lunedì 31 ottobre 2022

II DOMENICA DOPO LA DEDICAZIONE (ANNO C)

Queste settimane dopo la Dedicazione ci stanno facendo contemplare il mistero della Chiesa a cui tutti noi apparteniamo, la Chiesa come corpo di Cristo di cui noi siamo le membra, chiamata ad essere 

riflesso di Gesù nel mondo, quindi chiamata a testimoniare a tutti l’amore di Dio, non a parole, ma con i fatti, e questo diventa, per me e spero per tutti, motivo per chiederci se davvero è così. Questa è la missione di tutta la Chiesa, di tutti i cristiani sparsi nel mondo, non solo di Don Andrea che partirà per il Brasile e di tutti i missionari, ma anche di noi che restiamo a casa e viviamo in questa società. Il mese di ottobre che volge alla fine, la giornata missionaria mondiale di domenica scorsa sono stati occasioni proprio per farci riflettere su tutte queste cose. E le letture di questa domenica non fanno altro che ribadirle, sottolineando, come dice il titolo che viene dato alla liturgia di oggi, che tutte le genti, cioè tutti i popoli della terra, sono destinati da Dio alla salvezza. Questa parola, salvezza, che noi pronunciamo spesso, è un termine che esprime tanti significati, su tutti uno: la salvezza è la possibilità di vivere una vita pienamente umana, e questa vita pienamente umana la si vive nel momento in cui si impara a riconoscersi figli amati da un Dio che è Padre e a vivere come fratelli e sorelle, quindi non odiandoci e ammazzandoci. È il sogno di Dio, il suo progetto, la sua volontà. È il Regno che Gesù è venuto ad annunciare e ad inaugurare con le sue parole e con la sua vita, con la sua umanità, appunto per darci un esempio perché ne seguiamo le orme, e siamo proprio noi che apparteniamo al suo corpo che la Chiesa i primi chiamati in causa, perché questo sogno di Dio non resti solo un’utopia. A volte ci riusciamo, a volte no, purtroppo, però siamo in cammino e non dobbiamo scoraggiarci anche quando tutto sembra remare contro, ed è precisamente ciò che racconta Gesù nella parabola del vangelo. Una parabola per spiegare cos’è il Regno dei cieli, o Regno di Dio, che, badate bene, non è qualcosa che riguarda l’aldilà, non è un regno nei cieli, ma è la nuova società alternativa che Dio vuole inaugurare su questa terra: come in cielo, così in terra. E a cosa lo paragona? A un re che fece una festa di nozze per suo figlio alla quale tutti sono invitati. In tempo di grande fame e miseria si aspettavano proprio queste occasioni per potersi abbuffare e fare festa, quindi è un’immagine meravigliosa, già utilizzata dai profeti prima di Gesù, come testimonia la pagina di Isaia che è stata letta: il Signore vuol preparare per tutti i popoli un banchetto di grasse vivande, di vini eccellenti, di cibi succulenti, vuole strappare la tristezza, eliminare la morte, asciugare le lacrime dai volti e ristabilire la giustizia. Insomma, il Regno di Dio è un’umanità che vive non mangiandosi, ma mangiando insieme, vivendo la fraternità. Eppure, da sempre c’è chi rifiuta questo progetto: tanti invitati alle nozze non vollero venire. Perché? Perché pensavano ai propri interessi, e chi ragiona così, pensando solo a sé stesso e a ciò che gli conviene, non trova produttiva questa cosa: infatti il mondo è regolato anche oggi, come allora, dalle regole del mercato, non della solidarietà. Dio è un illuso, verrebbe da dire. Eppure, non si arrende, continuando a mandare profeti, che sono tutti coloro che invece cercano di vivere nella logica di Dio. Ma qual è la triste sorte per chi rifiuta questa logica? Gesù lo dice con un linguaggio colorito, tipico dei profeti: il re fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Si riferiva alla sorte che sarebbe capitata a Gerusalemme, quindi sono parole che non esprimono un castigo, ma la sorte che spetta agli uomini quando vivono secondo una logica contraria, cioè morte e distruzione, come testimonia anche la guerra in corso. Però, Dio, l’illuso, non si arrende, e infatti Gesù mette in bocca al re queste parole: diede ordine ai servi di andare ai crocicchi delle strade, cioè alle periferie, come anche il Papa continua a ripetere, là dove vivono gli esclusi e gli emarginati, i lontani, appunto perché non c’è un popolo eletto, ma una chiamata universale alla salvezza, a chiamare, notate bene, prima i cattivi, e poi i buoni, per indicare che l’amore di Dio è offerto a tutti, non è concesso come un premio per i meriti delle persone, ma come un regalo per i loro bisogni. Poi la parabola si conclude con una scena enigmatica. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale e ordinò di legarlo e gettarlo nelle tenebre dove è pianto e stridore di denti. Anche queste parole vanno capite bene. La veste, nel Nuovo Testamento e nel libro dell’Apocalisse, indica le opere buone delle persone, e il re rimprovera questa persona che non ha l’abito, per indicare che non basta entrare nella sala del banchetto. L’invito è aperto a tutti, ma una volta entrati occorre cambiare. Gesù ha messo la conversione come condizione per appartenere al regno di Dio. A una società basata sui valori dell’avere, del salire, del comandare, Gesù offre una possibilità alternativa dove ci sia la condivisione, il servire. Questo è l’abito, quindi non basta entrare, ma bisogna cambiare, altrimenti è tutto inutile, si butta via la vita: o si vive così o non si va da nessuna parte (questo significa il pianto e lo stridore di denti). E conclude: “Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”. Per molti si intende tutti. L’amore di Dio è rivolto a tutti, ma purtroppo ci sono poche persone che l’accolgono in pienezza. È sotto i nostri occhi. Ma noi che siamo qui oggi al banchetto preparato dal Signore, con quale abito, con quale disposizione, almeno d’animo, siamo qui?