martedì 3 gennaio 2023

1/1/23 OTTAVA DEL NATALE

La prima lettura parla di benedizione, e la ascoltiamo ogni anno in questo giorno che dà inizio all’anno nuovo, e noi all’inizio di un nuovo anno imploriamo la benedizione del Signore, come l’hanno implorata tutte le famiglie che anche quest’anno abbiamo visitato prima di Natale, ma è molto difficile 

associare la parola benedizione a tutti gli avvenimenti che procurano paura, tristezza, lutti, crisi. Per molti, anche quest’anno non è stato un anno di benedizionI: forse Dio si è dimenticato di noi, forse non siamo degni della sua benedizione o non ci ascolta, e allora continuiamo ad invocarla perché magari è sordo? Nel vangelo c’è una frase apparentemente scontata che può aiutarci a rispondere a queste domande così laceranti, là dove si dice “gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo”. Magari i suoi genitori lo avrebbero chiamato con un altro nome, e invece lo chiamano come voleva Dio. E’ un po’ come il contrasto che avvertiamo anche noi quando nella vita cerchiamo di dare un nome alle cose per identificarle e riuscire a gestirle. Quando non riusciamo a dare un nome alle cose, esse ci sfuggono, non le capiamo e ci fanno paura, e cerchiamo qualcuno che riesca a dare un nome alle cose. Pensiamo alla medicina, quando chiediamo al medico di dare un nome ai disturbi e alle malattie. Del resto, come si legge nella Genesi, Dio chiede all’uomo di dare un nome a tutte le creature. Ma ci sono delle cose a cui non riusciamo a dare un nome. Per esempio la parola stessa “benedizione”. Quando il nome lo diamo noi, intendiamo che le cose funzionino e vadano bene, infatti molti aspettano con trepidazione la benedizione come una sorta di talismano portafortuna, e infatti vogliono che sia il prete, come se fosse uno stregone, a portarla, perché quella della suora vale di meno, figuriamoci se in casa venisse un laico, come invece accade in moltissime parrocchie senza nessun problema. Quando invece il nome lo dà Dio, intende che tu possa avere la forza di dire-bene (bene-dire) in ogni contesto della tua vita, anche di fronte a un anno andato male. Ecco, dunque, la sfida che oggi ci viene fatta: accogliere il nome che Dio dà alle cose che, a volte, è diverso da quello che diamo noi. Non è semplice, richiede umiltà e fiducia. Mi viene in mente san Francesco che dava alla lebbra il nome di schifezza, perché nei lebbrosi si concentrava tutto lo schifo della società. Un giorno, scrive, il Signore mi usò misericordia, cioè mi cambiò prospettiva, scese dal cavallo delle sue certezze, abbracciò e baciò un lebbroso, e scrive: tutto quello che mi sembrava amaro fu mutato in dolcezza, quello che chiamavo amaro, schifo, fu mutato in dolcezza, perché Dio dà un altro nome alle cose. Molte volte, quello che noi chiamiamo bene, Dio lo chiama male, e viceversa. Quello che noi chiamiamo peccato che ci schiaccia, Dio lo chiama luogo in cui manifestarci il suo perdono che ci permette di ricominciare. Quello che noi chiamiamo tragedia, Dio lo chiama occasione in cui rimboccarci le maniche con la forza del suo Spirito. Quella che noi chiamiamo morte, Dio la chiama compimento dell’esistenza, nuova nascita, risurrezione. Quelli che noi chiamiamo nemici, Dio li chiama figli e nostri fratelli da amare. Nel messaggio per la pace di quest’anno, il Papa denuncia come il virus della guerra sia più difficile da debellare rispetto a quello del Covid, precisamente perché non permettiamo a Dio di trasformare i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Quello che noi chiamiamo semplicemente “anno nuovo”, la Chiesa da sempre invita a chiamarlo “anno del Signore”, perché ogni anno è accompagnato dalla presenza del Dio-con-noi, che ha preso la nostra carne, che è vivo ed è con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo. Senza dimenticare che per noi cristiani, l’anno civile è scandito non dai mesi, ma dai tempi liturgici nei quali ripercorriamo i misteri della vita di Cristo: Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua, Pentecoste fino alla festa di Cristo Re, per ricordare a noi stessi (come ripetiamo nel Credo) che tutta la storia dell’umanità e del piccolo passaggio sul pianeta Terra di ciascuno di voi, costellato di gioie e dolori, non è destinato alla dissoluzione, perché parte da Dio e arriva a Dio che ci sostenta col pane di vita di cui tra poco ci nutriremo, che egli ci dona per farci diventare come Lui. Per questo la Chiesa canta il Te Deum di ringraziamento alla fine di un anno, anche fosse andato tutto storto, e chiama la Messa col termine Eucaristia, che vuol dire rendimento di grazie, anche quando parrebbe che non ci sia nulla per cui dire grazie al Signore. Certo, finchè pensiamo che sia Dio quello che decide i cambiamenti climatici, chi guarisce da una malattia e chi muore, chi si salva da un incidente e chi no, ci sarà sempre qualcuno che ringrazia e molti che bestemmiano. Dio, invece, ci ha rivelato Gesù, è colui che è capace, col suo Spirito, di dare un nome nuovo alle cose, cioè di farcele vedere e vivere in un modo nuovo: per questo è nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre al Signore. E quindi io penso il senso degli auguri che ci facciamo sia proprio quello di imparare a metterci in sintonia col nome che Dio dà alle cose. E quale potrebbe essere il modo, l’atteggiamento che potrebbe aiutarci a fare tutto questo? Ed è ancora proprio questa breve pagina di vangelo a darcelo, dicendo che Maria custodiva tutte queste cose che erano successe meditandole nel suo cuore. Ecco: imparare ad andare in profondità, non reagire immediatamente a quello che succede, non restare in superficie, ma andare a fondo. In latino, la parola con cui si dice “profondo” è la stessa con cui si dice “alto”: andare in profondità, trovare momenti di silenzio nelle nostre giornate può essere il modo per metterci in sintonia col nome che Dio dà alle cose.