difficile è anche capire cosa le lega tra di loro e cosa le legano al tempo di Avvento, in particolare la pagina di vangelo che ci riporta non al Natale, ma alla domenica delle Palme. Vorrei allora provare adesso a dire 

qualcosa, rimandando all’incontro del lunedì sera una spiegazione più accurata di questi testi. La pagina del profeta Isaia, che è il testo più oscuro delle letture di oggi, si riferisce al periodo storico nel quale gli Assiri invasero Israele, e una piccola regione come quella di Moab, che si trova in Giordania, i cui abitanti erano storici nemici di Israele, avrebbe rischiato di essere distrutta se i suoi abitanti non avessero chiesto asilo politico a Gerusalemme. Allora Isaia i moabiti a mandare un agnello al re di Gerusalemme come segno di pace, di non temere di rifugiarsi a Gerusalemme perché il Signore avrebbe mandato un re mansueto, che non li avrebbe dominati con la forza, e nel contempo invita Gerusalemme ad accogliere nelle sue mura i profughi moabiti. Mi sembra che sia una pagina molto attuale che insegna anzitutto come, di fronte a un comune nemico, l’unione fa la forza, e se pensiamo oggi al quel comune nemico invisibile che è il Coronavirus, è un grande invito ad essere tutti solidali, e non divisi, nel rispetto, anche se faticoso, di tutte quelle restrizioni che occorre osservare per poterlo vincere alla svelta col minor numero di vittime possibile. Ma insegna anche la solidarietà, l’accoglienza e l’aiuto nei confronti di chi nella società ha maggiormente bisogno: in quel tempo si trattava dei profughi moabiti, oggi possiamo metterci dentro profughi provenienti da altri paesi e i più bisognosi che abitano nel nostro stesso paese. Nell’ultima enciclica, Fratelli tutti, proprio all’inizio, Papa Francesco denuncia come purtroppo, a fronte della pandemia che ha coinvolto tutta l’umanità, “al di là delle varie risposte che hanno dato i diversi Paesi, è apparsa evidente l’incapacità di agire insieme. Malgrado si sia iper-connessi, si è verificata una frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano tutti”. Ecco perché diventano ancora più vere e attuali le parole di san Paolo che, nel brano di oggi, prega il Signore perché i cristiani di Tessalonica, che oggi siamo noi, l’intera Chiesa, possano crescere progressivamente in un amore sovrabbondante verso tutti, spiegando che è così che si diventa santi, cioè come Dio. E’ così che Dio viene, quando si vive così. Ed è proprio sul modo col quale Dio viene e interviene nel mondo a giustificare la scelta della pagina di Vangelo che abbiamo ascoltato. Una pagina che si collega con le parole di Isaia a proposito del dono dell’agnello che i moabiti avrebbero dovuto portare al re di Gerusalemme e del re mansueto che Dio avrebbe mandato a Gerusalemme. Nel corso degli anni, questo re era stato identificato nella figura del Messia. Infatti, “l’ingresso del Messia” è il titolo dato dalla liturgia a questa quarta domenica di Avvento. Il Messia sarebbe stato il consacrato del Signore, il suo rappresentante, che avrebbe agito come Dio e nel nome di Dio. Ma i problemi, le tragedie e le dominazioni straniere avevano portato Israele a dimenticare il volto mansueto di questo Messia, e lo attendevano vittorioso e vincitore, che con la violenza avrebbe annientato i nemici e preso il potere. Ma Gesù, che noi riconosciamo come Messia, il Cristo, fin dal momento del suo ingresso nel mondo, nascendo in una mangiatoia, rivela che Dio non è uno che domina, che mangia gli uomini, ma che si fa mangiare dagli uomini, appunto come un agnello mansueto. E quando trent’anni dopo entra a Gerusalemme cavalcando un asino, rivela ancor di più il potere di Dio non è quello di dominare, ma di servire. Gesù compie le parole dei profeti che Gerusalemme aveva dimenticato. Il profeta Zaccaria aveva predetto: «Gerusalemme, guarda il tuo re che viene, giusto, umile, cavalcando un asino»; ma questo passo dell’AT era stato dimenticato dai capi religiosi, che avevano fatto credere al popolo che il Messia avrebbe agito diversamente. Per questo l’evangelista si dilunga nella descrizione di questo asino che era legato e che deve essere slegato dai discepoli, un asino sul quale nessuno era mai salito, perché prima di Gesù non c’è mai stato in Israele un re che compisse questa profezia. Nonostante questo gesto, la folla non capisce, e accoglie Gesù come un re guerriero e vittorioso, che nel nome del Signore avrebbe ricostruito il regno di Davide. Lo acclama come facciamo anche noi nella Messa gridando Osanna, che vuol dire “salvaci”, ma la salvezza che invocavano era quella dai romani. Per questo, pochi giorni dopo, quando si accorsero che Gesù non era venuto per questo, grideranno “sia crocifisso”. Purtroppo, il medesimo errore, se non stiamo attenti, continuiamo a farlo anche noi. Pur celebrando un Signore che viene in una mangiatoia, che si identifica in un asino che porta i pesi di tutti, che si presenta come agnello mansueto, che soffre e che muore, macchè: noi continuiamo a rivolgerci a Dio per chiedergli di intervenire con potenza a farci le grazie di cui abbiamo bisogno risolvendoci i problemi, salvo poi bestemmiarlo o perdere la fede quando vediamo che non interviene. Non abbiamo ancora capito Dio viene e interviene quando la nostra preghiera diventa il canale col quale accogliamo il suo Spirito che ci trasforma dall’interno, che ci fa sentire figli amati, che ci libera dalle nostre paure e, in mezzo al male, ci rende tutti fratelli capaci di superare i nostri egoismi e di costruire una nuova società, il suo Regno nel mondo.